La storia di una vocazione tormentata, che abbiamo già descritto e commentato. Ora la riprendiamo da un’altra angolatura. Stiamo riferendoci alla sconcertante vocazione matrimoniale del profeta Osea, spinto da Dio a costruirsi una famiglia con una prostituta che poi lo abbandonerà. All’interno di questa esperienza nuziale – che verrà assunta come segno per tutto Israele, comparato a una sposa infedele nei confronti del suo Signore – c’è una vocazione consequenziale, quella della paternità.
Nel racconto autobiografico che Osea ci ha lasciato nei primi tre capitoli del suo libro ci si imbatte, infatti, nei suoi tre figli, due maschi e una femmina, ai quali egli assegna nomi sorprendenti, di valore simbolico, proprio per continuare il significato ulteriore universale che la sua travagliata vicenda familiare poteva assumere. Ecco quei nomi “impossibili” ma significativi: Izreel, dato al primogenito, era quello di una città ove si erano consumati delitti pubblici e privati (1Re 21; 2Re 10); Lo’-ruhamah, “Non amata”, per la bambina; Lo’-‘ammî, “Non mio popolo”, per il secondo maschietto.
Nomi che incarnavano sia il peccato di Israele, sia il rigetto del Signore nei suoi confronti. Naturalmente, una volta che Dio e il suo popolo si fossero riconciliati, proprio come sperava Osea per sua moglie Gomer, i tre nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe ripreso il suo valore etimologico originario, cioè “Seme di Dio”, quindi “fecondo”; gli altri due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”, e ‘Ammî, “Popolo mio”.
Allora il profeta li avrebbe accuditi con amore. È così che affiora la vocazione di Osea alla paternità affettiva, in una pagina emozionante, nel capitolo 11 del suo libro. Chi è genitore conosce bene la fatica e tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare per convincere un bambino riottoso a mangiare un cibo necessario ma a lui sgradito, così come non ha certo dimenticato la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna al proprio figlio a camminare. A ogni caduta bisogna subito ricorrere a un bacio o a un abbraccio per placare il piccolo che si abbandona a un pianto inconsolabile.
Questa sensibilità paterna domina la duplice scenetta che il profeta applica al Signore che è alle prese con un figlio così capriccioso com’è Efraim, cioè Israele. Ecco le parole divine rivestite della tenerezza paterna di Osea: «A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che io avevo cura di loro. Io li attiravo con legami di bontà, con vincoli d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,3-4).
La genitorialità non è, quindi, un mero fatto genetico come può valere per gli animali; per il padre e la madre è una vera vocazione che comprende una missione. Essa ha la sua manifestazione non solo nella cura materiale del figlio, ma anche e soprattutto nella sua formazione ed educazione. Non dimentichiamo, allora, pur nella sua ironia brutale, la battuta dello scrittore ottocentesco inglese Oscar Wilde: «All’inizio i figli amano i genitori. Dopo un po’ li giudicano. Alla fine raramente, o quasi mai, li perdonano».