La scorsa settimana abbiamo messo in scena due giovani fratelli, i cui diritti di primogenitura sono stati invertiti dal nonno, il patriarca Giacobbe (Genesi 48). Chissà se lui, compiendo quel gesto, risaliva alla sua gioventù, quando aveva ingannato il padre vecchio e cieco, Isacco, soffiando la primogenitura al fratello maggiore, Esaù.
Giacobbe era il gemello minore rispetto a Esaù/Edom. Infatti, in caso di parto gemellare, la primogenitura andava a chi usciva per primo dal grembo della madre. Così, da Rebecca, moglie di Isacco, «uscì per primo un neonato rossiccio e tutto coperto di un manto di peli e fu chiamato Esaù/Edom [che significa “rosso”]. Subito dopo uscì il fratello che teneva in mano il calcagno di Esaù» (Genesi 25,25-26). Il nome Ja‘aqob allude appunto al calcagno (in ebraico ‘aqeb), ma anche alla successiva prevaricazione nei confronti del fratello da lui “soppiantato” (Genesi 27,36).
Alla fine, però, attraverso un inganno – da leggere nel capitolo 27 della Genesi – egli riceverà dal padre Isacco la benedizione e, quindi, l’eredità del primogenito. Per l’autore biblico, che non si pronuncia sull’immoralità dell’atto, il risultato è chiaro: colui che, secondo il diritto umano, era l’ultimo e lo scartato, secondo il diritto divino diventa primo nella linea della storia della salvezza. Ormai è il giovane Giacobbe a essere il destinatario della promessa divina, anche se peccatore.
Sarà una scena immersa nelle tenebre e nel mistero a porre il definitivo sigillo su questo giovane – esule e pellegrino come i suoi discendenti – rendendolo l’eroe eponimo per eccellenza, cioè colui che imporrà il nome a Israele. Il testo, per molti versi emozionante, è nel capitolo 32 della Genesi (vv. 25-33). Lungo le rive di un affluente del Giordano, il fiume Iabbok, Giacobbe si scontra con un essere misterioso che la tradizione ha raffigurato come angelo ma che è segno di Dio. È una lotta che ha affascinato la storia dell’arte e della letteratura, una sorta di “agonia”, cioè un combattimento estremo: «Un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore… Giacobbe gli disse: Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!… Riprese: Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!».
Quando sorge il sole, Giacobbe s’avanza zoppicante, segnato nel corpo ma soprattutto colpito nella persona e nella sua stessa identità. Cambiare il nome significa mutare il proprio essere e destino. Il patriarca aveva il nome tribale di Giacobbe. Ora riceve il nuovo nome di “Israele” che designerà anche il popolo che discenderà da lui. Secondo la spiegazione simbolica della Bibbia, in quel nuovo nome si condensa il mistero di quella notte: «Ti chiamerai Israele perché hai combattuto con Dio». Una storia giovanile cominciata in maniera piuttosto discutibile si conclude ora con un’investitura solenne che va ben oltre l’eredità tribale che quel giovane aveva cercato di strappare a suo fratello.
E quel suo fratello, Edom, diverrà il capostipite delle tribù arabe e gli Edomiti o Idumei saranno un popolo ostile agli Israeliti, per cui nella Bibbia, che ignora il giudizio sul sotterfugio usato da Giacobbe, il nome di Edom/Esaù avrà su di sé un sigillo negativo. Il profeta Malachia, infatti, non esiterà a mettere in bocca a Dio queste parole: «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù… e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto» (1,2-3).
Fonte: Famiglia Cristiana