Gesù piange: ha pianto per una singola persona, l’amico Lazzaro morto, ora piange per la collettività, la città di Gerusalemme di cui intravede il prossimo destino di distruzione. Le lacrime –parole non verbali – operano un ri-orientamento delle emozioni: spostano l’attenzione dalla mente al corpo sciogliendo il dolore psicologico. Ma il pianto di Gesù su Gerusalemme è linguaggio profetico che traduce ed esprime il pathos di Dio sull’oggi storico della città. È un pianto che si pone nella scia del pianto di Isaia (Is 22,4), di Geremia (Ger 13,17), di Ezechiele (Ez 21,11), cioè del pianto di Dio stesso sul suo popolo.
Se il “vedere” di Gesù a volte introduce il suo intervento per incontrare, guarire, consolare, dialogare, qui invece si dice che, vista la città, “pianse su di essa”. Gesù esprime la compassione per la città e la propria impotenza di fronte a ciò che sta per accadere. Linguaggio profetico, il suo pianto è in stridente contrasto con la gioia, le risa e la felicità dei pellegrini, che giunti a Gerusalemme, cantano il Salmo 122 che celebra la saldezza architettonica della città (“Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”) e che si profonde in una preghiera per la pace di Gerusalemme. “Città (o “visione”) di pace”: questo il significato del nome “Gerusalemme”! La parola e lo sguardo profetico sono sempre in controtendenza, lasciano il profeta in una profonda solitudine e inducono la maggioranza a considerarlo “strano” e “insopportabile”. Ma il profeta non annuncia se stesso o i propri sogni e deliri, bensì accorcia la distanza tra i pensieri e le vie di Dio e i pensieri e le vie dell’uomo. E facendoli propri, va incontro a incomprensione e ostilità.
Dunque, al contrario dei pellegrini salmodianti e festanti, Gesù piange e afferma che Gerusalemme sarà ridotta macerie perché non ha riconosciuto “la via che conduce alla pace”. Gesù si deve arrendere e riconoscere che c’è un “troppo tardi”. Sì, anche l’ineluttabile ha una storia e viene preparato da parole e gesti quotidiani, da atti e da omissioni che di per sé possono sembrare insignificanti finché l’effetto prodotto dal loro accumulo diviene incontrollabile e può solo essere subìto. E l’evento catastrofico diventa il punto di vista da cui guardare a ritroso la storia dei propri errori. È la tragicità celata negli anfratti quasi invisibili del quotidiano. Uno di questi gesti l’evangelo lo ha appena raccontato quando, ai farisei che gli ingiungevano di rimproverare i discepoli che lo acclamavano come messia al suo ingresso nella città santa, Gesù ha ribattuto: “Se questi taceranno, grideranno le pietre”. Ora è chiaro che il grido delle pietre sarà il grido della loro rovina.
Il pianto di Gesù esprime anche la constatazione della vanità dei suoi sforzi di riunificare i figli di Dio in Gerusalemme “come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali” (Lc 13,34-35). E anticipa le sue parole di rimprovero alle donne che piangono su di lui mentre sale il Calvario: “Non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli” (Lc 23,28). Il pianto di Gesù esprime il dolore di chi, vedendo l’accecamento di tanti, prega: “Padre, perdona, loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
fratel Luciano della comunità monastica di Bose
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo:
«Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi.
Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Puoi ricevere il commento al Vangelo del Monastero di Bose quotidianamente cliccando qui