L’attualità di don Lorenzo Milani

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Giovanni Orlando

L’attualità di DON MILANI

Premessa

L’intervento odierno si pone a 39 anni dalla pubblicazione di Esperienze Pastorali e a 30 anni dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa. Nonostante però alcune muta­zioni e fatti di cui nessuno può disconoscere l’importanza – primo fra tutti il Concilio Ecu­menico Vaticano II – sembrano acquistare particolare valore alcune intuizioni cui giun­se don Milani, in una appassionata, sofferta vicenda pastorale che lo portò a vivere sulla sua pelle quel rapporto Chiesa-cultura-scuola che troppo spesso noi, o molti di noi, viviamo in rarefatte considerazioni di carattere spe­culativo prive del mordente stimolo di espe­rienze dirette. Non si può negare che sotto il peso di una esperienza pastorale particolar­mente dura a motivo dell’ambiente e delle condizioni di solitudine umana in cui veniva vissuta (come per es. a Barbiana), il tempera­mento di don Milani, difficile a definirsi nel­le sue componenti e sottoporle ad uno sforzo in cui fedeltà e ribellione si contendevano la vittoria, abbia dato luogo a espressioni e at­teggiamenti facilmente condannabili, soprat­tutto se distaccate dal contesto da cui usci­vano. Quando non si tiene conto del contesto storico-culturale ed ecclesiale è facile defini­re il priore di Barbiana “un egoista in balia di una narcisistica volontà di potenza”, “un uo­mo chiuso nella sua cittadella, insensibile al­la storia e ai progressi della chiesa”, “un vete­rotestamentario, esclusivo e violento”. Inoltre, se la sinistra tendeva ad esaltarlo sia co­me “prete-contro”, fino a fare di lui addirittu­ra un precursore del sessantotto, la cultura laicista – non tutta per fortuna – tende oggi a mettere in dubbio la validità della sua espe­rienza e dame giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazione di dati. E se qualcu­no ha tacciato il sacerdote di Barbiana di “maestro improvvisato…manesco e autorita­rio…falsificatore e demagogo” (Vassalli, in La Repubblica 1992), qualche altro pone la do­manda: ’’Cosa aspetta la Chiesa a farlo santo” (I.Montanelli, 1994).

Toccherà a noi Chiesa, sepolto ormai il tem­po delle ideologie e degli slogan, salvare il ve­ro Milani? Potremmo riuscirci, in effetti, se avessimo il coraggio di riscoprirlo integral­mente per il nostro cammino educativo e pa­storale. Il cardinale Benelli, del resto, ha aperto la via, definendo il sacerdote fiorenti­no “esemplare” nella “fedeltà” e rigettandone la definizione di “ribelle” ed “eversore”. E il suo successore di oggi, l’Arcivescovo Silvano Piovanelli, ha accettato di esporsi alle accuse di “riappropriazione a basso costo” della fi­gura di don Milani pur di indicarlo alla Chie­sa come “punto di riferimento” e “profeta”. “Non si può certamente comprendere don Milani e il suo pensiero se” – come ha affer­mato la madre, ebrea e atea- “non si com­prenderà il sacerdote che Lorenzo Milani è stato”. È nella stretta connessione tra il suo compito educativo e la sua missione sacerdo­tale che si chiarisce la sua caratteristica profetica. Mentre intatta rimane la sua fedeltà iti­la Chiesa, rivelata in espressioni di singolare intensità, non era difficile allora, e più facile oggi riconoscere, nella sua drammatica espe­rienza di pastore che non si arrende alla si­tuazione ma la vuole vincere, l’emergere tutt’altro che lontano dalle esigenze di una evangelizzazione che, secondo l’insegnamen­to del Concilio approfondito da Paolo VI e fatto, vorrei dire, leit motiv del pontificato di Giovanni Paolo II, sa che “l’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa” (RH, 14 ).

Se questa indicazione deve avere pienezza di significato, non si può non vedere il rapporto che si stabilisce tra evangelizzazione e cultu­ra, se “cultura è ciò per cui l’uomo si fa più uomo”, è “di più” e non si può non cogliere il posto che in questo rapporto viene a prende­re la scuola, non certamente come sostituto dell’evangelizzazione, ma quale preparazione ad essa, nel rispetto delle differenze che di­stinguono i due momenti della crescita del­l’uomo; ma anche nell’apporto che l’uno reca all’altro in vista di quella crescita unitaria che è misura della statura di un uomo e di un cri­stiano.

Dalla figura del “Priore di Barbiana” traspare la coscienza di un educatore che ha avuto il coraggio di scegliere gli ultimi, di scommet­tere sui non garantiti, poiché questo signifi­cava scommettere sull’uomo in nome di quel messaggio di salvezza destinato a tutti: il Van­gelo. Egli seppe radicarsi profondamente nel­la storia, cogliendone tutte le urgenze in no­me di un’ubbidienza radicale alla Parola. La possibilità di accettare e far proprio il miste­ro della Parola (con la P maiuscola) è data dalla capacità di usare adeguatamente la pa­rola (con la p minuscola) che di quella è pri­mo riflesso, quale segno di presenza dello Spirito, sottraendola al dominio abusivo di una istintività che presume elevarla a simbo­lo del proprio primato. Tale passaggio è inizio del discernimento critico di cui si sostanzia – o dovrebbe sostanziarsi- la scuola fino ai più alti livelli, quel discernimento che, a partire dai livelli elementari, permette di distinguere la voce di Dio dalla voce dell’io.

Vorrei preliminarmente notare che le fram­mentarie riflessioni che mi accingo a propor­re danno per acquisita sia l’opera di conte­stualizzazione storica della vicenda di don Milani, sia l’approfondimento dei tratti sa­lienti della sua spiritualità. Mi limiterò soltan­to a comunicarvi qualche riflessione, a 30 an­ni dalla sua morte, sulla sua esperienza pa­storale e sulla sua proposta culturale e peda­gogica.

1. Interesse e attualità di un impegno sacerdotale.

Don Milani ha operato nell’arco di secolo che va dal 1947 al 1967 (20 anni).

L’interrogativo che mi pongo nel rileggere e nell’esprimere qualche idea circa la situazio­ne in cui operò don Milani è questo: che cosa rimane, oggi, pastoralmente attuale di Espe­rienze pastorali? Dei contenuti rivoluzionari di Lettera a una professoressa e de L’obbe­dienza non è più una virtù? Più esattamen­te: che cosa c’è nel messaggio milaniano di attuale per il nostro cammino di Chiesa dopo il Concilio Vaticano II e per una scuola a ser­vizio dell’uomo nella sua integralità? Dopo tanti orientamenti pastorali su Evangelizza­zione e sacramenti degli anni 70; dopo il Convegno ecclesiale del ‘76 su Evangelizza­zione e promozione umana e del ‘95 Con il dono della carità dentro la storia?

Dico subito che, da questo punto di vista, don Milani potrebbe apparire senz’altro “sorpas­sato” dagli eventi. Rileggendo il suo libro Esperienze pastorali mi è sembrato di avere a che fare con un uomo di altra epoca. Lui stesso, nella sua onestà, l’aveva detto, del re­sto, a soli sette anni di distanza dalla pubbli­cazione del suo volume. In una lettera da Bar­biana del 1965 a un professore che gli chie­deva di mandargli una copia di EP scriveva: ”11 mio libro fece molto rumore quando uscì nel ‘58. Poi è stato sorpassato a sinistra da un Papa! Quale umiliazione per un profeta! Lo considero perciò superatissimo. Resta come un documento per chi fosse curioso della sto­ria della pratica pastorale”. Poi ammetteva “Ci sono alcuni capitoli che forse sono anco­ra importanti”.

Nel suo stile paradossale, simile a quello dell’apostolo Paolo, il quale, una volta fatta un’affermazione assoluta, successivamente la ridimensiona, don Milani stesso sentiva che il tempo stava passando. Questo l’ambito del mio interrogativo. E, per quanto riguarda il suo impegno pastorale, vorrei proporvi una prima riflessione recando due domande suc­cessive: 1. “Quale interesse ha, ancora oggi, la lettura di EP?”; 2.”Che cosa oggi vediamo che don Milani non aveva ancora colto? Che cosa ri­mane ancora di attuale del suo pensiero?”

1.1. Il primato della Parola.

Alla prima domanda sa­rebbe facile dare risposta condensando tutto in una espressione: don Milani è un uomo che ha afferrato in maniera vivissima il pri­mato della parola, intesa nei suoi significati umano e biblico-teologico. Egli ha colto la parola nella sua pregnanza biblica, nella sua potenza creativa, che in EP chiama la sua di­gnità vivificatrice, la sua capacità di piegare, di tra­sformare, di costruire. Qui c’è tutta la dottrina biblica sulla forza creativa, for­mativa della parola: la pa­rola che fa essere uomo.

L’uomo è ciò che è per la parola. In un noto passo di EP, che è di note­vole attualità, don Milani rivelando l’ansia profonda della sua ricerca religiosa e pasto­rale, osserva: ”È tanto difficile che uno cerchi Dio, se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giova­ni operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete e passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tut­to ciò che mi che noi fa vibrare. Ed ecco toccare il tasto più dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare quello che non si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza nean­che cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello di uo­mo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco” (p.237).

Qui sta tutto il segreto dell’attività pastorale ed educativa del priore di Barbiana: e mentre a S. Donato a Calenzano è più presente in don Mila­ni la figura di prete in cu­ra d’anime, a Barbiana emerge quella di “mae­stro”: in tutte e due le esperienze viene colta fortemente la potenza della parola, la sua uni­versalità, il suo valore pe­dagogico; nella misura in cui si insegna a parlare, si insegna tutto. Ma per in­segnare a parlare ci vuole la scuola. E la scuola, co­me egli sottolinea spesso, è tutto un modo di essere. Il primato della parola è insomma la più profonda, la più costante, la più coerente intuizione della sua vita.

Don Milani è convinto che non si può dare tra­smissione di un messag­gio senza il comune pos­sesso di un codice, il qua­le aiuta a esprimere e svi­luppare le potenzialità di ciascuno; è questo codice che rende concreta la possibilità di una comunicazione reciproca e la maturazio­ne di un sapere comune, che è di grande im­portanza per la sua valenza non soltanto ec­clesiale, ma anche politica II linguaggio, la padronanza del lessico, l’uso e la conoscen­za, il primato della parola sono per don Mila­ni la chiave di volta di un qualsiasi sistema educativo che voglia dirsi tale. Infatti, con il suo insegnamento sia a S. Donato, a Calenzano sia a Barbiana, egli si propone di compie­re “un atto di giustizia nei confronti di coloro che non posseggono la parola”.

L’esperienza pastorale, soprattutto di mae­stro, di don Milani è indicativa della rivolu­zionaria novità del suo metodo: leggere la realtà in quella prospettiva dal basso, non dall’alto dei programmi o delle circolari mini­steriali, ma dal punto di vista di Gianni, di co­lui che non ha la possibilità di parlare. Possiamo brevemente vedere su quale sfon­do politico ed ecclesiale don Milani ha pro­clamato il primato della Parola. Un accenno alla situazione della Chiesa del tempo ci con­sente di cogliere la novità del messaggio mi- laniano.

  1. La Chiesa era allora “riservata” verso la Scrittura, tanto che Claudel parlava di catto­lici come di persone che hanno una tale ve­nerazione della Scrittura da esprimerla re­standone il più possibile lontano.
  2. In secondo luogo la Chiesa non aveva an­cora un linguaggio liturgico popolare. Il lin­guaggio era quello della dignità liturgica più alta, esclusivamente latino. Mancava la possi­bilità di parlare della fede in maniera ampia e capace di suscitare un forte dialogo. Il lin­guaggio catechistico era piuttosto statico e ri­petitivo, fissato nell’immobilismo di formule. In questo stato di cose, la parola facilmente perdeva parte della sua forza, perché non era coniugata con le diverse esperienze di vita.
  3. Un’altra nota caratteristica di questo am­biente ecclesiale -che pure aveva grandi ric­chezze e santità- era il non sufficiente credito concesso all’espressione autentica dei senti­menti religiosi profondi. Difficilmente si co­municava intorno alla fede in maniera libera ed espressiva, ma ci si rifugiava, per lo più, in formule o gesti già prefissati.

Si può capire, quindi, come il pensiero di don Milani fosse dirompente, anche se allora il fattore di rottura fu visto soprattutto nel ter­reno politico. Per molti la sua opera fu vista come pratica sconfessione della scomunica papale lanciata contro i comunisti stessi, co­me la prima apertura di fatto di un dialogo tra cattolici e comunisti. In realtà, don Milani, giovane prete mandato in cura d’anime nella parrocchia di S. Donato, si cala in quel picco­lo centro operaio e si interroga attraverso uno studio attento della cosiddetta vita reli­giosa nelle sue quotidiane comunioni, i ma­trimoni che erano celebrati più per soddisfa­re un obbligo sociale che non per realizzare una tappa di particolare significato nella vita di fede. Nel tentativo di dare una spiegazione al grossolano ritualismo della sua gente, don Lorenzo cominciò a pensare che essa fosse spinta ad assumere quegli atteggiamenti non già per il tipo di formazione religiosa incon­trata, quanto piuttosto per la mancanza d’i­struzione generale che le impediva di ap­profondire la dottrina del Vangelo e di vivere con coerenza la proposta che conteneva. Esaminando, quindi, le cose dal “laboratorio” di S. Donato, la religione risulta essersi ridot­ta a un insieme di riti, di feste, che hanno contribuito a scristianizzare il popolo. Con­clusione: il popolo non è ancora iniziato ai misteri del cristianesimo e, tanto meno, edu­cato a viverli nella quotidianità della vita.

Dal rilevamento di questo stato di cose alla deci­sione di fondare una scuola serale il passo era breve. Condotto dalla stessa tradizione familiare a vedere nella cultura il mezzo indi­spensabile per compiere scelte responsabili, don Milani riteneva che solo l’istruzione avrebbe consentito di ricostituire quell’unità tra fede e vita che la scristianizzazione della società aveva spezzato. La scuola avrebbe dovuto tuttavia rivolgersi non ai soli figli dei sedicenti fedeli, ma a tutti, con preferenza per i figli degli operai e dei diseredati che, più degli altri, scontavano le conseguenze della loro ignoranza. Come è facile notare, nell’in­tenzione di don Milani la prospettiva scolasti­co-educativa si saldava strettamente con quella pastorale e la scuola diventava per lui tanto più degna di interesse in quanto gli sembrava ricreare le condizioni dell’ascolto del Vangelo in forma del tutto originale ri­spetto ai modelli di apostolato del tempo. Il successo che l’iniziativa ebbe anche presso i cosiddetti lontani è abbastanza comprensibi­le.

Fedele alla sua primitiva intuizione, don Lorenzo volle che la scuola serale fosse aper­ta a tutti e in particolare ai figli dei poveri in­dipendentemente dal fatto che questi fossero comunisti o professassero idee contrarie alla Chiesa. Egli intuiva che i poveri avevano una vocazione storica da realizzare come portato­ri di una proposta di vita alternativa alla cul­tura dell’egoismo della quale erano i primi a pagare le conseguenze; ma lasciava anche in­tendere che intanto avrebbero assolto la loro missione in quanto fossero stati messi in con­dizione di liberarsi dagli idoli – ignoranza, formalismo, accondiscendenza ai miti della mentalità borghese- e avessero abbracciato il messaggio evangelico. La scuola di S. Donato, a cui finirono quasi per parteci­pare tutti i giovani lavora­tori del luogo, era una co­munità di giovani che stu­diavano insieme prima di tutto lingua e grammatica, sotto la direzione di un maestro intransigente e duro, nella quale ogni tan­to si recavano eminenti uomini di cultura per fare qualche lezione straordi­naria; nella quale non si indugiava nè a propagan­da di partiti, nè a falsifica­zioni di verità attinenti a confessioni religiose di qualunque tipo. Era un modo di essere e di vive­re, prima che una didatti­ca.

La scuola di don Milani, oltre che sconvolgere i contenuti della scuola sta­tale, si inseriva come ele­mento terminale dell’analisi politica della si­tuazione sociale del popolo di S. Donato, ca­ratterizzata da problemi quali l’analfabeti­smo, la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile, la proprietà privata, il tutto entro un contesto che era straordinariamente laico e politico.

L’evangelizzazione si poneva in una fase successiva: ’’Con la scuola non li potrò fare cristiani, ma li potrò fare uomini: a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la grazia o aprirsi tutti e 100,oppure rifiutarsi e altri aprirsi”( EP 200 ). Don Milani era convinto della necessità di privilegiare la lingua in quanto strumento di comunicazione sociale: non si poteva cono­scere, comunicare e lottare nella società senza colmare questa profonda lacuna, che costringeva il popolo di S. Donato in uno sta­to di minorità culturale e sociale. A lui non interessava tanto “colmare l’abisso di igno­ranza quanto l’abisso di differenza” (Ep. 220).

1.3. Don Lorenzo priore a Barbiana.

Negli anni in cui il cappel­lano di S. Donato si impe­gna a fare della sua scuola una palestra di educazio­ne della coscienza socia­le, Pio XII dichiara che “la grande ora della co­scienza cristiana è sona­ta”. Bisognava in tutti i modi opporsi al comunismo. Don Milani rifiuta di fare dell’anticomunismo un motivo dominante del suo atteggiamento di edu­catore. La sua posizione politica – critica nei con­fronti di ogni partito e or­ganizzazione che avesse cercato di ottenere il con­senso popolare senza educarne la coscienza po­litica – non gli fece rispar­miare forti obiezioni alla Democrazia Cristia­na e al governo: inoltre, la sua scuola popola­re era diventata con la sua stessa esistenza una critica ad altri metodi pastorali.

Da qui la reazione di una minoranza della sua parrocchia e di sacerdoti vicini. Anche se non tutto è chiaro circa il trasferimento di don Milani da S. Donato a Barbiana, abbiamo elementi sufficienti per affermare che non si trattò di un normale avvicendamento di sa­cerdoti, ma di un atto con cui si intese porre fine ad una linea pastorale che la gerarchia e la curia fiorentina ritenevano di non poter condividere. Alla fine del ‘54 fu nominato par­roco a Barbiana, una sperduta parrocchia in mezzo ai boschi dei monti Giovi (120 perso­ne ). Don Milani capì che, con la nomina a Barbiana, si era voluto inviarlo ad una specie di confino e se ne dolse soprattutto perché temeva di apparire agli occhi della gente co­me un demagogo ereticheggiante, privato della fiducia dei suoi superiori. La sua soffe­renza non è principalmente sul distacco da un popolo e da una scuola che è “agli ultimi respiri”, quanto sul fatto che è in questione la sua cattolicità e la sua ortodossia.

“Non soffro tanto per il distacco dal popolo (distacco relativo perché non c’eravamo mai voluti bene come dopo questa batosta) quan­to per il fiasco clamoroso che ho fatto nel­l’intesa con i confratelli…Questo mette in questione tutta la cattolicità di tutto il mio la­voro perché mi illudevo di essere un prete cattolico, ma ora che i preti più vicini in per­fetto accordo mi hanno sbranato…un prete cattolico isolato è inutile” (Lettere, p.130). È questa una delle tante circostanze in cui don Milani si appella disperatamente al suo esse­re nelle Chiesa: maggiori saranno le diffi­coltà, più forte diventerà la sua protesta di ra­dicamento. Inoltre la sua appartenenza alla Chiesa, invece di farlo rimanere in disparte a tacere ( tacere? “tacere non è rispetto”) lo spinge a intervenire.

Lorenzo Milani è divenuto segno di contrad­dizione: ci si presenta come un ribelle e nes­suno è più obbediente di lui. Per don Nesi, don Milani “ha avuto nell’obbedienza il suo pregio, il suo merito…Obbediente a Dio, alla Chiesa, al primato della coscienza, la sua li­nea è quella di coloro che partono da una scelta interiore ben caratterizzata e si metto­no a faticare nel tessuto vivo delle cose e de­gli uomini” (A. Nesi, A un anno dalla morte, l’obbedienza di don Milani, Il Focolare, 1968, p. 1). Il suo essere prete lo impegnava a operare nel mondo a favore degli oppressi e dei diseredati con tutto un patrimonio di “certezze assolute”. E mentre a S. Donato “og­getto privilegiato della sua formazione edu­cativa sono gli operai, a Barbiana sono i con­tadini. È in questa seconda fase della sua esperienza pastorale che don Milani si impe­gna, in maniera più profonda, nella scelta de­gli emarginati, perché promuovendo la loro condizione sarebbe stato possibile staccarsi dagli idoli e procedere sulla via della propria liberazione!

Il discorso milaniano tendeva puntualmente a far cogliere l’importanza della soggettività e l’indipendenza dal Vangelo, rispetto alle ideo­logie e agli schieramenti: si tratta cioè della li­bertà e della trascendenza della pa­rola. Tra gli aspetti della sua genero­sa testimonianza, soprattutto nel­l’ultima parte della sua vita, ricorde­rei il primato dei poveri, il primato del popolo da lui affermato con pas­sionalità e con assolutezza: forse con il risentimento profondo della sua origine borghese sentito un pò come peccato originale. Si badi co­munque che quella di don Milani è una interpretazione prevalentemen­te culturale della povertà. Povero è chi non sa parlare, se si sapesse par­lare, in qualche maniera non ci sa­rebbero più poveri! Ecco, allora, lo scopo fondamentale dell’azione pe­dagogica di don Milani: dare la paro­la ai poveri che non l’hanno, ossia ad educarli ad esprimersi, a capire, a documentarsi. “La povertà dei poveri – egli scrive- non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzio­ne sociale” (EP, p.189).

Don Milani visse all’insegna di un profondo radicalismo evangelico, che non voleva blan­dire nessuno, nè rendersi servo di alcuno. Nella lettera del 1950 a Pipetta, un giovane comunista di S. Donato, scriveva: ”Ma il gior­no che avremo sfondata insieme la cancella­ta di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene, Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò lì con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puz­zolente a pregare per te davanti al mio Signo­re crocifisso. Quando tu non avrai nè fame, nè sete ricordatene, Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdo­te di Cristo: “Beati coloro che hanno fame e sete” (LPB, pp. 11-13).

1.4. La scuola a servizio di una società solidale

Per meglio mettere a fuoco i contenuti della sua proposta educativa converrà tener pre­sente la Lettera a una professoressa che don Milani scrisse con il concorso dei ragazzi e pubblicò nel maggio del ‘67, un mese prima di morire. Scritta occasionalmente a seguito dell’insuccesso di alcuni giovani di Barbiana presentatisi agli esami per il conseguimento dell’abilitazione magistrale, essa mi sembra, infatti, costituire una specie di manifesto nel quale don Milani esponeva in forma talvolta insistente e provocatoria le idee-forza da lui maturate nel vivo della sua esperienza peda­gogica. Da essa derivano alcune “idee regolative” quanto mai adatte ad inserire e tener vi­vo dentro l’attuale processo di riforma della scuola pubblica, il fermento della novità. E innanzitutto quest’idea, estremamente inat­tuale, che lo studio è una cosa seria, che l’a­lunno e il maestro sono vincolati ad un impe­gno che non consente indulgenza permissiva come quella che la contestazione sessantot­tesca ha introdotto nella nostra scuola ap­piattendone il valore morale e favorendo un egualitarismo antiselettivo che in ultima istanza giova a coloro che a monte della scuola hanno il privilegio delle garanzie so­ciali.

Vorrei, ora, precisare qualche breve conside­razione in ordine a tre punti particolarmente significativi:

  1. le finalità che don Lorenzo assegnava alla scuola;
  2. la visione con cui si rappresentava il rap­porto maestro-alunno;
  3. le principali intuizioni che egli andò ab­bozzando sul piano propriamente didattico. Le finalità educative che nel più ampio oriz­zonte di promozione degli emarginati, egli at­tribuiva alla scuola, si possono ridurre sche­maticamente a due: lo sviluppo dell’autono­mia personale di giudizio e al tempo stesso attivazione di un forte senso della solidarietà umana. Secondo lui, il maestro poteva ritene­re raggiunto il suo scopo solo il giorno in cui gli alunni si fossero staccati da lui e avessero cominciato a comunicare da soli. Occorre però aggiungere che agli occhi di don Milani la scuola doveva compiutamente dare ai ra­gazzi il senso della solidarietà che lega gli uo­mini gli uni con gli altri. Si trattava non di educare a un’autonomia di giudizio fine a se stesso, ma a una libertà che sviluppasse il gu­sto del servizio agli altri in vista dell’avvento di un’umanità finalmente impregnata dalle beatitudini evangeliche. Nella prospettiva del priore, la centralità dell’educatore si giocava nella capacità che questi aveva di diventare per i giovani un modello di alta e generosa vi­ta morale. E questo comportava vivere nella storia “appassionatamente attenti al presente e al futuro e saper amare: “Voi siete come i preti e le prostitute, dicono di amare tutti, ma non amano nessuno”!

Nell’esperienza educativa e nella progettazio­ne pedagogica di don Milani, l’interesse pre­valente è rivolto alla scuola media unica in su: è, in sostanza, soprattutto polarizzato verso la formazione dell’umanità adulta. La sua opera educatrice mira ad aiutare a saper scrivere e a saper leggere sul serio per spezzare la spi­rale dell’analfabetismo di ritorno. A tal fine occorre una scuola che vada al di là della meccanica del leggere e dello scrivere che punti verso un’effettiva educazione alla paro­la scritta e parlata; che trasformi il piccolo let­tore di giornale e di libri, il passivo uditore di un discorso in un interlocutore attivo, l’inatti­vo spettatore di una proiezione televisiva o fil­mica in uno spettatore presente non solo con il cuore , ma anche con la mente. È a tutti no­to che il documento uscito da Barbiana ha provocato reazioni e polemiche. La cosa é fa­cile da spiegare per un duplice motivo. Innan­zitutto perché la Lettera non si limitava a met­tere a fuoco un’esperienza originalissima com’era quella di Barbiana ma dava anche al­cuni giudizi sulla realtà scolastica del paese; secondariamente perché, nel clima della con­testazione, essa venne subito presa come punto di riferimento della rivolta studentesca. La struttura della scuola pubblica che don Lo­renzo aveva di fronte negli anni 60 non era più la stessa rispetto a quella che aveva conosciu­to a Calenzano. Nel dicembre del 1962 in for­za delle convergenze di governo fra cattolici e socialisti, il parlamento aveva varato la legge che aboliva gli avviamenti professionale e isti­tuiva la scuola media unica.

Don Milani dice­va di riconoscersi nella linea sottesa a questa legge, ma riteneva che essa costituiva un pas­so avanti solo teorico perché lasciando l’ora­rio e il calendario inalterati, essa continuava a rafforzare la sperequazione tra gli alunni a vantaggio di quelli che potevano essere aiuta­ti a casa. La scuola gli sembrava affidata a in­segnanti secondo lui legati a una visione della cultura come strumento di selezione sociale e poco sensibili alle gravi responsabilità della loro vocazione di educatori.

Rispetto a tale situazione la Lettera propone­va almeno tre riforme: a) eliminare il sistema delle bocciature; b) introdurre il tempo pieno per tutti coloro che, a motivo della loro con­dizione di origine, denunciassero una qual­che difficolta nello stare al passo con gli altri; c) motivare gli svogliati con uno scopo. Tutto questo si basava sul principio “la cultura vera quella ancora non posseduta da nessun uomo é fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che selezio­na distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”. Don Milani, pur attac­cando il sistema scolastico in vigore a suo av­viso troppo funzionale a una concezione egoistica dello studio, sosteneva il valore pie­no della scuola e la necessita della presenza attiva del maestro. Ma alla radice c’é un con­trasto ben più radicale. In verità, il priore ri­vendicava la legittimità del rapporto educati­vo, in quanto egli non riusciva a concepire al­tra crescita del soggetto se non per il tramite e in virtù di nuove e più ricche forme di soli­darietà’ basterebbe rileggere quello che nel­l’ottobre 1965 scriveva nella Lettera ai giu­dici.

Don Milani affermava che ogni coscienza li­bera e responsabile (“ognuno é responsabile di tutti”) avrebbe dovuto opporsi alle leggi che favorissero soprusi dei più forti; ma ag­giungeva che questa opposizione si giustifica­va solo con la ricerca di leggi più umane e più eque. “La scuola è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato for­mare in loro il senso della legalità (e in que­sto somiglia alla vostra -dei giudici- funzio­ne), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)” (L’obbedienza non é più una virtù, p. 46).

2. Ma la Chiesa é andata avanti

Vi ho detto le mie riflessioni con timore e tre­more, perché siamo di fronte a una persona­lità eccezionale che non é lecito ridurre o frantumare; e insieme con semplicità perché don Milani stesso sapeva che i tempi andava­no e le premesse da lui poste dovevano svi­lupparsi in albero molto più grande. Un albe­ro che a noi, oggi, sembra d’intravedere me­glio nel cammino ecclesiale di questi anni do­po il Concilio Vaticano II ed il Convegno ec­clesiale di Palermo: infatti, l’immagine di un popolo che esprime la propria fede in una cultura e in una storia permette di chiarire anche alcune intenzioni del priore di Barbia­na: dalla ripresa della cultura della persona “come soggetto autocosciente libero, ma an­che aperto alla verità dell’essere, agli altri, a Dio”, fino “alla riscoperta della partecipazio­ne responsabile alla vita pubblica, di essere presenti nelle nuove Barbiane abitate dai nuovi poveri per dare un contributo decisivo per una diffusa cultura della solidarietà” (CEI, II Vangelo della carità per una nuova società in Italia, n. 34).

Nei 30 anni che ci separano dalla morte di don Lorenzo Milani é certamente mutata la qualità della coscienza comune ecclesiale e molti “profeti”, di quel tempo sono scompar­si dal nostro orizzonte. Don Milani, per certi aspetti, invece, resiste al cambiamento, anzi sembra quasi che il mutar delle cose vada sempre più nel senso di certe sue intuizioni fondamentali. Ma non sarei completo se non riferissi le mie riflessioni sulla sua esperienza di Chiesa come é esposta in esperienze Pa­storali. Mi limito a tre osservazioni.

Una prima osservazione di carattere descrit­tivo. Nel leggere EP a trentanove anni di di­stanza ci accorgiamo che dietro manca un Concilio, manca la possibilità di riferimento a un consenso ecclesiale sicuro e universale su alcuni orientamenti fondamentali e urgenti che il Vaticano II, oggi, ci offre. Don Milani é la figura del pioniere che, aldilà della scrittu­ra e dell’osservazione del quotidiano, non ha altri significativi punti di riferimento del pro­prio tempo, non ha la possibilità di appog­giarsi ad una visione globale che permetta un ampio consenso. Proprio in considerazione di ciò, oggi, possiamo stimare l’immenso va­lore per il nostro secolo di Giovanni XXIII di indire un Concilio. Non per nulla lo stesso don Milani, con una frase un po’ scherzosa poté osservare: “sono stato scavalcato a sini­stra da un Papa”.

Una seconda osservazione: don Milani non percepiva che il discorso pastorale postula un mutamento stesso del modo di essere del­la Chiesa. Non era possibile suscitare uno spirito critico nei giovani con la convinzione che i giovani potessero restare critici dove la critica era demonizzata. Occorreva fare quel­lo che poi è avvenuto nella rivoluzione co­pernicana del Concilio. Mettere al centro del­l’esperienza di fede la comunità. È vero inol­tre che il luogo ecclesiale specifico della tra­sformazione di fede non é la scuola (ecco la componente illuministica di don Milani) ma la comunità, dove con libertà si ascolta e con libertà si risponde alla Parola di Dio. Questa é una lacuna che forse egli non ha fatto in tempo a colmare.

Una terza osservazione: il problema della Chiesa locale in don Milani é rimasto come oscurato dalla parola. Non che don Milani non abbia colto perfettamente il problema dell’ambiente, come realtà sociologica, come punto di partenza dell’azione pastorale; non che non abbia colto la realtà della parrocchia come gruppo di persone che si comportano in maniera molto diversa e secondo schemi tra­dizionali di cui non conoscono neppure il per­ché. La critica ai metodi sbagliati, la proposta di criteri pastorali alternativi, di una pedago­gia incentrata sulla scuola non sembrano so­stenuti dal riferimento ad una visione di Chie­sa comunità. Se don Milani fosse oggi nella Chiesa fiorentina non avrebbe bisogno di fare il braccio di ferro con la Curia, perché alla Chiesa “autoritaria” si sta sostituendo una Chiesa di comunione. L’ideale di don Milani sembra riassumersi nella convinzione secon­do cui i singoli andranno in chiesa quando sa­ranno educati. Ma l’idea di che cosa sia questa Chiesa come essa si costruisca in comunità, non é ben presente nella ricerca di don Lo­renzo. Nonostante queste osservazioni e altre che potrebbero aggiungersi, don Milani é sta­to un uomo profondamente appassionato e fermo su alcune certezze formidabili. Il suo essere prete, la sua parrocchia, la sua gente, Gesù Cristo, i poveri sono tutti motivi che gli danno ancora oggi una grande dignità morale e religiosa. Egli é rimasto come indicatore di strada ancora al confine di un orizzonte più vasto ed articolato di comprensione dei di­versi modi di presenza del mistero di Dio nel mondo e del farsi della Chiesa nella storia.

Se dovessi riassumere in una parola che cosa rimane, soprattutto per me, oggi come stimo­lo della sua così intensa passione per la paro­la, per Gesù Cristo, per il popolo, per il pove­ro, direi che rimane proprio la sua grande pas­sione per l’esperienza della parola divenuta miracolo, per l’esperienza della parola tra­smessa e consumata nella vita. Questo il cre­do del priore di Barbiana: dare, donare la pa­rola ai poveri. Egli crede nella reale capacità di tutti a una conversione che deve riguarda­re l’uomo nella sua interezza e, insieme, pene­trare in tutte le strutture sociali. Perché tutto questo possa realizzarsi è necessario – questa è l’intuizione e l’esperienza pastorale di don Milani – liberare l’uomo dallo stato di passività qualunque sia l’istituzione in cui si trovi, la parrocchia o la “casa del popolo”. Ecco, la li­berazione consiste nel dare al ragazzo, all’uo­mo, la capacità di giudicare con la propria te­sta: la proposta di don Milani è un invito ad essere creativi nella vita e della vita; quindi, un invito ad essere protagonisti nella storia e della storia. In questo senso la Scuola di Bar­bina è stata e rimane un’esperienza-chiave di avanguardia e di rottura. Dico, è stata: perché sono passati 30 anni dall’esperienza di Barbiana e il mondo non è più come allora. La scuola ha perso la sua incidenza perché i mez­zi di trasmissione che incidono sullo sviluppo del ragazzo si sono moltiplicati. Quando si legge la vita di alcuni ragazzi di Barbiana sem­bra di essere in un altro mondo, in un’altra epoca lontanissima. Quelle situazioni esem­plificate sono oggi irreali. Però siamo entrati in una specie di meccanismo formativo a ca­rattere planetario che ci manipola, ci suggeri­sce le parole che dobbiamo dire, e ci fa, lo sappiamo o meno, strumenti del potere eco­nomico, che poi è il potere che conta.

Noi viviamo non in un tempo di comunicazio­ni… ma di trasmissioni: la cultura del nostro tempo è affidata ai meccanismi di trasmissio­ne che sono gli stessi processi dei partiti (spe­ro che non sia della Chiesa). Trasmettere ciò che deve essere trasmesso. Non per nulla, co­me sapete, anche i mezzi di comunicazione sono entrati nella lotta delle grandi multina­zionali. Le notizie sono merce da comprare, lo sa Berlusconi: si compra, si compra l’informa­zione. Noi siamo dentro questo sistema che non è più quello prefigurato o rappresentato da Lettera a una professoressa… Ci sono le Barbiane che vengono in mille modi manipo­late, integrate, disgregate, perché si dilati il si­stema del conoscere di cui noi siamo gli usu­fruttuari di primo piano.

Ecco allora il contrasto tra il modello della scuola che la Lettera descrive con tanta effi­cacia e la scuola di stato a stile “manageria­le”, che spesso mira a selezionare, a scartare, a integrare. La Lettera ci rimette in questio­ne (sì, perché c’è una Barbiana dentro di noi) e svela che anche noi siamo spesso in uno stato di sofferenza per le manipolazioni che dobbiamo subire, per i luoghi comuni che ogni giorno inconsapevolmente assorbiamo e di cui viviamo, salvo poi a scoprirli e a vergo­gnarcene.

Conclusione

Don Milani ci ha insegnato e ci insegna che sperare per dare dignità all’impegno educati­vo, per aiutare la scuola a essere scuola è un compito nobile e degno del Cristiano e non è altro dall’evangelizzazione, perché appassio­nare l’uomo alla ricerca della verità, offrirgli gli strumenti della conoscenza, educarlo al discernimento critico, far maturare il deside­rio della di una pienezza di senso, significa consegnarlo a Colui che è via, verità e vita: Cristo redentore dell’uomo. La proposta edu­cativa del priore di Barbiana è un invito ad essere creativi: nella vita e della vita; quindi un invito ad essere protagonisti della storia e nella storia. In questo senso, la scuola di Bar­biana è stata e rimane un’esperienza-chiave di avanguardia e di rottura. È nella stretta connessione tra il suo compito educativo e la sua missione sacerdotale che chiarisce la ca­ratteristica profetica: ”La scuola siede tra passato e futuro e deve averli presenti en­trambi, il maestro deve essere, per quanto può, un profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare nei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso” (Lettere, p.250).

Questo comporta vivere nella storia “appas­sionatamente attenti al presente e al futuro”. Così è stato per don Milani che, appunto per ciò, ancora ai nostri giorni, “è più per doma­ni, che per l’oggi”.

N.B. Mons. G. Orlando è autore del volume Don Milani e la scuola della Parola, AVE ed., 1987

Testo prelevato dalla rivista Proposta Educativa