PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA DEL 12 APRILE 2018 NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Tempo di gioia
«Oggi i cristiani sono perseguitati, sgozzati, impiccati in Africa e in Medio oriente, ancora di più che nei primi secoli», perché la loro «testimonianza dà fastidio» a un mondo che «risolve tutto con il denaro»: del resto «la tangente» è arrivata duemila anni fa persino «al sepolcro» per corrompere le guardie e negare così la risurrezione. È un incoraggiamento a non aver paura di «confessare Gesù» quello che Papa Francesco ha rilanciato nella messa celebrata giovedì 12 aprile a Santa Marta. Suggerendo di vivere la medesima coraggiosa esperienza degli apostoli e cioè «una vita di obbedienza, testimonianza e concretezza», senza cercare «compromessi mondani» con una «fede all’acqua di rose».
«Questo tempo pasquale — ha affermato il Papa — è tempo di gioia, la Chiesa vuole che sia così: tempo di gioia, la gioia davanti alla vittoria del Cristo risorto» E per gli stessi apostoli «è stato un tempo di gioia» anche se «non era uguale la gioia che loro hanno vissuto i primi cinquanta giorni da quella che hanno vissuto dopo la venuta dello Spirito Santo».
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Infatti, ha spiegato Francesco, «la gioia dei primi cinquanta giorni era una gioia vera ma “dubitosa”, non capivano bene: sì, avevano visto il Signore, erano contenti, ma poi non riuscivano a capire». E si chiedevano: «Come finirà questa storia?». Tanto che, ha proseguito, proprio «al momento dell’ascensione domandano al Signore: adesso come andrà, adesso si farà la rivoluzione?».
Insomma gli apostoli «capivano perché vedevano il Signore, ma non capivano tutto: è stato lo Spirito Santo a far capire tutto e a dare quel coraggio, quel modo di agire totalmente diverso». Così, ha ribadito il Papa, «possiamo dire che quella dei primi cinquanta giorni era una gioia timorosa; invece dopo la venuta dello Spirito Santo c’è la gioia coraggiosa che è sicura: sicura per la grazia dello Spirito».
Proprio «nella cornice di questa gioia coraggiosa — ha affermato il Pontefice facendo riferimento a quanto narrato negli Atti degli apostoli — succede quello che abbiamo sentito nella prima lettura: Pietro e Giovanni vanno al tempio. Davanti alla porta chiamata la “Bella” c’era sempre un paralitico che chiedeva l’elemosina e Pietro e Giovanni guariscono il paralitico», che «felice, salta, balla, va, dà testimonianza». Ma, ha proseguito Francesco, «i sacerdoti si inquietano, chiamano gli apostoli e proibiscono loro di predicare Gesù. Poi li mettono in carcere. L’angelo di Dio li fa uscire dal carcere» ed essi subito «tornano a insegnare al tempio».
Riprendendo direttamente il passo degli Atti proposto dalla liturgia (5, 27-33), il Papa ha inoltre ricordato che «il comandante e gli inservienti vanno dove gli apostoli stavano predicando e li portano al sinedrio». Quindi «il sommo sacerdote li interrogò dicendo: “Non vi avevano espressamente proibito di insegnare in questo nome?”». Ecco «la proibizione: questo è vietato, il nome Gesù è vietato, predicare il nome di Gesù è vietato». Ma di fronte al sommo sacerdote, «Pietro, che timoroso aveva rinnegato il Signore», ha il coraggio di rispondere semplicemente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti, siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
La prima a risaltare è «la parola “obbedienza”», ha fatto notare il Pontefice ricordando che «anche nel Vangelo di oggi — Giovanni 3, 31-36 — Gesù parla dell’obbedienza». Dunque, ha affermato il Papa, «la vita di questi cristiani, di questi apostoli che hanno ricevuto lo Spirito Santo, è una vita di obbedienza, una vita di testimonianza e una vita di concretezze».
Una «vita di obbedienza», ha proseguito Francesco, «perché seguano la strada di Gesù che obbedì al Padre fino all’ultimo momento: “Padre, se è possibile — pensiamo all’orto degli Ulivi — ma non sia fatta la mia volontà, ma la tua». Questa è l’«obbedienza fino alla fine» e «ci fa ricordare quando il Signore rigetta Saul: “Non voglio sacrifici né olocausti, ma obbedienza”».
«Obbedienza — ha insistito Francesco— è ciò che ha fatto il Figlio, il cammino che lui ci ha aperto; obbedienza è attaccamento a Dio e fare la sua volontà e dire: “Io sono il tuo figlio, io sono con te che sei mio padre e farò del tutto per seguire quello che tu vuoi”».
«È vero, noi siamo deboli e cadiamo nei peccati, nelle nostre debolezze» ha riconosciuto il Pontefice. Ma «la buona volontà ci fa alzare, la grazia di Dio», e così «vai avanti, vai avanti: “Io voglio obbedire”». Perciò la «prima caratteristica del comportamento, del modo di agire di questi apostoli è l’obbedienza». Consapevoli che, come dichiara Pietro, «bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini». Ci vuole, dunque, «un atteggiamento “obbedienziale”: il cristiano è un servo, come Gesù, che obbedisce a Dio». Ed è anche «vero che è un modo un po’ diverso di risolvere i problemi, questo dell’obbedienza: davanti al fatto della risurrezione gli apostoli hanno risolto, con la grazia dello Spirito Santo, con l’obbedienza».
Invece, si è chiesto il Papa, «come hanno regolato il tutto i sacerdoti che volevano comandare?». Lo hanno fatto «con una mancia: anche la tangente è arrivata al sepolcro». Perché «quando i soldati impauriti andarono da loro a dire la verità, li interrogarono» per poi dire: «“state tranquilli”. Hanno messo le mani in tasca e hanno detto loro: “prendete, dite che voi eravate addormentati”». Ed è proprio con questo sistema che «risolve il mondo».
E allora ci vuole l’«obbedienza a Dio, non al mondo, perché il mondo risolve le cose con cose mondane; e la prima cosa mondana, che è proprio del “signore”, del diavolo, è il denaro». Gesù «stesso gli dà la categoria di “signore” quando dice: “non possiamo servire due signori, Dio e il diavolo».
La «seconda caratteristica» dei primi cristiani è la «testimonianza: io do testimonianza di Gesù». E gli apostoli realmente «danno testimonianza perché non hanno paura di predicare Gesù al tempio, ma anche dopo, quando sono usciti dal carcere: sono coraggiosi, ma con il coraggio dello Spirito». Del resto, «la vera testimonianza cristiana è una grazia dello Spirito e questo dà fastidio. La testimonianza cristiana dà fastidio, è più comodo dire: “Sì, Gesù è risorto, è assunto al cielo, ci ha inviato lo Spirito, credo a tutto questo”, ma cerchiamo una via di compromesso fra il mondo e noi».
Invece «la testimonianza cristiana non conosce le vie di compromesso» ha ricordato Francesco. Piuttosto «conosce la pazienza di accompagnare le persone che non condividono il nostro modo di pensare, la nostra fede, di tollerare, di accompagnare, ma mai di vendere la verità».
Con la forza dell’«obbedienza» ecco allora la «testimonianza, che dà tanto fastidio»: basti pensare a «tutte le persecuzioni che ci sono, da quel momento fino a oggi: pensate — ha invitato il Pontefice — ai cristiani perseguitati in Africa, in Medio oriente, ce ne sono di più oggi che nei primi tempi, in carcere, sgozzati, impiccati per confessare Gesù». È la «testimonianza fino alla fine».
Infine, la terza caratteristica dei discepoli sono le «concretezze». Gli apostoli «davano fastidio con la testimonianza perché avevano il coraggio di parlare delle cose concrete, non dicevano favole». Avevano la «concretezza» che li portava a dire: «noi non possiamo negare quello che noi abbiamo visto e toccato». Ecco «il concreto — ha chiarito il Papa — e ognuno di noi, fratelli e sorelle, ha visto Gesù e ha toccato Gesù nella propria vita».
«Succede che tante volte i peccati, i compromessi, la paura ci fanno dimenticare questo primo incontro che ci ha cambiato la vita» ha spiegato Francesco. Magari rimane «un ricordo annacquato» che «ci fa diventare cristiani ma “all’acqua di rose”, annacquati, superficiali». Per questa ragione, ha aggiunto, dobbiamo «chiedere sempre allo Spirito Santo la grazia della concretezza: Gesù è passato nella mia vita, per il mio cuore, lo Spirito è entrato in me, poi forse ho dimenticato; ma» ecco l’importanza di avere «la grazia della memoria del primo incontro». E «per questo la testimonianza di questa gente era concreta: “Non possiamo negare quello che noi abbiamo visto e toccato”».
«Quello pasquale è un tempo per chiedere gioia» ha concluso il Pontefice, suggerendo di chiederla «gli uni per gli altri: ma quella gioia che viene dallo Spirito Santo, che dà lo Spirito Santo; la gioia dell’obbedienza pasquale, la gioia della testimonianza pasquale e la gioia della concretezza pasquale».