Conferenza Episcopale Italiana
71a ASSEMBLEA GENERALE
Roma, 21 – 24 maggio 2018
Il presente intervento è costruito su due idee portanti.
Puoi scaricare il file Word qui.
La prima è che la storia della comunicazione umana si possa leggere attraverso la categoria della registrazione. Essa inizia, pertanto, nel momento in cui l’oralità primaria viene sostenuta (e poi modificata) dall’avvento dei primi sistemi di scrittura e continua fino a oggi. Non si esce dalla logica della registrazione, infatti, né con la fotografia, né con il cinema e la televisione: il tratto grafico viene sostituito dall’impressione fisica e dalla traccia magnetica, ma si rimane dentro l’orizzonte della registrazione. E si rimane dentro tale logica anche dopo l’avvento del digitale: gli smartphone, i sistemi di videocomunicazione, la sfera dei social, più che come forme di oralità di ritorno, si possono infatti leggere come cifre di una permanenza della registrazione. Su uno smartphone scriviamo e leggiamo messaggi, archiviamo i nostri dati, lasciamo attraverso di esso tracce del nostro passaggio e della nostra attività. La storia della comunicazione e dei media è una storia grafocentrica (Derrida, 1967; Ferraris, 2005): il tratto, l’incisione, la traccia, sono il sintomo emblematico della loro vicenda evolutiva.
La seconda idea è che la storia della salvezza sia una storia di comunicazione. La Parola, al Principio di tutto, “dice” le cose portandole all’essere. Javhè è un Dio in dialogo costante con il suo popolo. È un dialogo fatto di ascolto, di disponibilità, di chiamate; un dialogo fedele che spesso l’uomo interrompe. Questa storia di comunicazione è, quindi, anche una storia di tradimenti: dalla disobbedienza edenica al rinnegamento di Pietro. Ma è anche la storia di un Dio la cui Parola definitiva è il Suo stesso Figlio, il «perfetto Comunicatore» (CP, 11) comunicato agli uomini per avere ragione con la sua Morte e Resurrezione di tutti i loro tradimenti. La comunicazione come dono gratuito, come per-dono, come dono all’ennesima potenza che apre definitivamente lo spazio della Salvezza.
Da queste due idee discendono altrettante ipotesi di lavoro.
La prima è che tra la comunicazione e le sue forme, la storia della salvezza e la vita e l’azione della Chiesa, vi sia una relazione privilegiata. La comunicazione non è un’opzione per la Chiesa, non è una scelta possibile che, quindi, contempla anche la possibilità di altre scelte. La comunicazione è piuttosto un destino, una necessità, una missione non aggirabile e lo diviene a maggior ragione dentro lo spazio attuale della comunicazione contrassegnato da una progressiva scomparsa dei media dentro le cose e dentro le relazioni tra le persone.
La seconda idea è che in tutti e due i casi, quello della Chiesa e quello della comunicazione, l’educazione sia la finalità e la spinta che guida tutto il processo. L’uomo comincia a scrivere e la Chiesa a comunicare per risolvere un problema di tradizione: c’è qualcosa da non disperdere, da tramandare, da far passare alle generazioni successive. E questa trasmissione, mentre conserva, in un caso fa crescere i figli dentro l’orizzonte culturale dei padri, nell’altro consente alla Buona Notizia di raggiungere tutti gli uomini: «La Chiesa esiste per comunicare: è essa stessa tradizione vivente, trasmissione incessante del Vangelo ricevuto, nei modi culturalmente più fecondi e rilevanti (…) Nell’ampio ventaglio di forme in cui la Chiesa attua questa responsabilità, un aspetto particolarmente importante è l’educazione alla comunicazione, mediante la conoscenza, la fruizione critica e la gestione dei media» (CEI, 2010; 77).
Proveremo a sviluppare queste due ipotesi di lavoro in tre passaggi:
- nel primo ricostruiremo sinteticamente la storia dei media facendo vedere come questa storia sia sostenuta dall’esigenza educativa, anche e specialmente nel caso della Chiesa;
- poi passeremo a descrivere l’attuale scena della comunicazione, provvisorio punto di arrivo di quella storia;
- il terzo passaggio sarà di verificare come si possa articolare la comunicazione della Chiesa all’interno di questa scena di comunicazione ricavandone spunti per la riflessione teologica e la progettazione pastorale.
- Ri-mediazione dei media e mediazione della Parola
L’oralità primaria è quella condizione della nostra storia comunicativa in cui ancora non esistono sistemi di registrazione. In questa condizione, l’unico modo per comunicare è appunto la parola orale (e questa, a ben vedere, già rappresenta un passaggio evolutivo rispetto all’epoca in cui era attraverso il gesto e i suoni inarticolati che l’espressione passava). Nella comunità di villaggio, la parola è corpo, gesto, postura: essa comunica grazie alla prossimità e in questo modo sviluppa le relazioni e la solidarietà meccanica degli individui (Ong, 1982). È ammesso alla comunicazione chi condivide lo spazio fisico, chi abita lo stesso luogo nello stesso tempo. Si tratta di una situazione in cui il legame è forte e la comunicazione è calda, ma che lascia intendere il vero limite dell’oralità primaria e cioè l’incapacità della memoria di sostenere la comunicazione quando le cose da ricordare e trasmettere diventano troppe. E il patrimonio della tradizione è di fondamentale importanza perché rappresenta ciò senza di cui la comunità non può sopravvivere a se stessa. Fin dalle sue origini, la comunicazione umana è strutturalmente educativa: senza comunicazione non esisterebbe possibilità alcuna per trasmettere alle nuove generazioni quel che è caratteristica della cultura dei padri; questo è anche ciò da cui dipende la sopravvivenza dell’individuo e, di conseguenza, della specie.
La transizione dall’oralità alla scrittura, ovvero la comparsa dei sistemi di registrazione, è legata proprio alla ricerca di un dispositivo che consenta di trasmettere le informazioni anche quando esse superano la nostra capacità di gestirle attraverso le tecnologie della parola (e quindi di rendere più efficace e sicuro il dispositivo pedagogico di cui la comunicazione è parte). La scrittura ferma sulla pergamena e poi sulla carta quello che la cultura orale aveva custodito: questo contenuto, nella Torà come nei poemi omerici, è quel che i Greci definivano l’ἦϑος e il νόμος del popolo: costumi, usanze, valori, comportamenti, leggi (Havelock, 1973). È ciò che qualifica una comunità, che ne rappresenta il tratto distintivo e di riconoscimento, a depositarsi nella scrittura. Essa ne costituisce un nuovo, più potente e affidabile strumento di trasmissione.
La scrittura a stampa amplifica questo dispositivo. Il libro a stampa è un archivio mobile, che può viaggiare in molte copie nello spazio e sopravvivere al tempo, una memoria estesa che attraversa le generazioni: «Il libro a stampa – scrive Michel Serres (2015; 82) – svuota all’improvviso la memoria di storici, fisici, filosofi e tanti altri: (…) bastava ricordarsi la posizione dei libri sugli scaffali (…) ormai la memoria di un tempo giaceva nelle loro pagine accessibili a piacere». E questa memoria trova nelle memorie esterne digitali (dischi ottici, pendrive USB, il cloud) il proprio ideale prolungamento, secondo una logica di sviluppo che si può leggere nel senso di una progressiva velocità di trasmissione e di una sempre maggiore quantità di dati stoccabili.[1]
Letti in questo modo, l’alfabeto, la stampa e i media digitali non sono più diversi di quanto non siano invece simili. E questa somiglianza si può trovare proprio nella funzione che essi esercitano nei confronti della memoria: il libro ri-media la scrittura, e il web ri-media il libro. Ri-mediazione è la rappresentazione di un medium nell’altro, è riprendere lo specifico comunicativo del mezzo che ha dominato la precedente stagione dello sviluppo della comunicazione aggiornandolo e ridefinendolo, ma sempre nella continuità rispetto alla sua funzione (Bolter & Grusin, 1999). Ovvero, la mediamorfosi è la storia di una continuità più che di rivoluzioni: i nuovi media «emergono gradualmente dalla metamorfosi dei vecchi mezzi» e i vecchi «generalmente non muoiono, ma continuano a evolversi e ad adattarsi» (Fidler, 1997; 30). Questa continuità trova nella sottrazione della memoria all’oblio, nella sua conservazione, nella trasferibilità sempre più sganciata dallo spazio e sempre più veloce nel tempo la propria cifra. È proprio questo che rende progressivamente sempre più preziosa l’informazione e sempre più cruciale il problema della sua accessibilità.
Si tratta, come ben si capisce, di un processo evolutivo che accompagna anche il modo in cui religioni come quelle ebraica, cristiana e islamica – che non a caso sono dette “del Libro” – hanno attraversato i secoli. Certo, chi è responsabile del culto e la comunità dei fedeli ne rappresentano il luogo vivente di sopravvivenza e di trasmissione, ma questo è possibile perché la Parola che sta alla base di esse trova nella registrazione la possibilità di essere custodita e resa accessibile. Il manoscritto prima, il libro a stampa poi, le altre forme di memoria esterna (prima elettronica, poi digitale) fino a oggi, svolgono una essenziale funzione di mediazione rispetto al contenuto originario del Messaggio. I media mediano, in questo caso non le parole che l’uomo destina all’educazione dei suoi cuccioli, ma la Parola che Dio destina all’educazione del suo Popolo. Letta in questa prospettiva, la storia dei media, rispetto alla comunicazione della Chiesa, è la storia delle diverse forme che la mediazione del Messaggio assume.
Questa vicenda si può leggere a tre livelli, cui corrispondono altrettante logiche.
Un primo livello è culturale. Esso ha a che fare con la necessità per la comunicazione della Chiesa di parlare la stessa lingua degli uomini nelle diverse epoche. C’è un problema di inculturazione del Messaggio che non può non fare i conti con i modi e le forme della comunicazione in un certo tempo: non basta usare i mezzi, «occorre integrare il messaggio stesso nella “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna… con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici» (RM, 37). A questo primo livello funziona una logica per così dire didattica che governa il processo di trasposizione di quel che si vuole comunicare. In didattica la trasposizione è quell’attività importantissima dell’insegnante che consiste nel tradurre il savoir savant in savoir enseignée (Rivoltella, & Rossi, 2017; 191 ss.): è lo stesso dispositivo che regola l’agire omiletico quando esso si trova a tradurre il sapere della teologia per renderlo accessibile durante la liturgia della Parola anche a chi non ha cultura teologica. Il momento chiave di questa operazione – la trasposizione – è la scelta dei mediatori, ovvero di quegli strumenti e strategie comunicative che meglio si adattano a comunicare a un certo tipo di destinatario (Ivi., 87 ss.). Qui, credo si trovi una prima profonda ragione del rapporto della Chiesa con i media e la comunicazione: senza i media non c’è mediazione, e senza mediazione non è possibile alcuna trasposizione. L’esito sarebbe una Parola che non sa comunicare, un Messaggio che rimane inaccessibile all’uomo di un certo tempo semplicemente perché è costruito con linguaggi e codici differenti.
Un secondo livello è pastorale. Esso ha a che fare con la necessità per la Chiesa di rendere il Messaggio universalmente accessibile. Che tutti siano raggiunti dalla Parola non è per la Chiesa un obiettivo commerciale (come per l’editore, che fa di tutto per aumentare il parco dei suoi lettori), o di potere (come per le televisioni, che cercano in tutti i modi di aumentare la propria audience per essere più influenti), ma vuol dire rispondere alla missione che le è stata affidata. A questo livello funziona una logica semiotica che presiede alla scelta di forme di comunicazione volta a volta sempre più capaci di rendere quest’ultima accessibile. Se la Parola può essere letta, invece che solo ascoltata, si raggiungono molte più persone di quelle che è possibile convocare in chiesa e si raggiungono anche quelle persone che vivono in aree in cui non esiste libertà di culto o i cristiani sono perseguitati. Se viene tradotta nelle diverse lingue, viene ulteriormente avvicinata al singolo nella sua possibilità di comprensione. Se viene trasmessa via radio o via televisione, raggiunge un pubblico ancora più ampio, anche di persone malate, anche di persone analfabete. Ecco una seconda ragione profonda del rapporto della Chiesa con i media e con la comunicazione: senza, il Messaggio raggiungerebbe pochi, non renderebbe la Chiesa realmente cattolica (nel senso del καϑ’ὅλον ).
Vi è, infine, un terzo livello di lettura della storia comunicativa della Chiesa, ed è quello ecclesiale (o ecclesiologico). La Chiesa non ha solo la necessità di comunicare verso l’esterno e di raggiungere sempre più persone con questa comunicazione, ma anche quella di vigilare autorevolmente sul modo in cui il Messaggio viene recepito: e questo si è sempre tradotto, nei secoli, in una rappresentazione gerarchica dei rapporti al suo interno fino a fare erroneamente interpretare la Chiesa non come la comunità dei fedeli ma come l’insieme del clero. Qui la logica al lavoro è una logica, per così dire, magisteriale. Essa fa i conti con le specificità dei diversi media e non può che prendere atto delle loro ambivalenze; soprattutto deve mettere in conto che la scelta di un certo tipo di media per la comunicazione del Messaggio non è neutra rispetto all’immagine di Chiesa che si vuole proporre. La stampa, ad esempio, può essere interpretata sia come tecnologia di libertà che come tecnologia di controllo. E la Riforma Protestante dimostra esemplarmente questa oscillazione.
Lutero inizia la traduzione della Bibbia in volgare tedesco nel 1534.[2] Le prime parti della traduzione lasciano uno spazio sotto ai versetti per le glosse dei suoi studenti: stampare la Bibbia in volgare significa poterla diffondere in più copie, rendere disponibili queste copie ai singoli fedeli, favorire la pratica del Libero Esame. La stampa, cioè, consente di emancipare il credente dalla necessità della mediazione della Chiesa e ben si adatta a sostenere il Sola Scriptura come dispositivo di una nuova rappresentazione del rapporto con Dio “da solo a Solo”. Ma nel 1529, Lutero aveva già pubblicato due catechismi, il Piccolo e il Grande, concepiti come un potente strumento di diffusione della cultura cristiana. La scrittura a stampa, che avrebbe dovuto servire ad affrancare dalla Chiesa, ora introduce la regola. Scrivere non serve solo a far sì che ciascuno possa leggere da solo, ma anche a diffondere un messaggio ottenendo che venga recepito esattamente così come è stato scritto contribuendo in questo modo alla formazione del lettore.
- L’avvento della “società informazionale”
Il risultato che abbiamo raggiunto in questa prima parte della nostra analisi è in qualche modo duplice.
Da una parte, abbiamo capito che la storia della comunicazione e dei media non è una storia di rivoluzioni, ma di continuità. I media successivi ri-mediano i media precedenti, ne fanno proprie le logiche. E il segno di questa ri-mediazione è l’esigenza della registrazione, il problema della salvaguardia della memoria e della sua trasmissione, la comunicazione educativa e formativa.
D’altra parte, è anche chiaro che ogni ri-mediazione in qualche modo ridefinisce non solo la tecnologia, ma con essa anche la forma del messaggio e inevitabilmente il suo contenuto. I media non sono neutri ma incidono sulla natura e le forme in cui attraverso di essi la comunicazione avviene. Qui troviamo la questione-chiave per la nostra riflessione. Se la comunicazione della Chiesa si serve nei secoli dei diversi media per comunicare il Messaggio che è al centro della sua Tradizione, allora i media modificano la comunicazione della Chiesa? E come avviene questa modificazione in un contesto, come l’attuale, segnato da una parte dall’incremento dell’informazione disponibile, dall’altra dall’esplosione dell’informazione, dalla sua tracimazione oltre i confini dei luoghi deputati a contenerla?
La risposta a queste domande chiede prima di descrivere sinteticamente la scena attuale della comunicazione per comprendere come essa sia cambiata e stia ancora cambiando.
La società dell’informazione era (era perché l’abbiamo già alle spalle) una società nella quale l’informazione rivestiva una grande importanza, anzi, era in fondo la cosa più importante. Tuttavia, in essa era ancora possibile distinguere l’informazione da tutto il resto. Oggi stiamo vivendo (o abbiamo già vissuto) la transizione alla società informazionale, ovvero una società in cui l’informazione non è la cosa più importante, ma parte della società stessa. La società informazionale è fatta anche (per non dire solo) di informazioni: il digitale non la caratterizza, la costituisce. Luciano Floridi (2014), per spiegare questo fatto, usa una bella immagine, osservando come nella società dell’informazione fossimo noi a essere on line, mentre oggi sono i media a essere on life.
Registrare questa transizione significa prendere atto di una profonda trasformazione culturale. Essa chiede un deciso riposizionamento concettuale da cui discendono concrete conseguenze.
Anzitutto la nuova scena della comunicazione è caratterizzata dall’invisibilità dei media (Eugeni, 2015). Affermare questo non significa dire che i media sono scomparsi, che non ci sono più, ma osservarne la trasformazione da apparati (le televisioni, le redazioni, gli strumenti con il loro ingombro, la loro opacità fisica) a dimensioni dell’esistenza. Uno smartphone ultraleggero, ultrasottile, sempre connesso, è tecnologia indossabile (wearable media); allo stesso modo un braccialetto (fitbit) o un orologio intelligente (smart watch) sono tecnologia di cui non ci accorgiamo nemmeno, grazie alla quale è possibile monitorare in tempo reale il numero di passi, la frequenza cardiaca, i valori della pressione, nonché sapere in tempo reale dove ci troviamo attraverso la georeferenziazione. Quando si parla di “internet delle cose” si fa riferimento proprio a questa capacità della tecnologia digitale di “abitare” oggetti d’uso trasformandoli in agenti intelligenti come è il caso della domotica: parlare con il proprio frigorifero, o attivare a distanza il proprio impianto di riscaldamento, in quest’ottica, è già una concreta possibilità.
Come si capisce, ed è una seconda conseguenza, in questo tipo di prospettiva la vecchia distinzione tra reale e virtuale perde qualsiasi significato. Come già Pierre Levy (1995) aveva ben spiegato, il virtuale non identifica ciò che si contrappone al reale, quanto piuttosto all’attuale: un testo scritto sullo schermo del mio computer non è irreale, c’è, si vede; la sua virtualità (nel senso etimologico della virtus, dell’ἐντελέχεια) dipende dal fatto che fin che rimane sullo schermo è modificabile nel contenuto e nella forma; lo attualizzo quando decido di stamparlo e, finalmente, sulla carta, raggiunge una forma definita, almeno per quanto riguarda quella versione e fino a quando non deciderò di intervenire di nuovo sul file di testo aperto sul mio computer da cui ho generato quella stampa. Questa potenza del digitale, questo suo dinamismo strutturale, questa sua disponibilità a molteplici attualizzazioni è ben visibile nella Realtà Aumentata e nelle sue applicazioni di largo consumo: inquadro un edificio e, grazie a Google Lens, il mio smartphone ricerca nel web informazioni relative a quell’edificio e me le visualizza. L’edificio e le informazioni che lo riguardano si sistemano su due piani di realtà (layers) che si sovrappongono l’uno sull’altro come su due fogli di acetato trasparenti. Il mio vissuto percettivo non si risolve nel fare esperienza di cose diverse in mondi diversi, ma nel verificare un aumento della mia esperienza nel mondo in cui vivo e opero.
Quanto stiamo osservando ci consente di capire anche quanto sia riduttivo ormai pensare ai media come a degli strumenti. È la vecchia idea mcluhaniana di un prolungamento dei nostri organi di senso che dice di dispositivi che possono essere utilizzati, ma che si potrebbe anche optare di non impiegare. Oggi le cose stanno in modo diverso. I media si possono ritenere un vero e proprio tessuto connettivo e questo in due sensi. In primo luogo si può dire che essi siano la “pelle della nostra cultura” (de Kerkhove, 1995), sono ciò che sostiene, tiene insieme.
D’altra parte, essi funzionano anche come delle vere e proprie “sinapsi sociali” (Castells, 1996), ovvero collegano, tengono insieme in un altro senso che ha più a che fare con la relazione funzionale che non con la compattezza fisica. Senza sinapsi i neuroni non servono a nulla, senza tessuto connettivo non ci sarebbe organismo: ancora una volta si misura qui l’insostituibilità dei media, la loro intrinseca necessità.
La diffusione dei media e la loro ibridazione con la realtà dell’uomo e delle cose, consente di annotare ancora due elementi.
Il primo è il fatto che, se i media sono una dimensione della nostra vita, è inevitabile che attraverso di essi noi lasciamo continuamente tracce di quello che facciamo, di dove siamo, di cosa vogliamo, di quello che pensiamo. Il risultato è la produzione in tempo reale di una massa enorme di dati (Big Data) grazie ai quali è possibile ricostruire un profilo esatto nostro e delle nostre reti. E se da una parte questa tracciabilità, come nel caso degli anziani o dei disabili, serve a rendere la loro assistenza più efficace e tempestiva, dall’altra consente a chi li possa processare di conoscere e orientare i valori e i comportamenti delle persone. La fisica sociale (Pentland, 2014), scienza che studia questi dati e la loro utilizzabilità, rappresenta così il futuro allo stesso tempo della nostra sicurezza e del rischio di essere controllati o condizionati, come nel caso recente di Cambridge Analytica con i dati di Facebook.
L’altro elemento, connesso a questa proliferazione di informazioni e al fatto che esse si innestano sulle nostre vite mischiandosi a esse, è il tema della postverità. Con questo termine si indica un nuovo modo di pensare all’informazione che non la riconduce più ai fatti, ma alla sua capacità di produrre sul destinatario un impatto emotivo confermandone le credenze. In una realtà in cui qualsiasi conoscenza è inevitabilmente mediata, diviene sempre più difficile distinguere la verità dalla menzogna con il risultato di mischiare scienza e opinioni, affermazioni verificate e paralogismi persuasivi (Maffeis & Rivoltella, 2018).
Da ultimo, la situazione che stiamo descrivendo è anche contraddistinta dalla presenza di un nuovo livello di mediazione tecnologica. Originariamente la tecnologia (primo livello della mediazione) ha sempre messo in relazione l’uomo con la natura: è il caso della zappa, della ruota, della staffa. Sono tutte tecnologie grazie alle quali l’uomo opera con la natura una mediazione che serve a piegarla a rispondere al suo bisogno. Poi (mediazione di secondo livello) la tecnologia ha cominciato a mediare la relazione dell’uomo con altra tecnologia: è il caso della pentola (che media rispetto al fornello), del telecomando (rispetto al televisore), del mouse e di tutti i dispositivi di interfaccia. Oggi (terzo livello della mediazione) la tecnologia media tra la tecnologia e altra tecnologia: succede nei veicoli a guida autonoma, nella robotica, nelle diverse forme di intelligenza e di vita artificiale. Parliamo di sistemi esperti in grado di apprendere dalle proprie esperienze e di sviluppare responsabilità nei confronti delle proprie azioni: una provocazione per l’etica e per il diritto e uno stimolo a ripensare la natura e i limiti di ciò che sempre abbiamo ritenuto umano.
- Quale comunicazione e quale Chiesa nella società informazionale?
Questa rapida analisi genera le domande in risposta alle quali arriviamo all’ultima parte di questa riflessione, quella più propriamente pastorale.
Cosa significa comunicare agli uomini di oggi, con i linguaggi di oggi, nella cultura postmediale?
A quali condizioni la comunicazione della Chiesa può oggi essere veramente missionaria? Come raggiungere tutti gli uomini? Come rendere il Messaggio accessibile a tutti?
Le regole della comunicazione della Chiesa sono sempre le stesse? O la realtà attuale dei media invita la Chiesa a ripensare le forme di questa sua comunicazione? E come?
Per rispondere a queste domande possiamo pensare a tre grandi scenari.
I media-strumenti: la pastorale 1.0
Un primo scenario si organizza attorno a una rappresentazione dei media che, in modo più o meno consapevole, ancora li intende come strumenti. È una rappresentazione che ha alla propria base la promessa che Internet fece a tutti noi al momento della sua prima grande diffusione sociale: l’opportunità di studiare, comunicare, lavorare dovunque e in qualsiasi momento (anytime and everywhere). In questo scenario i media digitali sono concepiti come tecnologie della distanza: consentono la comunicazione annullando l’impatto del luogo su di essa. Da questo punto di vista, Internet – come osserva Virilio (2000) – è veramente l’esito ultimo di un processo avviato dalla comparsa della staffa e della ruota e che è consistito in una progressiva accelerazione con il relativo abbattimento delle distanze fino alla comparsa della macchina a vapore, del motore a scoppio, del motore a reazione dei moderni aerei di linea. I media elettronici prima e quelli digitali poi sono ancora più veloci, perché grazie a essi «tutto arriva senza più bisogno che nessuno parta» (Ivi.).
Dentro questo scenario si trovano da tempo (già da prima della svolta digitale) i media mainstream, ovvero i media di massa, quelli dei grandi apparati di comunicazione: i giornali cattolici (da Avvenire ai settimanali diocesani), le televisioni e le radio (da TV 2000 alle emittenti diocesane del Circuito Corallo). Nel Web svolgono la stessa funzione i siti parrocchiali o il profilo Twitter @Pontifex, le dirette in streaming video di eventi ecclesiali. E in fondo anche le app realizzate dalla CEI con il testo della Bibbia o la Liturgia delle Ore si iscrivono nello stesso spazio e nella stessa logica pragmatica.
Dal punto di vista culturale si tratta di una comunicazione sostanzialmente informativa, unidirezionale, il cui obiettivo è l’accessibilità appunto delle informazioni, siano esse le news sull’ultimo viaggio del Papa o gli orari delle messe domenicali. Essa attiva tutte e tre le arene di circolazione dei significati che caratterizzano Internet (Slevin, 2000): l’arena primaria dei destinatari intenzionali, l’arena secondaria di coloro a cui non pensavo ma che raggiungo grazie ai destinatari intenzionali, l’arena periferica di tutte le comunicazioni non previste da me cui ciascuno di loro può dar vita. Chiaramente si tratta di un pubblico indifferenziato, tipico di una comunicazione che viene incontro alle esigenze di una comunicazione istituzionale, verticale e che prende corpo in una pastorale che possiamo definire 1.0. Si tratta di una pastorale trasmissiva, a basso tasso di interattività, poco capace di sfruttare gli asset comunicativi dei media digitali e sociali.
Se per la Chiesa ripensare la propria comunicazione al tempo del digitale volesse dire solo questo, si tratterebbe di molto rumore per nulla: accostarsi ai media digitali e sociali nella logica degli strumenti ne consente il controllo, mette al riparo da derive comunicative, ma di certo non consente di approfittare di ciò che è più specifico di questi media dal punto di vista del loro funzionamento. Il risultato è l’immagine di una Chiesa aggiornata, in linea con le tendenze culturali dell’oggi, ma in forma totalmente estrinseca.
Le tecnologie di gruppo: la pastorale 2.0
Un secondo scenario è quello in cui i media cessano di essere pensati solo come strumenti e vengono invece riconcettualizzati come ambienti e luoghi sociali. In questa accezione i media non rappresentano più solo un’opportunità per annullare le distanze, quanto piuttosto una risorsa per consentire alle persone di comunicare meglio, anche quando sono in presenza. L’idea delle tecnologie di gruppo trova qui la propria giustificazione: la rete diviene un’estensione on line della comunità presenziale e fornisce a quest’ultima strumenti per prolungare e rendere più proficuo il proprio incontrarsi.
È il caso di un gruppo di WhatsApp che io scelga di appoggiare alla mia aula di catechesi: uno spazio che possa servire a condividere gli orari degli incontri, i contenuti del cammino, le riflessioni dei singoli membri. Ma è anche il caso di un uso di Twitter che mi porti a iniziare la giornata diffondendo tra i giovani della mia parrocchia il santo del giorno, un versetto del Vangelo, un proposito da fare proprio durante la giornata, o dell’adozione di un profilo o di una pagina in Facebook. E anche Skype, Hangout, o altri strumenti di videocomunicazione rispondono alla stessa logica: ad esempio, tenere uniti i giovani del Decanato, generare uno spazio di condivisione bidirezionale dove l’obiettivo non è tanto abbattere le distanze, quanto piuttosto favorire lo scambio e il confronto.
Dal punto di vista culturale si tratta di una comunicazione inclusiva che attiva arene di circolazione primarie del significato in cui centrale è l’interazione tra chi comunica e la sua cerchia. È questo lo spazio di quella che possiamo chiamare pastorale 2.0: essa passa per un’esperienza decisamente più orizzontale e partecipata, convoca e responsabilizza, interpreta di sicuro in modo più preciso ed efficace lo specifico dei media digitali e sociali valorizzandone le funzioni di condivisione (sharable media) e autorialità. Il destinatario è reso attivo, viene chiamato a essere parte di una comunicazione a due vie in cui non è detto che debba sempre fare la parte di chi riceve.
In questa prospettiva di sicuro la comunicazione della Chiesa riesce meglio a intercettare e a incarnare lo specifico comunicativo dei nuovi media, ma non significa ancora che con questo riesca ad aprirsi a una prospettiva decisamente missionaria. Le tecnologie di gruppo sono a somma zero dal punto di vista della loro capacità di estendere il numero dei destinatari della comunicazione: consentono di aumentare l’interazione con coloro che già incontro in presenza, non di arrivare ad altri con il Messaggio.
Tecnologie di comunità: la pastorale 3.0
Siamo così a un terzo possibile scenario, in cui la Chiesa prende atto del fatto che i media sono diventati ciò che favorisce le connessioni tra le persone, che essi sono parte integrante delle nostre vite e del modo in cui in esse costruiamo e manteniamo relazioni e che questo ci fa rendere conto di come l’uomo sia straordinario quando “si collega” agli altri, inutile se rimane da solo, proprio come una stampante senza connessione (Gee, 2013).
Si fa esperienza qui della possibilità dei media digitali e sociali di funzionare come tecnologie di comunità (Rivoltella, 2017). Si tratta di un’idea controintuitiva. Quello che normalmente si pensa, infatti, è che queste tecnologie funzionino esattamente al contrario: siano, cioè, dei dispositivi attraverso i quali le persone tendono a isolarsi e, di conseguenza, i legami sociali si allentino fino a dissolversi. Invece, parlare di tecnologie di comunità significa fare riferimento alla capacità della tecnologia di (ri)costruire la comunità. Penso all’esperienza fatta qualche anno fa da Don Paolo Padrini, il sacerdote della diocesi di Tortona che ha inventato i-Breviary. Don Paolo monta una web-cam sul pulpito della sua chiesa e trasmette la Messa in streaming video. Dei giovani operatori pastorali si recano presso le case degli anziani o degli ammalati, con un computer portatile. L’obiettivo è chiaro: consentire a chi non può recarsi in Chiesa di seguire la Messa, non quella televisiva di Rai o Mediaset, bensì quella della sua comunità, celebrata dal suo parroco. L’operatore (vero e proprio tutor di comunità) entra nelle case, comunica con le persone; così facendo incontra i familiari, il vicinato; la sua presenza funziona da catalizzatore, nella casa si raccoglie una piccola comunità; grazie a questo entrano (o rientrano) in contatto con la liturgia anche persone che lo avevano perso. La comunicazione che si allestisce, qui, è partecipativa: si rivolge certo all’anziano o al malato (arena di circolazione primaria), ma attraverso di lui alla sua famiglia e ai vicini (arena di circolazione secondarie) e soprattutto mira all’attivazione di arene di circolazione periferiche aperte e gestite da ciascuno di loro. Diversi anni prima, in netto anticipo sullo sviluppo di Internet e dei media digitali e sociali, aveva avuto la stessa intuizione il cardinal Martini lanciando l’idea della catechesi radiofonica in Quaresima e Avvento, dove la cosa interessante non era tanto la possibilità di far giungere a tutti la voce del vescovo, quanto piuttosto la possibilità di attivare nei punti di ascolto delle logiche di riattivazione del legame tra le persone: la radio come tecnologia di comunità.
Credo che lo specifico di una pastorale 3.0 stia proprio nella capacità di riarticolare il rapporto tra dentro e fuori la Chiesa attivando insieme tutte e tre le arene di circolazione dei significati, comprese quelle periferiche, che sono quelle più lontane, quelle che di solito rimangono tagliate fuori dalla nostra comunicazione intenzionale. Come si capisce, qui è superata la logica trasmissiva della pastorale 1.0 e integrata quella gruppale della pastorale 2.0. La pastorale 3.0 è quella che meglio riesce a interpretare il senso dei media digitali e sociali come spreadable media (Jenkins, 2009), cioè come media capaci, grazie alla loro pervasività e fluidità, di esplodere fuori dei propri confini, diffondersi in tutte le direzioni ed essere generativi di relazioni. La comunicazione generativa è la comunicazione che meglio si adatta a una Chiesa dei carismi, una Chiesa “in uscita” che fa della vocazione missionaria il proprio specifico. E, infatti, lo Spirito è spreadable, effusivo: con l’immagine del Manzoni, nella Pentecoste, è “come la luce rapida”, che “piove di cosa in cosa e i vari color suscita ovunque si riposa”.
Questa generatività effusiva comporta alcune precise conseguenze.
Una prima conseguenza è la riconcettualizzazione dei media da strumenti a tessuto connettivo, come abbiamo già avuto modo di accennare: grazie ai media si possono tessere relazioni, si può mantenerle vive. I media divengono opportunità di legami, nuovi o da riannodare. La pastorale 3.0 traduce un po’ il vissuto delle prime comunità di cui si racconta negli Atti degli apostoli, ma mcluhanianamente esteso al mondo intero. La correzione fraterna, la parresia che si nutre di piccoli gesti comunicativi quotidiani: un tweet, un post, un poke.
In secondo luogo, soprattutto a livello delle arene periferiche di circolazione dei significati, la comunicazione diventa orizzontale, disintermediata: ciascuno è autore e l’interazione è immediata. Comunitaria e paritetica, la pastorale 3.0 attiva i suoi destinatari, li rende protagonisti, sostituisce a una comunicazione verticale l’esperienza sinodale.
Infine, e proprio per questo, la pastorale 3.0 richiama i laici a un nuovo senso di responsabilità. L’operatore pastorale (ma mi verrebbe da dire qualsiasi battezzato) nella società informazionale, grazie alla disponibilità dei media digitali e sociali, si atteggia a tutor di comunità. Si tratta di un ruolo complesso che è allo stesso tempo rivolto alla comunità ecclesiale e alla comunità civile: nel primo senso allude, tra l’altro, al nuovo significato della diaconia in un tempo di secolarizzazione e di progressiva contrazione dei consacrati; nel secondo senso, intercetta quel che sempre più spesso accade, ovvero l’esperienza di una Chiesa chiamata non ad affiancare le istituzioni in una logica di sussidiarietà, ma a svolgere rispetto ad esse una funzione di supplenza, come sempre è accaduto nella storia in tutti i tempi di crisi. Mai come oggi Cristianesimo può voler dire cittadinanza.
Relazione del Prof. Pier Cesare Rivoltella
Università Cattolica del Sacro Cuore
Riferimenti bibliografici
In tutto il documento si è fatto ricorso ad alcune abbreviazioni di documenti ufficiali della Chiesa. In particolare: CP (Communio et Progressio), RM (Redemptoris Missio).
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[1] Un esabyte è pari a 1018 bit: intuitivamente, 50.000 anni di un video ad alta qualità. Fino all’avvento del computer, il numero totale delle informazioni accumulate dall’umanità era pari a 16 esabyte. Nel 2015 si erano già raggiunti gli 8 Zettabyte (ovvero 8000 esabyte).
[2] L’opera completa vedrà la luce a stampa nel 1556 ad opera del tipografo Hans Luft.