Enzo Bianchi – Il “cono d’ombra” della vita religiosa

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Il volto delle chiese dell’occidente europeo e dell’America settentrionale e la loro presenza nella storia stanno vivendo una rapida mutazione. C’è un dato di cui tutti sembrano più o meno convinti: appare vistoso il passaggio da una chiesa onnipresente nella società, capace di influenzarla, numericamente imponente, a una situazione di minoranza che, in alcune regioni, è ormai di vera e propria diaspora. Ma purtroppo le diverse letture ecclesiali o sociologiche di questo mutamento non prestano sufficiente attenzione alle sue ricadute nella vita religiosa e monastica.

Eppure fino a pochi decenni fa la vita cattolica è stata caratterizzata da una presenza multiforme e capillare della vita religiosa. Si pensi solo alle “suore”, queste religiose dedite alle diaconie più diverse: l’educazione dei bambini anche nei più piccoli paesi e villaggi, l’insegnamento nelle scuole “cattoliche”, la presenza negli ospedali, l’attività di catechesi e di pastorale creativa, efficace, quotidiana… La mia generazione può testimoniare che la formazione cristiana, da bambini fino alla giovinezza, è stata assicurata dalle suore e che la vicinanza, la prossimità concreta della chiesa alle famiglie e ai poveri è stata assicurata soprattutto dalle suore.
Ma ora a nessuno sfugge che assistiamo non più a una drastica diminuzione di questa vita religiosa, ma a uno spegnimento (cf. A. Pardilla, La realtà della vita religiosa, Libreria Editrice Vaticana 2016). Dagli anni del concilio, la diminuzione delle religiose in Europa oscilla tra il 50% e il 65%, le vocazioni sono rarissime o, per molti istituti, completamente assenti, così che l’età media delle religiose in Europa si avvicina ai settantacinque anni. La vita di molti istituti religiosi femminili si è fatta precaria e la chiusura di attività gestite dalle religiose e dei loro stessi luoghi di vita si farà sempre più frequente, dato l’insufficiente numero di suore. Anche per la vita monastica femminile la situazione non è molto diversa. In Italia i monasteri che non conoscono questa precarietà si contano sulle dita di una mano e solo due di loro mostrano in questi decenni anche una costante vitalità, ma negli altri si fa sempre più esiguo il numero di monache presenti e sempre più marcato l’invecchiamento che rende problematico se non impossibile un dinamismo capace di attirare e accogliere nuove vocazioni.

Per quel che riguarda i religiosi, la situazione non è differente, come denunciano gli stessi superiori delle congregazioni che continuano a chiudere case e attività pastorali. Anche la diminuzione dei loro effettivi dal concilio a oggi supera il 50%; inoltre l’esiguo numero di religiosi nelle singole case e il servizio pastorale richiesto – che invece non diminuisce in proporzione – sottraggono tempo ed energie per la stessa preghiera comune: sovente la comunità si riduce a una convivenza sotto lo stesso tetto, a una équipe di lavoro più o meno capace di percepirsi ed essere percepita come autentico soggetto di presenza religiosa e di pastorale.
Quanto poi ai monaci, le poche comunità rimaste faticano persino a eleggere un abate, mentre altre sono ridotte a un’esigua presenza di anziani che attraversano più o meno bene la loro vecchiaia. Padre Gianni Dal Piaz, con franchezza e competenza da sociologo ma anche con partecipazione di monaco attento alle dinamiche della vita religiosa, parla dell’attuale situazione come di un “lungo transito, un inarrestabile declino”, di “un inverno” al di là del quale non si intravede alcuna primavera.

In ogni caso, va detto con chiarezza, i religiosi sono in una situazione non di decadenza spirituale, bensì di povertà, una povertà economica e di persone, povertà umana che significa vita quotidiana più faticosa, debolezza e fragilità di tutto il corpo comunitario, difficoltà a intravedere un futuro ancora fecondo.
Sì, parresia evangelica vuole che la situazione sia presentata quale essa è: precarietà, diminuzione e prossima scomparsa di molte delle attuali forme di vita religiosa e monastica. E va riconosciuto anche che non si intravedono segni che, scomparse queste forme tradizionali di vita religiosa rinnovate dal concilio, ci sia posto per nuove forme e nuove comunità. Anzi, quelle che sono nate negli ultimi decenni non sono in espansione ma gemono, conoscendo a loro volta la precarietà, e comunque non paiono in grado di creare un cambiamento di tendenza. Le vocazioni infatti sono rare e inoltre in alcune nuove comunità sono presenti lati non chiari, al punto da rendere necessari interventi dell’autorità ecclesiastica per rimuovere patologie anche gravi.

Nel leggere e rileggere da anni questa situazione, l’aspetto che mi fa soffrire e mi inquieta maggiormente è l’afonia, l’assenza dei vescovi. È vero che la vita religiosa ha voluto per se stessa un regime di esenzione ma, in una chiesa che oggi sente finalmente il vescovo come il compaginatore e il garante dei carismi e delle diaconie, com’è possibile questo disinteresse? Questa lenta scomparsa della vita religiosa sembra non preoccupare o, al più, essere letta come un destino inesorabile da accettare passivamente. Così la vita religiosa e la vita monastica sono entrate, a partire dagli anni ottanta, in un cono d’ombra: nessuno pone domande, nessuno pare prendere a cuore la questione, quasi che l’unica preoccupazione dei vescovi sia poter avere presbiteri. Ne consegue che la pastorale vocazionale, comunque sovente molto sterile, si interessa solo delle vocazioni presbiterali o, tutt’al più, di quelle forme di vita non religiosa che assicurano servizi diretti alla chiesa locale.

Chi crede ancora concretamente che la vita religiosa è “memoria del Vangelo”, memoria della “forma di vita” di Gesù nel celibato e nella comunità? Chi crede ancora che sia necessario che uomini e donne – senza dimenticare il comandamento nuovo dell’amore reciproco fattivo, concreto, quotidiano – possano vivere la parabola della comunità, dedicandosi soprattutto all’ascolto della Parola, alla vita fraterna e all’ospitalità aperta a tutti? È significativo che la scarsa e marginale attenzione attuale per la vita religiosa si focalizzi su ordini e congregazioni apostoliche: lì infatti prevalgono i presbiteri dedicati all’azione pastorale nella chiesa locale e quindi potenziali succedanei dei presbiteri diocesani.

Chi dovrebbe vegliare sulle diverse vocazioni nella chiesa non sembra invece dedicare alcuna attenzione alla vita religiosa, ancora meno a quella femminile; chi dovrebbe indicare la vita religiosa come via di conformità di tutta una vita a Gesù non adempie questo compito; chi dovrebbe chiederle di vivere in modo autentico la vocazione segnata da celibato e vita comune resta afono. Mi rincresce constatare l’assenza nella chiesa cattolica di questa sollecitudine invece così presente nelle chiese ortodosse. Là la vita monastica è indicata come necessaria alla chiesa, luogo di “memoria evangelica” e, di conseguenza, viene stimolata e tenuta in considerazione non mondanamente ma evangelicamente.

Religiose, religiosi, monaci e monache sono oggi veramente delusi e io che li ascolto quotidianamente non posso tacere. La latitanza della chiesa che, così facendo, renderà presto i religiosi una sua “parte mancante”, è una grave responsabilità, perché una chiesa cattolica senza di loro vedrà mutilata la sua testimonianza escatologica e la sua capacità di prossimità alla gente, quella delle periferie urbane, certo, ma anche quella dei piccoli paesi e dei villaggi dimenticati.

Vorrei porre anche un’altra domanda: in Italia le vocazioni presbiterali e religiose si sono rarefatte in modo evidente, e in certe regioni – come Piemonte, Liguria, Toscana… – ci si chiede soprattutto quale sarà la presenza di presbiteri fra dieci anni, mentre i religiosi stanno ormai scomparendo. In Puglia, invece, al seminario regionale di Molfetta sono presenti più di duecento studenti che si preparano al presbiterato. Come mai, nella stessa regione in cui gli aspiranti presbiteri sono numerosi, restano rarissime le vocazioni alla vita religiosa e soprattutto monastica? Quali le ragioni di questa “mancanza di attrattiva” della vita religiosa? Sono solo interne ad essa – e al suo non apparire eloquente né significativa – o dipendono anche da come la chiesa svolge ala sua pastorale vocazionale, da come presenta le possibili vie alla santità, dalle indicazioni di urgenze che escludono altre forme di presenza e diaconia ecclesiale?

Comunque, anche nella crisi che attraversa la vita religiosa, i suoi membri continuano a sentirsi “sentinelle” poste sulle mura della chiesa (cf. Is 62,6-7) che giorno e notte non devono tacere per ricordare al Signore le sue promesse, per ricordare con affetto ai fratelli e alle sorelle nella fede che il Signore viene presto e che è possibile attenderlo senza raffreddare la carità (cf. Mt 24,12), l’unica realtà-segno da cui sono riconosciuti discepoli di Gesù. Se i religiosi vivono il “nulla preferire a Cristo” (Regula Benedicti 72,11), allora vivono ciò che il Signore ha chiesto loro come missione, anche nel cono d’ombra in cui oggi dimorano.

Articolo pubblicato su Vita Pastorale – Rubrica “Dove va la chiesa”- Giugno 2018 di ENZO BIANCHI