San Francesco è oggi più che mai uno dei personaggi chiave per comprendere come si vada configurando il cristianesimo in questo inizio di terzo millennio, a partire dalle parole con cui papa Bergoglio ha spiegato la scelta del suo nome: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri! Per questo mi chiamo Francesco, come Francesco da Assisi».
Con la semplicità, la mitezza e l’intenso fuoco interiore che hanno contraddistinto la sua vita, ancora dopo otto secoli attrae nel santuario di Assisi migliaia di persone ogni anno.
Ma «perché scrivere un altro profilo biografico? Non bastavano le tante biografie, alcune delle quali eccellenti, uscite negli ultimi anni?» si domanda nella Prefazione il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano. «La risposta è che questo lavoro ha una sua caratterizzazione specifica. Si potrebbe dire che si tratta di una lettura ecclesiale del santo di Assisi. Padre Enzo Fortunato ha voluto mostrarci tutta l’attualità del pensiero e dell’azione di Francesco, mentre la Chiesa cerca ogni giorno di compiere quel cammino in “uscita” chiestole da papa Francesco, di non essere cioè chiusa nelle sue istituzioni, ma povera e aperta all’incontro, capace di proporre il Vangelo con la parola e con la vita.»
In queste pagine, ricche di testimonianze letterarie e pittoriche, si delineano così i luoghi che ha visitato, gli incontri che ha fatto, i gesti e le parole con cui ha formulato il suo messaggio, esplicitando quelli che sono stati il suo percorso personale ma anche la sua rivoluzione culturale, per spiegarne il «segreto».
Francesco è l’uomo moderno, come moderna è la lingua che usa sia per la poesia sia per la predicazione.
Era «un ribelle, certo, ma un ribelle obbediente. Un uomo obbediente, certo, ma un obbediente sempre libero» continua il cardinale Parolin. «Come non leggere in controluce, nelle pagine di questo libro e nell’umanità di Francesco d’Assisi, il progetto evangelico che papa Francesco sta portando avanti per tutta la Chiesa?»
Il merito forse maggiore di questo libro è allora «quello di condurci a riflettere sul “ribelle” Francesco, ma anche quello di farci intravedere il volto del cristianesimo delle prossime generazioni».
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Prefazione
Un «ribelle obbediente»
Francesco d’Assisi è stato un uomo che ha segnato la storia. E la storia continua a interessarsi a lui. Non c’è anno che non appaia almeno una nuova biografia del Povero di Assisi. Nel 2010 abbiamo salutato il grande lavoro di André Vauchez, nel 2013 quello di Grado Giovanni Merlo, nel 2015 il volume di Alfonso Marini, nel 2016 quello di Chiara Mercuri e la traduzione italiana del volume di Augustine Thompson. E oggi abbiamo tra le mani una nuova lettura della storia di Francesco scritta da un francescano conventuale del Sacro Convento di Assisi, Enzo Fortunato, che ha fatto della comunicazione culturale un punto di forza della sua missione, intitolando il volume Francesco il ribelle.
Una nuova biografia di Francesco, dunque. La cosa appare del tutto straordinaria in particolare se si considera che Francesco non era un personaggio di potere, non aveva una cultura accademica e non ha partecipato (se non in un senso del tutto particolare) a imprese militari. Era un «semplice». Questa sua condizione lo faceva guardare con sufficienza da parte di coloro che invece si sentivano grandi o colti. È noto il racconto nel quale il cardinale Ugolino di Ostia, che lo aveva invitato a pranzo, si scandalizzò del comportamento di Francesco che era andato per elemosina e aveva portato a tavola e distribuito le elemosine a tutti i commensali. La Compilazione di Assisi dice che «Dopo il pranzo, il prelato si alzò ed entrò nella sua camera conducendo con sé Francesco. E levando le braccia, strinse a sé il Santo in uno slancio di gioia esultante, dicendogli però: “Ma perché, fratello mio semplicione, mi hai fatto l’affronto di uscire per la questua mentre stai in casa mia, che è casa dei tuoi frati?”. Rispose Francesco: “Al contrario, signore: io vi ho reso un grande onore. Invero, quando un suddito esercita la sua professione e compie l’obbedienza dovuta al suo signore, egli onora il signore e insieme il rappresentante di lui”». Il testo latino usa proprio la parola «simplizone», che, essendo in volgare, deve essere uscita proprio dalla bocca del cardinale, il quale evidentemente giudicava il comportamento di Francesco come quello di un «semplicione».
Eppure quest’uomo semplice, come scrive l’autore, ha segnato la storia. Anzi ha fatto della sua semplicità una straordinaria arma contro i benpensanti di ogni orientamento. Perché la semplicità di Francesco non è altro che la semplicità evangelica. È Gesù che aveva detto: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli». Il piccolo Francesco ha cambiato il mondo partendo dai piccoli, dai poveri, dagli scartati. Basta pensare alla pagina, straordinaria, del consiglio da lui dato ai frati di Montecasale, che non sapevano come comportarsi con alcuni briganti che abitavano le selve vicine al convento. Consigliò loro di avvicinarsi a quei briganti offrendo «del buon pane e del buon vino» e chiedendo loro in cambio «di non percuotere nessuno e di non fare del male ad alcuno nella persona. Poiché, se domandate tutte le cose in una sola volta, non vi daranno ascolto; invece, vinti dall’umiltà e carità che dimostrerete loro, ve lo prometteranno». E il racconto continua: «E i briganti, per la misericordia di Dio e la sua grazia, discesa su di loro, ascoltarono ed eseguirono alla lettera, punto per punto, tutte le richieste che i frati avevano fatto loro. Anzi, per la familiarità e la carità dimostrata loro dai frati, cominciarono a portare sulle loro spalle la legna fino al romitorio. E così, per la misericordia di Dio e per la circostanza favorevole di quella carità e familiarità che i frati dimostrarono verso di loro, alcuni entrarono nella Religione, gli altri fecero penitenza promettendo nelle mani dei frati di non commettere mai più, da allora in poi, quei misfatti, ma di voler vivere con il lavoro delle proprie mani».1 Anche i briganti sono per Francesco fratelli, perché anche il nemico è un uomo e il bene può vincere il male, cambiando il cuore anche dei violenti.
Ma perché scrivere un altro profilo biografico di Francesco d’Assisi? Non bastavano le tante biografie, alcune delle quali eccellenti, uscite negli ultimi anni? La risposta è che questo lavoro di Enzo Fortunato ha una sua caratterizzazione specifica. Si potrebbe dire che si tratta di una lettura ecclesiale del santo di Assisi. Perché non c’è dubbio sul fatto che Francesco sia anzitutto un uomo di Chiesa, fedele al papa, e che la Chiesa cattolica si misuri costantemente con l’eredità evangelica del santo di Assisi. Basti pensare ai papi degli ultimi anni. Giovanni Paolo II ha voluto celebrare proprio ad Assisi la Giornata mondiale di preghiera per la pace con i rappresentanti di tutte le religioni del mondo il 27 ottobre 1986. Benedetto XVI, fine conoscitore della teologia della scuola francescana, si è recato ad Assisi più volte e ha compiuto un memorabile pellegrinaggio a La Verna. E, infine, papa Francesco, ha raccontato con semplicità la scelta del suo nome dicendo: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri! Per questo mi chiamo Francesco, come Francesco da Assisi».
Padre Enzo Fortunato, con questa opera, ha voluto mostrarci tutta l’attualità del pensiero e dell’azione di Francesco, mentre la Chiesa cerca ogni giorno di compiere quel cammino in «uscita» chiestole da papa Francesco. Padre Fortunato ha capito che bisognava in qualche modo spiegare il «segreto» di Francesco, cioè la ragione per la quale un uomo semplice, vissuto otto secoli fa, è la migliore incarnazione del cristianesimo come si va configurando in questo inizio di terzo millennio.
Un ribelle, certo, ma un ribelle obbediente. Un uomo obbediente, certo, ma un obbediente sempre libero. Questo libro ripercorre le parole, i luoghi e gli incontri di un uomo allo stesso tempo libero e obbediente. Così facendo non solo si descrive il percorso personale di un uomo, ma si delinea una cultura ispirata al Vangelo, in grado di dialogare con tutti.
Padre Fortunato sa bene che Assisi è un santuario speciale, perché normalmente nei santuari si va a chiedere una grazia, un miracolo. Ad Assisi no, ad Assisi ci si va per incontrare Francesco. Camminando per le strade della città, che ha conservato la sua atmosfera medievale, i pellegrini sperano di incontrarlo in carne e ossa, per rivederlo, per parlarci o semplicemente per stare con lui. Si va ad Assisi per incontrare un uomo che ha vissuto il Vangelo. Direi che ci si va per incontrare il Vangelo stesso, sine glossa. Perché Francesco ancora oggi attira tanta gente? Perché la sua umanità è quella di un uomo mite. Si realizza in Francesco la beatitudine evangelica: «Beati i miti perché erediteranno la terra». I miti non conquistano la terra, non se ne impossessano con la violenza o la forza, essi semplicemente la ricevono come un’eredità, come un dono. Perché i miti hanno una straordinaria forza di attrazione. Chi incontra un uomo mite vorrebbe stare sempre con lui. Così Francesco, ancora dopo otto secoli, con la sua semplicità e la sua mitezza, attrae milioni di persone che ogni anno si recano nella sua città.
Come non leggere in controluce, nelle pagine di questo libro e nell’umanità di Francesco d’Assisi, il progetto evangelico che papa Francesco sta portando avanti per tutta la Chiesa? Una Chiesa non chiusa nelle sue istituzioni, ma povera e aperta all’incontro, capace di proporre il Vangelo con la parola e con la vita.
È questo il merito forse maggiore di queste pagine, quello di condurci a riflettere sul «ribelle» Francesco, certo, ma anche quello di farci intravedere il volto del cristianesimo delle prossime generazioni.
Cardinale Pietro Parolin
Segretario di Stato
8 dicembre 2017
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Introduzione
Il sogno di un ribelle
Da giovane Francesco sognò di diventare un cavaliere. Qualcosa gli diceva che la sua esistenza si sarebbe compiuta lontano dalla sua origine borghese; che una scelta radicale l’avrebbe condotto altrove. La letteratura francese nutriva quel sogno: nella vita dei cavalieri della Tavola Rotonda si poteva scorgere l’immagine di un uomo virtuoso e audace.
Ma quel sogno si dimostrò presto essere il preludio di un altro, ben più grande e importante. Servire totalmente il Signore, vivere secondo il Vangelo, ponendo riparo alla crisi del cristianesimo curiale, stretto tra corruzione ed eresie.
La biografia che presentiamo vuole rivivere questo sogno riconducendosi semplicemente ai gesti essenziali della vita di Francesco, edificata sulla sequela di quella di Cristo.
Ed essere fedele a Cristo fu un compito rivoluzionario. Fu il compito di un anticonformista, di un ribelle.
Con una profonda ricaduta persino nell’arte, come dimostra la storica rappresentazione di Cimabue. Come Francesco volle seguire Cristo incarnato, non un’immagine ideale o trasfigurata, così Cimabue ritrae il Poverello: gracile, ma appassionato e determinato, senza quel volto emergente dagli sfondi dorati dell’arte bizantina. È l’inizio di un realismo che inaugura al finire del Medioevo la nostra modernità. Infatti, sessant’anni dopo la sua morte, annota Philippe Daverio, Bencivieni di Pepo, il pittore fiorentino meglio noto come Cimabue e nato quattordici anni dopo la morte del santo, lo raffigura posto sul lato destro della Maestà che dipinge a fresco, quindi velocemente, nella Basilica inferiore di Assisi.
L’iconografia è innegabilmente degna d’interesse in quanto la scena dell’affresco è analoga a quella d’una pala che Cimabue dipinge negli stessi anni, sempre con una Maestà similare, questa volta stesa a tempera su un fondo oro, e quindi dipinta con l’attenzione e la lentezza che il supporto richiede. La pala spiega meglio l’affresco in quanto vi si riscontra tutta la ieraticità d’una estetica bizantina nel momento della sua evoluzione verso una espressività nuova e intensa. Ciò che colpisce immediatamente l’occhio è la forte dissimilitudine linguistica fra il modo rappresentativo ieratico della Maestà, che avviene nel mondo dei cieli, e la raffigurazione del santo che appare come figura assolutamente terrena. È quello di Francesco, infatti, forse il primo ritratto «realista» della pittura europea sul finire del Medioevo; d’altronde i sessant’anni che separano la sua età ultima dalla sua raffigurazione sono un tempo sufficientemente breve per potere sostenere la veridicità dell’immagine, visto che alcuni testimoni allora ottantenni potevano certificarne la somiglianza e che probabilmente tra i frati circolavano alcune immagini poi disperse.
Questo ritratto è fortemente innovativo in quanto per la prima volta la necessità della somiglianza diventa causa profonda del dipingere. Mai fino a quel momento la questione si era posta: basta a tale proposito rivedere i ritratti, rimasti nei codici miniati, dell’uomo fra i più noti dell’epoca, e cioè quel Federico II di Svevia che si fece raffigurare in modi assai diversi e del quale forse il ritratto più probabile è ciò che rimane di una statua marmorea oggi conservata a Barletta, mentre quella miniata coeva sembra appartenere ad altra persona. Come apparisse effettivamente Federico rimane un mistero; che aspetto avesse Francesco è invece questione apparentemente riscontrabile. Eccolo infatti, privo di ogni esaltazione aulica, piccolo, assai gracile, poetico e determinato al contempo, capace di passione.
Francesco è l’uomo moderno, come moderna è la lingua che pratica e usa sia per la poesia sia per la predicazione. E il suo è di questa modernità forse il primo ritratto autentico. La mutazione dalla percezione bizantina a quella moderna avviene proprio in quegli anni. Per la prima volta la pittura intende raffigurare il mondo della realtà. Ne è esempio assai convincente la minuta descrizione tecnica della Croce vista dal retro nella scena del Presepe di Greccio dipinta nella Basilica superiore: l’attenzione alla carpenteria mai sarebbe venuta in mente a un pittore di tradizione bizantina. Per raggiungere quel risultato ci volle la rivoluzione legata all’esaltazione del lavoro come valore etico, nuovo nella cultura antropologica della città italiana del Duecento. L’Italia dei Comuni stava generando una sensibilità nuova della quale Francesco fu, come afferma Philippe Daverio, uno dei massimi interpreti.
Così il sogno di Francesco è insieme il sogno di una modernità nel segno del Vangelo. È la modernità, l’ora sempre presente della Parola, incarnata nell’azione, nell’andare per il mondo.
Ecco dunque la rivoluzione di Francesco: articolata nei luoghi, nel linguaggio, nei gesti. Ciò alla luce di un orizzonte che è quello della neomodernità.