Di fronte a ogni sofferenza che sfigura il volto dell’uomo, di fronte alla solitudine e alla impotenza generate dal dolore, non sappiamo cosa pensare. Rifiutiamo ogni sorta di giustificazione e finiamo per dibatterci in un groviglio di interrogativi che, alla fine, giungono a chiamare in questione Dio stesso e a domandargli ragione del dolore, dell’ingiustizia, della assurdità del male che viviamo o vediamo attorno a noi. Rimbalziamo così a Dio quella domanda che Lui stesso aveva fatto all’uomo, quando si era nascosto al suo sguardo, dopo il peccato: Adamo, dove sei?… Dio dove sei?. È questo in fondo il dramma di Giobbe, di cui la liturgia della Parola di questa domenica ci offre un piccolo squarcio. «Notti di affanno mi sono state assegnate… i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6): così Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita. Ma ha il coraggio di rivolgesi a Dio facendogli memoria della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza. Dio stesso ha creato l’uomo così debole e allora? «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).
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Sulle labbra di Giobbe la preghiera si trasforma spesso in grido di ribellione, in accusa nei riguardi di un Dio che sembra contraddire il suo progetto, sembra disinteressarsi dell’uomo. Giobbe è l’uomo credente che ha il coraggio di porre a Dio le domande più brucianti e, in certo qual modo, scandalose; che ha il coraggio di chiedere conto a Dio della realtà dell’uomo. La via che Giobbe percorre è una via non solo difficile, ma pericolosa; può aprirsi alla speranza, ma può precipitare nella disperazione. Infatti non è un cammino che matura attraverso risposte, ma una via che, da interrogativo a interrogativo, ha la possibilità di giungere, per pura grazia, a una luce: è cioè la scoperta che proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione suprema, evento unico dell’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo. Quel ricordati che Giobbe rivolger a Dio, lascia proprio intravedere questa possibilità di incontro: è la nostalgia di un volto che si desidera contemplare, un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.
Attraverso il testo del vangelo, un momento della lunga giornata di Gesù a Cafàrnao, è come se Dio venisse incontro al desiderio di Giobbe. Quel volto di Dio che l’uomo desidera incontrare nel suo dolore, è vicino nel volto umano di Gesù. E proprio all’inizio del suo racconto Marco insiste su questo volto di Gesù: attraverso la sua potente parola, che è consolazione e salvezza, Gesù sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme, fino a raggiungere quel male che tiene schiavo l’uomo distruggendone la relazione con Dio, il peccato. E l’uomo desidera e cerca questo volto e questa parola di salvezza. Infatti Marco ci presenta tutta una folla di uomini e donne che si accalcano alla porta della casa di Simone, in cui Gesù si trova con i suoi discepoli. E Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni…» (Mc 1,34). Nell’accalcarsi della folla, nel premere di questa umanità sofferente attorno a Gesù, davanti alla porta della casa di Simone, Marco ci offre così una immagine viva di questo incontro tra il volto di Dio e l’uomo che soffre. Tutti i malati, tutta la città, tutti vogliono incontrare Gesù. Così l’evangelista esprime l’entusiasmo, ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo si trovano in una situazione di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza. Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro. Notiamo, infine, che tutta questa folla di sofferenti si trova di fronte a quella ‘porta’ che immette nel luogo dove Gesù si trova assieme ai suoi discepoli. L’immagine della casa di Simone può essere colta come simbolo della Chiesa: essa diventa il luogo della accoglienza, la mediazione dell’incontro con Gesù di ogni uomo che ha bisogno di essere guarito e liberato. Ma l’immagine della porta, come spazio di passaggio e di comunicazione, richiama sempre la possibilità di una chiusura: essa può diventare un ostacolo a questa incontro con il volto di Cristo.
Marco, nei versetti 30-31, riporta anche un particolare intervento di Gesù in favore dell’uomo sofferente: la guarigione della suocera di Simone. Due versetti soltanto, ma capaci di comunicare la dinamica dell’incontro dell’uomo schiavo del male con il volto di Dio. Il gesto che Gesù compie, scandito in tre verbi, è rivelativo di ciò che realmente si opera in una guarigione.
Gesù si avvicina a quella donna sofferente, la accoglie nella sua povertà e debolezza. È il chinarsi stesso di Dio su tutte le miserie dell’umanità, è l’espressione plastica di quelle viscere di misericordia che con forza esprimono la reazione di Gesù di fronte all’umanità sofferente e sfinita. Là dove spesso l’uomo si allontana dal fratello, Dio invece si avvicina e si china su di esso (cfr. Lc 10,34: gli si fece vicino).
Gesù prende per mano quella donna. Il toccare di Gesù esprime certamente un contatto liberatorio. Ma sottolinea anche la necessità di un incontro personale, quasi fisico, tra l’uomo schiavo del male e la persona di Gesù. È dunque un incontro personale, irrepetibile, una comunione che apre a nuova vita.
Gesù fa alzare quella donna. È il movimento che sottolinea il passaggio da una situazione di impotenza e di immobilità, di morte, alla ripresa di una nuova vita, alla possibilità di riprendere un cammino. E Marco descrive questo gesto con un termine che evoca la resurrezione. Ciò che Gesù ha fatto è un segno: è anticipazione della vittoria sulla morte. Il miracolo non è spettacolo, ma è rivelazione: provoca l’uomo a uscire da una lettura troppo materiale della propria vita, da una superficialità, e lo apre a una visione più profonda, a un orizzonte vasto rivelandogli il volto di Gesù.
Ciò che compie la donna guarita è profondamente significativo in quanto fa emergere l’autentico modo con cui una persona può rispondere a una liberazione donata: si mise a servirli. Essere liberati per servire: in questo si rivela la forma concreta della sequela di Cristo. Questa donna, come i discepoli, come il cieco di Gerico, è stata liberata e questa liberazione è una chiamata a seguire Gesù. Li serviva: è dunque uno stile che si acquista, una situazione di vita che ha inizio: Gesù ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servizio. Quando, nel dolore, abbiamo la grazia di incontrare il volto di compassione di Cristo (ed è questa la vera liberazione), allora non rimaniamo più ripiegati su noi stessi, immobilizzati nella nostra sofferenza. Ci alziamo e ci mettiamo a servire l’uomo sofferente, diventando noi stessi icona del volto misericordioso di Dio.
Fonte: Monastero Dumenza
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V DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
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- Colore liturgico: Bianco
- At 9, 26-31; Sal.21; 1 Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8
Gv 15, 1-8
Dal Vangelo secondo Giovanni
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 29 Aprile – 05 Maggio 2018
- Tempo di Pasqua V
- Colore Bianco
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 1
Fonte: LaSacraBibbia.net
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