Enzo Bianchi – L’urgenza di una vera conversione

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La chiesa di Dio che è in Italia vive un’ora che dovrebbe essere di scelte e decisioni molto importanti per il futuro della fede cristiana nella nostra terra. Sarà capace di operare un mutamento profondo, impostole innanzitutto dalla fine di un mondo e dall’affacciarsi dei germogli di una nuova stagione? Sarà capace di quella “conversione pastorale” alla quale la chiama papa Francesco, conversione pastorale urgente perché la primavera inaugurata da papa Francesco ormai è attestata e il rischio grande è che finisca proprio per risultare estranea, anacronistica rispetto all’inedita situazione antropologica, sociale, culturale.

Sono ormai passati più di quattro anni dall’inizio del pontificato di papa Francesco: non sono pochi, considerando anche che questo papato non potrà essere lungo come quello di Paolo VI o di Giovanni Paolo II, con la conseguente possibilità di incidere per lungo tempo nella vita della chiesa cattolica. Tutti, così almeno sembra, sono convinti di questo cambiamento d’epoca, ma poi l’incamminarsi effettivo su nuovi sentieri, l’acconsentire al lutto della stagione passata, l’andare al largo su acque profonde, lasciando la calma delle baie è un’altra cosa ed è qui che a me sembra che prevalga l’inerzia, la logica del “si è sempre fatto così”, un facile provvidenzialismo scambiato per fede, il rifiuto della fatica a discernere i segni dei tempi.

Eppure papa Francesco si è rivolto alla chiesa italiana in modo puntuale e autorevole, chiedendole un mutamento preciso. Al convegno nazionale di Firenze, il 10 novembre 2015, due anni dopo la promulgazione dell’esortazione past-sinodale Evangelii gaudium, il papa ha detto: “Permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni diocesi, in ogni regione cercate di avviare in modo sinodale un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”. D’altronde, nell’esortazione stessa il papa aveva chiaramente manifestato il suo desiderio che fosse accolta come invito “a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (EG 1)

Nonostante ciò, questi inviti pressanti e convinti paiono non aver avuto finora una risposta adeguata. In una recente intervista, il cardinal Bassetti ha confessato che in occasioni di due udienze il papa gli ha chiesto: “Ma l’Evangelii gaudium sta entrando nelle chiese italiane?”. Domanda imbarazzante, confessa il cardinale, alla quale ha risposto: “Un pochino…”. E il papa di rimando: “Non ho chiesto qualche rinnovamento della pastorale, vi ho chiesto una conversione pastorale!”. E qui non si può tacere l’ironia: la formula “conversione pastorale” è stata coniata proprio in Italia ed è presente in modo chiaro e significativo nel documento “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, emanato dal vescovi italiani all’inizio del terzo millennio. Perché tanta lentezza, allora? Viene da chiedersi: “Siamo ancora lì?”. Nella stessa intervista, il cardinal Bassetti dichiarava: “Nella chiesa italiana si registra una certa lentezza nella ricezione del progetto di papa Francesco e si osservano tanto chiusure!”. Giudizio pacato, ma espresso con parresia e che significativamente trova concordi altre voci nella chiesa che leggono la situazione in modo analogo. C’è un libro intelligente, molto coraggioso del biblista di Firenze Giulio Cirignano, ci sono articoli di don Giuliano Zanchi, liturgista bergamasco, di don Marcello Neri e di altri che denunciano questa situazione: il canto del gallo risuona, ma si continua a dormire. Cerchiamo di capire il perché.

Innanzitutto occorre rilevare che abbiamo alle spalle, dopo la primavera di Giovanni XXIII, del concilio e di Paolo VI, decenni in cui la chiesa italiana ha cercato sì di attuare il concilio, però non solo assecondandone un’interpretazione restrittiva, ma dimenticando l’evento concilio e lo spirito che lo animava. Per questo è stata una chiesa più impegnata ad autoconservarsi che non una chiesa estroversa, una chiesa autoreferenziale e non una in confronto fiducioso con l’umanità, una chiesa che ha tentato di far rivivere – fino a illudersi di esservi riuscita– una nuova forma di cristianità, giungendo persino negli anni attorno al 2000 a un’alleanza con il potere politico: una chiesa tentata di stemperare il cristianesimo in “religione civile”.

Don Giulio Cirignano così riassume: “Questi cinquant’anni dal concilio sono stati vissuti in Italia quasi come una mesta elaborazione del lutto”. Dal canto suo l’attuale presidente della CEI afferma che “il peccato originale è stato la poca ricezione del concilio Vaticano II nella chiesa italiana”. Così – mi sento di doverlo dire perché conosco bene e ascolto numerosi vescovi – l’episcopato italiano nella sua grande maggioranza non è ostile al papa, non lo contesterà mai, ma resta con un’altra sensibilità che gli impedisce un’obbedienza entusiasta alle sue richieste.

Tra i nuovi vescovi scelti da papa Francesco, ce ne sono alcuni che hanno inaugurato uno stile nuovo, ispirato sì dal papa, ma prima ancora dal Vangelo; tuttavia essi non sono in numero sufficiente per dare un nuovo volto all’insieme dell’episcopato italiano, anche perché continuano ad avvenire anche nomine di persone “in carriera” o impegnate soprattutto nell’attesa di una promozione. E il clero? In verità i preti sono affaticati, sempre meno numerosi e più anziani – almeno in Italia settentrionale e centrale – sovente in situazioni di povertà economica e umana: salvo alcuni, faticano ormai a entusiasmarsi per nuove forme di missione. Ecco perché è importante che ora con urgenza la chiesa italiana, a iniziare dai vescovi e dai presbiteri, assuma la responsabilità del mutamento che le è necessario per essere luce e sale in un mondo che è rimane sì indifferente al fatto religioso, ma che è anche sempre raggiungibile dal Vangelo, il quale, se ascoltato, provoca la fede.

Se si vogliono discernere e indicare le urgenze, bisogna riconoscere che sono molte, ma ve n’è una che non ho mai cessato di proclamare e che, significativamente, il presidente della CEI card. Bassetti ha evidenziato nella sua prolusione al consiglio permanente del 26 settembre scorso: l’urgenza che ogni parrocchia, comunità, chiesa locale, riconosca fattivamente la priorità, la centralità del Vangelo. Perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo. È il Vangelo che deve plasmare la vita del cristiano, è la vita umana di Gesù che deve ispirare la vita quotidiana del cristiano. Questo richiede che si viva un’assiduità personale con la parola di Dio e che tutto l’operare della chiesa sia obbedienza piena al Vangelo. Nella Evangelii gaudium questa egemonia del Vangelo è positivamente ossessiva perché il papa crede fermamente che “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16), è l’energia assolutamente necessaria all’operare dei cristiani.

Questa non è teoria, non sta nel mondo delle idee astratte, ma è la condizione necessaria perché si possa evangelizzare nella compagnia degli uomini. E qui mi permetto di notare che significativamente proprio con il magistero di papa Francesco si svelano i pensieri di molti cuori: quelli dei cristiani del Vangelo e quelli dei cristiani del campanile, che al Vangelo preferiscono la tradizione culturale, l’identità cattolica. Ecco perché papa Francesco, accolto dagli italiani con entusiasmo e applausi, comincia a subire anche diffidenze e rifiuti: perché “riguardo alla misericordia esagera”, perché “con questa accoglienza dei migranti esagera”, perché “con lui non si capisce più chi è fuori e chi è dentro la chiesa”. Parole che manifestano come la mente che le partorisce sia lontana dall’annuncio del Vangelo.

Da parte mia, mi sento di poter dire: “Finalmente assistiamo a una apocalisse!”, a un alzare il velo sulla realtà di molti che si sono sempre vantati di essere cristiani ed erano abituati ad affermarlo “contro” gli altri. Se il Vangelo torna a essere l’ispiratore della vita, allora le altre urgenze – quella di una chiesa sinodale, quella di una chiesa che includa i poveri, quella di una chiesa aperta a tutti, anche ai peccatori – saranno tenute in conto e realizzate. Allora la chiesa sarà missionaria o, meglio, ogni battezzato sarà evangelizzatore, capace di farsi ascoltare perché a propria volta esercitato all’ascolto del Vangelo e all’ascolto degli altri. Il mio vecchio e sapiente parroco, quando ancora si pregava in latino, al canto delle Lamentazioni in Settimana santa “Ierusalem, Ierusalem, convertere ad Dominum Deum tuum”, spiegava in italiano: “È l’invito rivolto alla chiesa, chiamata Gerusalemme: Chiesa di Dio, chiesa di Dio, convertiti al Signore tuo Dio!”.

Pubblicato su: Vita Pastorale