La tradizione popolare ha privilegiato il mese primaverile di maggio per la celebrazione delle nozze. È di una vocazione a un matrimonio sconcertante di cui ora parleremo. Infatti Dio aveva chiamato un suo profeta, Osea (VIII sec. a.C.), a sposarsi con una prostituta, tale Gomer bat-Diblaim. Meretrice in senso stretto o sacerdotessa dei culti pagani della fertilità praticati dagli indigeni della Terrasanta, i Cananei? È difficile dirlo; rimane comunque lo sconcerto, che si accresce quando – stando a un duplice resoconto del caso, presente nei capitoli 1-3 del libro del profeta – la donna, dopo aver dato a Osea due figli e una figlia, aveva abbandonato la famiglia.
Una vocazione profetica con uno statuto familiare difficile quindi, purtroppo non raro anche ai nostri giorni. Non possiamo ora spiegare l’enigma apparente che si cela sotto i nomi dei figli, nomi costruiti ad arte per farci comprendere che la storia personale di Osea è, in realtà, esemplare e paradigmatica per tutto il popolo. Puntiamo, invece, su un altro aspetto di questa vicenda vocazionale strana. Come si intuisce nel capitolo 2 del suo libro, da un lato, Osea vorrebbe divorziare da lei, spogliandola nuda dell’abito nuziale nella pubblica piazza, denunziata dai suoi stessi figli; d’altro lato, però, il suo forte risentimento non riesce a spegnere l’amore che quest’uomo prova ancora per la sua donna.
Ecco, allora, il soliloquio simile a un sogno che Osea pronuncia, sperando che Gomer, delusa dai suoi amanti, “ritorni” sulla strada di casa: si ricordi che in ebraico il verbo shûb, “ritornare”, significa anche “convertirsi”. Il profeta immagina già la scena di quel giorno tanto sperato: la riabbraccerà, dimenticando tutto il passato, celebrerà con lei un nuovo fidanzamento e poi una luna di miele con un viaggio di nozze nei luoghi della loro giovinezza. «Ecco, la sedurrò di nuovo, la condurrò nel deserto, parlerò al suo cuore» (2,16).
A questo punto dobbiamo sciogliere il valore universale di questa storia così singolare e, quindi, giustificare perché il profeta l’abbia voluta esternare. Sappiamo che la Bibbia usa spesso il simbolismo nuziale per descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo. In filigrana alla vocazione matrimoniale di Osea si può, allora, intravedere il comportamento di Israele nei confronti del Signore. Nel deserto del Sinai si era consumato il tradimento idolatrico del vitello d’oro. Ma, come Osea, Dio – pur sdegnato – era rimasto innamorato del suo popolo e non si era rassegnato all’abbandono.
Aveva, così, voluto trasformare quel deserto come luogo di intimità attraverso la sua parola, il cibo della manna, il dono dell’acqua, la tutela dalle avversità naturali e dai nemici, la protezione della nube, la sua presenza nell’arca santa. Il Signore, perciò, attende sempre che l’umanità liberamente decida di “ritornare”- convertirsi per ricomporre un legame infranto d’amore. Egli ripete a tutte le coppie in difficoltà nella loro vocazione matrimoniale di imitare il suo impegno per ricostruire un’armonia incrinata. In Geremia leggiamo queste parole tenere di Dio: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore del tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto…» (2,2).