Il colloquio privato di Papa Francesco con i gesuiti in Myanmar e Banglades.
Grazie per essere venuti. Vedo molte facce giovani, e mi fa piacere. È una cosa buona, perché è una promessa. I giovani hanno futuro, se hanno radici. Se non hanno radici, vanno dove tira il vento. Per cominciare, a me piacerebbe porre una domanda. Ognuno se la rivolga nel suo esame di coscienza: dove sono le mie radici? Ho radici? Le mie radici sono tenaci o sono deboli? È una domanda che ci farà bene. Sant’Ignazio cominciava gli Esercizi Spirituali parlando di una radice: «L’uomo è creato per lodare…». E concludeva con un’altra radice: quella dell’amore. E proponeva una contemplazione per crescere nell’amore. Non c’è vero amore, se non mette radici. Ecco: questa è la mia predica iniziale! Ma adesso vorrei che foste voi a fare qualche domanda.
Grazie, Santo Padre, per essere con noi. Noi tutti viviamo in Myanmar, e lei sta comprendendo la situazione del nostro Paese. Tutti abbiamo la stessa spiritualità, quella degli «Esercizi Spirituali». Questa spiritualità ci fa contemplare l’Incarnazione. Ed è questa contemplazione che ci spinge avanti, che ci muove alla missione. Contemplando la reale situazione del Myanmar, che cosa si aspetta da noi?
Credo che non si possa pensare una missione – lo dico non soltanto da gesuita, ma da cristiano – senza il mistero dell’Incarnazione. È il mistero dell’Incarnazione che illumina tutto il nostro avvicinarci alla realtà e al mondo, tutta la nostra vicinanza alla gente, alla cultura. La vicinanza cristiana è sempre incarnata. È una vicinanza come quella del Verbo: condiscendente. Vi ricordo la synkatabasis, la condiscendenza… Il gesuita è colui che deve sempre approssimarsi, come si è avvicinato il Verbo fatto carne. Guardare, ascoltare senza pregiudizi, ma con mistica. Guardare senza paura e guardare misticamente: questo è fondamentale per il nostro modo di guardare la realtà.
E da questo sguardo nasce l’inculturazione. L’inculturazione non è una moda, no. È l’essenza stessa del Verbo venuto nella carne, che ha assunto la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra carne, la nostra vita, ed è morto. L’inculturazione è farmi carico della cultura del popolo al quale sono inviato.
E per questo la preghiera del gesuita – intendo principalmente in relazione all’inculturazione – è la preghiera di intercessione. È necessario pregare il Signore proprio per quelle realtà nelle quali sono immerso.
Nella Compagnia ci sono stati molti insuccessi nella vita di preghiera. All’inizio, alcuni gesuiti hanno fatto venire il mal di testa a sant’Ignazio, perché volevano che il gesuita stesse chiuso e dedicasse due o tre ore all’orazione… E sant’Ignazio diceva: «No: contemplate nell’azione!». Ed è toccato anche a me viverlo, nel 1974. C’è stato – come saprete – un movimento dei cosiddetti «gesuiti scalzi», che volevano un’osservanza rigida, quasi claustrale, delle regole. Una riforma al contrario, dunque, e contro lo spirito di sant’Ignazio. La vera preghiera e la vera osservanza gesuitica non vanno per quella strada. Non è un’osservanza restaurazionista. La nostra osservanza è guardare sempre avanti con l’ispirazione del passato, ma guardare sempre avanti. Le sfide non sono dietro, sono avanti.
In questo il beato papa Paolo VI ha aiutato molto la Compagnia, e il 3 dicembre 1974 ci ha rivolto un discorso che resta pienamente attuale. Vi raccomando di leggerlo. È un documento attuale. Dice, per esempio, questa frase: «Ovunque, nei crocevia della storia vi sono i gesuiti». Lo ha detto Paolo VI! Non dice: «State chiusi in un convento», ma dice ai gesuiti: «Andate nei crocevia». E per andare ai crocevia della storia, miei cari, bisogna pregare! Bisogna essere uomini di preghiera nell’abitare i crocevia della storia!
Voglio fare una riflessione sulla nostra gente. Alcuni, per vederla, hanno camminato tre giorni, altri hanno messo da parte denaro da sei mesi. Io posso testimoniare che sono stati felici di vederla. Grazie! La mia domanda è questa: molti media hanno detto che la sua visita in Myanmar è una delle più difficili e piene di sfide. È davvero così?
Hai detto due cose. Prima hai parlato del Popolo di Dio. Quando ho saputo che queste persone avevano viaggiato e camminato molto, che per venire avevano risparmiato denaro, vi confesso che ho provato una grande vergogna. Il Popolo di Dio ci insegna virtù eroiche. E ho provato vergogna di essere pastore di un popolo che mi supera per virtù, per sete di Dio, per senso di appartenenza alla Chiesa, perché venivano a vedere Pietro. L’ho provata, e ringrazio Dio per avermela fatta provare. E per inciso vi dico che, se c’è una grazia che il gesuita deve chiedere, è quella di una grande vergogna. Sant’Ignazio ce la fa chiedere nella Prima settimana degli Esercizi Spirituali davanti a Cristo crocifisso. Chiedete la grazia della vergogna, per voi e per me. È una grazia!
Veniamo alla tua seconda domanda. Questo è un viaggio molto difficile, sì. Forse ha rischiato pure di essere cancellato a un certo punto. Dunque, è un viaggio difficile. Ma proprio perché difficile, dovevo farlo! Infatti abbiamo letto nell’Ufficio delle letture, poco tempo fa, che cosa dice il profeta Ezechiele dei pastori che si approfittano del loro popolo, che vivono alle spalle del loro popolo. Vivono per succhiargli il latte, sono pastori che si prendono il latte delle pecore e ne tosano la lana. Sono due simboli. Il cibo sta per la ricchezza, e la lana per la vanità. Un pastore che si abitua alle ricchezze e alla vanità finisce, come dice sant’Ignazio, in una grande superbia. Perciò sant’Agostino riprende questo tema del profeta Ezechiele in un famoso trattato – De pastoribus – facendo vedere che, se il cattivo pastore si aggrappa alla ricchezza, si aggrappa alla vanità, finisce per diventare superbo. Dunque, quello che fa star bene il buon pastore è la povertà. Sant’Ignazio chiamava così la povertà: la madre e il muro della vita religiosa. Il Popolo di Dio è popolo povero, popolo umile, un popolo che ha sete di Dio. Noi pastori dobbiamo imparare dal popolo. Perciò, se questo viaggio appariva difficile, sono venuto perché noi dobbiamo stare nei crocevia della storia.
Quando abbiamo saputo della sua visita, abbiamo cominciato a sentire e pensare che noi siamo nei crocevia, come lei ha appena detto. La sua visita per noi è una spinta in avanti in questo senso. La questione è che spesso lei dice che bisogna avere l’odore delle pecore. Noi qui veniamo da luoghi diversi del Paese, dove avvertiamo come preti questo odore. Alcuni di noi sentono l’odore dei rifugiati. Come possiamo sentire e pensare con la Chiesa, come ci chiede sant’Ignazio, percependo questo odore così intenso che viene dal Popolo di Dio? Come sentire la presenza del Papa?
Ai vescovi, poco tempo fa, ho parlato di due odori: odore di pecora e odore di Dio. Noi dobbiamo conoscere l’odore di pecora, per capire, comprendere e accompagnare, e le pecore devono percepire che emaniamo odore di Dio. E questa è la testimonianza. Oggi la missionarietà, grazie a Dio, non passa dal proselitismo. Papa Benedetto XVI l’ha detto chiaramente: la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza. Come potete sentire la presenza del Papa voi che lavorate là? Come possono sentirla i rifugiati? Rispondere non è facile. Ho visitato finora quattro campi di rifugiati. Tre enormi: Lampedusa, Lesbo e Bologna, che si trova nel Nord Italia. E là il lavoro è di vicinanza. A volte non si distingue bene tra un luogo da cui si attende di uscire e un carcere sotto un altro nome. E a volte i campi sono veri campi di concentramento, carceri.
In Italia si vive molto intensamente questa realtà dei rifugiati che vengono dall’Africa, perché sono là di fronte, e accadono vere e proprie tragedie. Una persona rifugiata con cui ho parlato mi ha detto di aver impiegato tre anni per arrivare da casa sua a Lampedusa. E in quei tre anni è stata venduta cinque volte. Sul traffico delle giovani che vengono ingannate e vendute ai trafficanti di prostitute a Roma, un anziano sacerdote mi diceva ironicamente che non era sicuro se a Roma ci fossero più sacerdoti o più giovani donne schiavizzate nella prostituzione. E sono ragazze rapite, ingannate, portate da un posto all’altro. La Chiesa diocesana di Roma lavora molto su questo. È un lavoro di liberazione.
Poi pensiamo allo sfruttamento dei bambini con il lavoro minorile. Pensiamo ai bambini che hanno dimenticato il gioco e devono lavorare. Ecco la nostra «Terza settimana» degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio: vedere loro è vedere Cristo sofferente e crocifisso. Come io mi avvicino a tutto questo? Sì, io cerco di visitare, parlo chiaro, soprattutto con i Paesi che chiudono le loro frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno dovuto chiudere il cuore. E il nostro lavoro missionario deve raggiungere anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri.
Non so che altro dire su questo tema, se non che è un tema grave. Questa sera noi ceneremo. Molti di questi rifugiati hanno per cena un pezzetto di pane. Forse noi prenderemo un dolce. Questo mi richiama un’immagine di Lesbo. Ci sono stato col patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo ortodosso di Atene, Girolamo. Lì erano tutti seduti per file, molto ordinati – erano molte migliaia –, e io camminavo davanti; dietro di me veniva il patriarca Bartolomeo, e dopo di lui l’arcivescovo Girolamo. Stavo salutando, e a un certo momento mi sono accorto che i bambini mi davano la mano, ma guardavano dietro. Mi sono domandato: «Che succede?». Mi sono voltato e ho visto che il patriarca Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le dava ai bambini. Con una mano salutavano me e con l’altra afferravano la caramella. Ho pensato che forse era l’unico dolce che mangiavano da molti giorni.
E c’è un’altra immagine di Lesbo che mi ha aiutato molto a piangere davanti a Dio: un uomo di circa trent’anni con tre figlioletti mi ha detto: «Sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Ci amavamo molto. Un giorno sono entrati i terroristi. Hanno visto la sua croce. Le hanno detto di togliersela. Lei ha detto di no ed è stata sgozzata davanti a me. Continuo ad amare mia moglie e i miei figli».
Queste cose vanno viste e vanno raccontate. Queste cose non arrivano ai salotti delle nostre grandi città. Abbiamo l’obbligo di denunciare e di rendere pubbliche queste tragedie umane che si cerca di silenziare.
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