Un poco noto scrittore parigino, Henri Duvernois (1875-1937), era convinto che «è necessario nella vita avere una gioventù, poco importa l’età nella quale si decide di essere giovani». E aveva ragione: ci sono giovani già invecchiati nel bene e nel male e anziani ancora fervidi nell’agire correttamente o malamente. Tuttavia nelle antiche civiltà (ma non solo) rilevante era anche la dimensione cronologica, soprattutto per la questione ereditaria. Diventava, così, capitale la primogenitura. Ne sapeva qualcosa il patriarca biblico Giacobbe, che con uno stratagemma aveva soffiato il diritto di primogenitura al fratello Esaù (Genesi 27).
Qualcosa del genere egli sta di nuovo compiendo ora, mentre è vecchio, nei confronti di due suoi giovani nipoti. Giuseppe, il figlio di Giacobbe venduto dai suoi fratelli in Egitto e là divenuto vizir del faraone, aveva avuto dalla moglie Asenat, una principessa egiziana di Eliopoli, un figlio e l’aveva chiamato Manasse, nome che la Bibbia interpreta come “colui che fa dimenticare” dolori e preoccupazioni (Genesi 41,50-51). Poi era venuto al mondo Efraim, il cui nome è collegato al verbo ebraico frh (prh), “rendere fecondo, portar frutto”, in ricordo del benessere ottenuto dal padre in Egitto (41,52).
Manasse, quindi, è il primogenito e dovrebbe ottenere tutti gli onori e i diritti patrimoniali connessi al suo stato. Ma ecco la svolta sorprendente. Giuseppe vuole che sia suo padre, il patriarca Giacobbe-Israele, a sancire ufficialmente la successione. Giacobbe, vecchio e malato, riceve al suo capezzale i due nipoti, il maggiore Manasse alla sua destra, cioè nella posizione d’onore, l’altro alla sua sinistra. A questo punto basterebbe che egli imponga le mani sui due pronunziando le rispettive benedizioni.
Ma – come narra il capitolo 48 della Genesi – Giacobbe incrocia le braccia e pone la destra su Efraim, il minore, ribaltando così la successione. Giuseppe s’accorge di questa stranezza e tenta di riportare le mani del padre alla normalità: la destra su Manasse, la sinistra su Efraim. Ma il vecchio Giacobbe si rifiuta ed esclama: «Lo so, figlio mio, lo so: anche Manasse diventerà un popolo, anch’egli sarà grande, ma suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni» (48,19).
Certo, alla base del racconto c’è il desiderio di giustificare l’importanza della tribù di Efraim che sarà, a partire dal X sec. a.C., a capo di un regno scissionista rispetto a quello di Giuda e Gerusalemme, il cosiddetto regno di Israele o di Samaria. Tuttavia ritroviamo in questo atto di Giacobbe una scelta quasi costante di Dio che privilegia il “secondo” o l’ultimo, cioè chi non ha diritti. La lista dei personaggi, spesso giovani – destinati a confermare questa estrosa logica divina che opta per ciò che è stolto, debole, ignobile, un nulla per confondere sapienti, forti e potenti (vedi 1Corinzi 1,27-28) – è lunga, a partire proprio dallo stesso Giacobbe, il minore e per di più personaggio non ineccepibile.
Potremmo, poi, passare a Mosè scelto da Dio rispetto ad Aronne, al ragazzo Davide, all’inesperto giovane Geremia; alle varie donne considerate “minorate” nella cultura orientale come Debora, Rut, Ester, Giuditta, decisive nella storia biblica. All’apice di questa traiettoria potremmo mettere Gesù, il Messia povero e umiliato che ha scelto come compagni di viaggio gli ultimi e i dimenticati della terra. Ecco la conclusione: «Ascoltate, fratelli miei carissimi, Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno promesso a quanti lo amano?» (Giacomo 2,5).
A cura del Card. Gianfranco Ravasi per Famiglia Cristiana