Lectio Divina di domenica 26 febbraio 2017, Settima Domenica del Tempo Ordinario A, a cura della Comunità monastica di Pulsano.
Domenica “del Padre provvido”
VIII del Tempo per l’Anno A
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La divisione, è uno dei nomi del peccato. E’ uno dei volti della menzogna.
Là dove l’uomo pensa di poter e dovere porre dei limiti, dei confini, dei campi cintati per Dio, al di fuori dei quali si sente investito del compito di difendere e costruire autonomamente la propria vita: là l’uomo si recinge da solo di una terra di schiavitù, di paura. L’alternativa della fede investe radicalmente l’esistenza: non lascia spazi di indifferenza o tantomeno di autonomia.
Dice l’uomo: fin qui, da onest’uomo, credo in Dio e faccio le mie devozioni; per il resto, sospirando, ma mi devo assicurare a qualsiasi prezzo la sussistenza. Così è giusto: pago le decime, contribuisco alle necessità della chiesa secondo le leggi e le usanze; do del mio a enti che fanno la carità: ma poi, devo pensare a me stesso.
È impossibile ragionare così con il Dio vivo. È impossibile che Dio sia Dio a ore: egli è un Dio a tempo pieno. Dio non vuole qualcosa di tuo: vuole che tu viva, e viva in pienezza, della vita stessa di Dio. Vuole che tu sia libero in verità, davanti all’oggi e davanti al futuro, davanti a te e davanti a tuo fratello, e davanti a lui.
La scelta della fede non può non porci in ogni situazione di fronte all’interrogativo: compio un servizio per Dio (cf. seconda lettura) – per tutto ciò che ho conosciuto come riflesso del suo volto: la verità, la tenera compassione, la gioia libera sul volto delle creature -, oppure sono schiavo dell’idolo dell’autonomia, del successo, della potenza?
Ma, anche e proprio accettando la completa invadenza di Dio nella esistenza umana, può nascere il turbamento per la vita, per il Regno che non si vede:
Proprio allorché l’uomo si preoccupa delle cose del regno del Padre, sembra che più pressanti si facciano per lui gli affanni, più insolubili le contraddizioni, più scuro il futuro. Più grave, la tentazione dell’incredulità.
Non è possibile che la fede si esprima umanamente – non sarebbe vera – senza dire tutte le parole dell’incertezza, senza mettere davanti alla luce tutte le contraddizioni, le bruciature della propria carne, prima di appropriarsi delle parole di Dio: esse possono diventare parole umane, e di fatto lo sono diventate, solo nell’Uomo Dio crocifisso e risorto. Non è possibile camminare verso la fede se non prendendo continuamente coscienza della propria incredulità e difficoltà di credere: «…io credo, vieni in aiuto della mia incredulità» (Mc 9, 24).
Antifona d’Ingresso Sal 17,19-20
Questo Salmo della regalità, solenne e drammatico, è il canto della continua cura provvidente per il Re amato, posto come salvezza per il suo popolo. Il salmista narra le vicende incerte e poi felici del Re messianico sostenuto dal suo Signore, e si apre con una sequela innica di titoli divini:
Io amo Te, Signore, Forza mia,
Signore, Rupe mia, Fortezza mia, Liberatore mio,
Dio mio, Rocca mia, in cui mi rifugio,
Scudo mio, Corno di salvezza mia, Asilo mio,
e degno di lode io proclamo il Signore,
e dai nemici miei sono salvato (vv 2-4).
L’Orante prosegue nel riconoscere che unico Protettore per lui fu il suo Signore (v. 19b); Egli lo trasse al largo dal pericolo (v. 37; 4,2; 30,9; 117,5; Pr 4,12; Giob 3 6,15-16), lo portò alla salvezza, poiché il suo Signore ebbe amore per lui (v. 20). Eccoci preparati ad ascoltare la proclamazione dell’Evangelo, la Parola di Dio.
Canto all’Evangelo Eb 4,12
Alleluia, alleluia.
La parola di Dio è viva ed efficace,
discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Alleluia.
Il testo del canto all’evangelo contiene una delle più immediate definizioni della Parola divina: essa è Vivente e personale (Sap 18,15-16; Ger 23,29; 1 Tess 2,13). È onnipotente ed efficace. E nella sua irresistibilità è Sapienza infinita, che giunge nel più intimo dell’uomo, nei suoi pensieri riposti e spesso tenebrosi (1 Cor 14,24-25), nella sua volontà così spesso incerta e vacillante.
La pericope di oggi è Mt 6,24-34, nel contesto del «discorso della montagna» (Mt 5,1 – 7,29). Il «discorso della montagna» è il primo di 5 discorsi. E sempre bene tenere presente che seguono gli altri 4: quelli chiamati «di missione» (Mt 9,35-11,1), «delle parabole» (Mt 13,1-53), «ecclesiastico» (Mt 18,1-35), “escatologico” (Mt 24,1-25-46). Esplorando bene, sia dai Sinottici e sia da Giovanni sappiamo che esistono i discorsi durante la Cena, parte esposti nel cenacolo, parte nell’Orto degli Olivi. Questi discorsi sono l’esposizione dei Tesori del Regno, le Realtà verso cui il Signore nello Spirito Santo battesimale avvia ogni suo discepolo fedele. Quello «della montagna» è come l’apertura della sala dei Tesori.
L’Evangelo della Domenica VII faceva proclamare Mt 5,38-48. Quindi per questa Domenica VIII si ha l’omissione di Mt 6,1-23. Integriamo la lettura liturgica con quanto manca del cap. 6 di Matteo; i vv. 1-34, sono infatti una grande catechesi che si divide agevolmente in 4 sezioni:
- 6,1-4: sull’elemosina;
- 6,5-15: sulla preghiera al Padre, con al centro, vv. 9-13, il «Padre nostro»;
- 6,16-18: sul digiuno;
- 6,19-34, sull’uso dei beni creati, che i discepoli faranno sotto gli occhi del Padre.
A sua volta, la pericope dei vv. 24-34 si divide tra questi argomenti:
- v. 24: i «due signori», ossia servire Dio, o essere schiavi del mamônas (dall’aramaico mamônâ’, “lucro”, guadagno accanito, la nuova traduzione della CEI porta ricchezza);
- vv. 25-32: le preoccupazioni affannose per la sopravvivenza, e Dio che provvede ai suoi figli;
- vv. 33-34: cercare anzitutto il Regno e la sua giustizia.
Diciamo subito che anche il contenuto della pericope di oggi è uno dei più ostici alla natura umana. E che perfino tanti buoni cristiani, anzi la quasi totalità, anche se non l’impugna, tuttavia proprio l’ignora e si comporta al contrario della proposizione del Signore.
Quando abbiamo iniziato la lettura del Discorso delle beatitudini di Matteo abbiamo detto che l’introduzione (5,1-20) e le due prime parti principali (5,21-48 e 6,1-18) mostrano strutture chiaramente riconoscibili: nove beatitudini, sei antitesi e tre atti di pietà. La terza delle parti principali (6,19-7,12) non ha nessuna struttura evidente, ma è piuttosto impostata come un libro sapienziale (vedi Proverbi, Siracide, Qoelet) in cui brevi detti sono collocati l’uno accanto all’altro o per la somiglianza del contenuto o per fattori esterni (parole chiave, ecc.). Contiene comandi, illustrazioni, riflessioni, e una conclusione riassuntiva (7,12). Le fonti anticotestamentarie e i paralleli rabbinici sono già stati accennati nelle note di commento. A questo punto dell’interpretazione dobbiamo cercare di spiegare come questi detti siano stati messi assieme in modo da formare un insieme letterario. Particolare attenzione deve essere rivolta al detto conclusivo (7,12) e specialmente ai suoi precedenti e al ruolo che svolge nel discorso.
La parte riguardante i tesori (6,19-21) prima mette a confronto i tesori terreni (perituri) con quelli celesti (imperituri) (6,19-20), e poi aggiunge una riflessione sul rapporto tra il tesoro di una persona e il suo cuore (6,21). Sembra che i detti siano già stati messi insieme nella fonte Q (vedi Lc 12,33-34), probabilmente sulla base della parola «tesoro».
I detti riguardo all’occhio (6,22-23; vedi Lc 11,34-36) prendono come punto di partenza le idee del tempo riguardo all’occhio considerato la «lampada» del corpo per poi spostarsi sul piano «morale»: per stabilire il contrasto tra persone generose o avare, o tra persone buone o cattive. Questi sono stati messi di seguito a 6,21 per il tema delle intenzioni che determinano l’intero corso della vita di un uomo.
II detto circa l’impossibilità di servire due padroni (6,24; vedi Lc 16,13) porta avanti il tema dell’impegno totale immaginando un tentativo di tenere il piede in due staffe e giudicandolo impossibile.
La riflessione sulla fiducia nella potenza e bontà di Dio (6,25-34; vedi Lc 12,22-32) afferma il principio fondamentale (6,25), offre due illustrazioni che riguardano il cibo (6,26-27) e il vestiario (6,28-30), ribadisce il principio (6,31-32), trae una conclusione (6,33) ed aggiunge una considerazione conclusiva (6,34). Questa parte è vagamente legata alla precedente dal tema del servizio di Dio a tutto campo. Alla versione Q Matteo ha aggiunto il suo interesse caratteristico riguardo alla giustizia di Dio (6,33) e una battuta che ha l’aria di essere un aforisma popolare (6,34).
L’analisi dei detti di Mt 6,19-7,11 evidenzia diversi elementi: i detti sono vagamente legati tra loro secondo criteri di forma e di contenuto; sono tradizionali (principalmente dalla fonte Q); sono radicati nella tradizione ebraica, particolarmente quella rappresentata dalla letteratura sapienziale; e sono difficili da collocare in concreto nel conflitto intergiudaico tra la comunità di Matteo ed altri Giudei (anche se in alcuni punti se ne può immaginare la presenza).
La terza parte termina con la cosiddetta Regola Aurea: «Tutto quanto volete che gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (7,12). Ciò che spesso viene presentato come un detto esclusivo di Gesù in realtà è radicato nelle Scritture ebraiche ed ha molti paralleli negli scritti ebraici dei tempi di Gesù. La radice teologica della Regola Aurea si trova in Lv 19,18: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La forma negativa della Regola Aurea si trova nel libro di Tobia 4,15: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te».
Il parallelo maggiormente istruttivo vede interessati due maestri grossomodo contemporanei di Gesù: «Un certo pagano si presentò a Shammai e gli disse: “Diventerò un proselito a condizione che tu mi insegni tutta la Torah mentre sto ritto su una sola gamba”. Al che Shammai lo scacciò via da sé con un righello da muratore che teneva a portata di mano. Quando il pagano si presentò a Hillel, questi gli disse: “Ciò che è odioso per te non farlo al tuo prossimo; questa è tutta la Torah, mentre il resto è un commentario ad essa; va’ e imparalo”» (b. Šabb. 31a). Questo parallelo è importante perché Hillel vede nella Regola Aurea la sintesi di tutta la Torah, esattamente come fa Gesù secondo Mt 7,12. La forma negativa nella quale Hillel formula la regola non ha molta importanza perché facevano lo stesso i primi cristiani che volevano ripetere l’insegnamento di Gesù (vedi Didaché 1,2; e i manoscritti occidentali di At 15,29).
La Regola Aurea fa parte della fonte Q (vedi Lc 6,31). Alla formulazione che ha in Q Matteo ha premesso la parola «dunque» (non resa nella versione italiana) dando così alla Regola Aurea l’aspetto di una conclusione, e ha aggiunto il commento: «Questa infatti è la Legge e i Profeti», facendone in tal modo una sintesi della Legge e dei Profeti (vedi anche Mt 22,40, dove la Legge e i Profeti «dipendono» dai due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo). Con le sue aggiunte Matteo ha dato una certa coerenza e significato ai vari insegnamenti sapienziali contenuti in Mt 6,19-7,11.
Riassumendo dunque il testo liturgico propone un’antologia di detti sapienziali che esprimono il modo di vedere la vita da parte di Gesù stesso. Anzitutto è proposto un lóghion fondamentale che mette in contrapposizione Dio e la ricchezza (v. 24): da tale principio deriva l’esortazione «Non preoccupatevi», ripetuta tre volte (vv. 25.31.34), che serve da filo conduttore e indica pure la struttura. Infatti i problemi elencati, sebbene siano quelli di tutti i giorni e forse banali, sono tuttavia capaci di riempire e ossessionare l’intera esistenza: il cibo, il vestito, il domani. In base a questi temi si può indicare una semplice strutturazione:
- Prima preoccupazione: il cibo (vv. 25-27).
- Seconda preoccupazione: il vestito (vv. 28-32).
- Terza preoccupazione: il domani (vv. 33-34).
La conclusione sapienziale ed esortativa si trova al v. 33 in cui Gesù parla del Regno di Dio e della sua giustizia, indicandola ai discepoli come l’oggetto primario di ogni ricerca: il resto viene di conseguenza!
I lettura: Is 49,14-15
Il misterioso Profeta con la sua scuola, che i critici credono di individuare come il «Secondo Isaia» (Is 40-55), scrive durante l’esilio, qualche decennio prima della fine della prigionia, per rincuorare gli esiliati e disporli al grande evento del «secondo esodo», il ritorno in patria. La pericope di Is 49,7-26 trattano questo tema fondamentale per la vita dell’Israele che deve essere rigenerato, ma che adesso è ancora molto spento e demoralizzato nella prigionia forzata di Babilonia.
È posta una “lamentazione” sulla bocca di Sion, la Sposa del Signore. Essa parla del suo Signore e Sposo divino, piangendo di dolore e di rimorso, e credendo di essere stata abbandonata (anche 40,27; 54,6; 62,4) e addirittura dimenticata da Lui (v, 14). Sono pensieri solo umani, apparentemente giustificati dalla condizione di estremo degrado in cui la Sposa versa adesso lontano dalla patria amata.
Invece il Signore veglia sulla sua Sposa, e non ha mai cessato di farlo. Di certo permise che i suoi nemici provocassero la sua catastrofe nazionale e l’esilio, tuttavia secondo una sapiente pedagogia, a scopo medicinale e quindi temporaneo. Egli risponde in modo immediato per la bocca del Profeta, e con linguaggio di parabola: mai una donna può dimenticare il bambino che allatta con il suo seno prosperoso (43,1; Sal 26,10; Sir 4,11), mai può cessare di amare con tutta l’intensità del suo cuore materno la carne concepita nel suo grembo, sentita come sua. Anche se per assurdo, ma non concesso, una madre agisse così, ebbene, il Signore non usa comportarsi così. Una prostituta, tuttavia madre, una volta preferì cedere il proprio bambino a un’altra prostituta, anziché vederlo squartato dalla spada di Salomone (1 Re 3,26). Il Signore, molto di più. Egli non si dimentica, e si sa che «non dimenticare» è fare memoriale, e questo significa accettare l’oggetto memorato, conferendogli esistenza e favore (Ger 31,20). Per questo la Sposa sarà redenta, santificata, riassunta nella sua dignità di diletta dallo Sposo che si cura di lei anche da lontano, anche nelle apparenti condizioni negative (v. 15). Nei versetti che seguono, questo significa che la Sposa sarà di nuovo Madre feconda di figli.
Il Salmo responsoriale: 61,2-3.6-7.8-9ab, SFI
Il Versetto responsorio: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (v. 2a) fa cantare e ripetere come una cadenza gioiosa, che i fedeli ripongono nel Signore ogni loro fiducia, ed Egli dona a essi il suo mirabile riposo presso di sé.
La fiducia totale dell’Orante è espressa fin dall’inizio, con una dichiarazione che suona come polemica per quanti non intendono vivere così: solo dal Signore, presso Lui, nel suo santuario, alla sua Presenza trasformante, il Salmista trova benefico riposo, l’appagamento di ogni suo desiderio dell’esistenza, tutta la sua salvezza a cui tendeva da sempre (v. 2). Con immagine figurata, egli concepisce l’opera del Signore per lui come offrirsi quale Rupe invincibile, dove si trova la salvezza da ogni nemico, la Fortezza potente, dove non si prova più terrore né scuotimento (v. 3; 10,27).
L’Orante quindi può esortare la sua anima, tutto se stesso, ad affidarsi alla quiete che solo il Signore sa donare. Solo in Lui egli trova finalmente la forza della sopportazione, della pazienza, della costanza che vince ogni avversità (v. 6; e v. 2). Si tratta di un ritornello ricorrente, costituito dai vv. 2-3 e 6-7, che ripetono i medesimi temi (e da questo punto di vista, la scelta dei versetti non pare troppo felice).
Altre espressioni descrivono la condizione di fiducia a cui l’Orante si abbandona, con diverse ripetizioni, il Signore per lui è la Salvezza, ed è anche l’unica gloria (3,9), la Fortezza e il Rifugio sicuro (v. 8). Perciò adesso si rivolge a «tutta l’assemblea del popolo» esortandolo ad avere fiducia solo in Dio, alla cui Presenza si deve riversare la piena grata e gioiosa e laudante del cuore fedele (v. 9; Sal 41,5; Lam 2,19). Nel Signore, che concentra in sé l’intera e fausta speranza dei fedeli, si trova anche la somma dei beni, che come provvido Donante Egli sa distribuire ai suoi figli.
Mt 6, 24-34
v. 24. «odierà… amerà»: la prima affermazione del Signore è durissima e radicale. È una delle principali leggi dell’esegesi biblica, che quando un detto del Signore è difficile, anche oscuro, e versa nel paradosso e nell’assurdo, è autentico, risale al Signore stesso. Così l’affermazione d’esordio si serve di due termini molto crudi, che richiamano la non libertà dell’uomo: I netti contrasti rispecchiano il linguaggio di Dt 21,15-17. Alcuni casi negli scritti rabbinici presuppongono situazioni in cui uno schiavo poteva appartenere a diversi padroni.
«servire»: douléuô, essere doúloi, ossia schiavi; notare che in latino servire, servus significa «stare in schiavitù» e “schiavo”, mentre il nostro “servire” si dice ministrare, da cui minister.
È molto importante ricordare come nella tradizione biblica il verbo «servire» sia carico di connotazioni religiose e diventi sinonimo di culto. In ebraico infatti il termine ‘abodah (letteralmente “servizio”) indica piuttosto la «liturgia», cioè l’azione di culto resa a Dio, riconosciuto come Signore. Un riferimento biblico decisivo si può indicare in Dt 6,4-12 in cui l’idea del servizio verso Dio come «unico Signore» implica l’adesione incondizionata della persona di Yhwh e il rifiuto di ogni forma di idolatria. Su questo sfondo religioso Gesù costruisce una contrapposizione affettiva (odiare/amare): perciò «mamónà» diviene il simbolo idolatrico di ciò che si contrappone a Dio stesso.
Di conseguenza non è possibile essere in autentica relazione di affetto e legame con queste due realtà contrapposte. Si impone pertanto una scelta, come viene descritto in seguito nella scena del giovane ricco (Mt 19,16-30). Secondo lo schema tipico dei sapienti, Gesù pone l’alternativa e invita con tutte le forze a scegliere quella positiva e buona, cioè Dio.
«due padroni»: due kýrioi, “signori” o padroni, da cui il verbo kyriéuô, tiranneggiare, spadroneggiare; precisamente, il latino dominus significa “padrone” nel senso di “tiranno”, e dominari (deponente) significa tiranneggiare. Si comprende come l’immenso Giulio Cesare, nel pieno del suo potere, avesse rifiutato dalla folla plaudente il titolo di dominus, per il suo senso sinistro.
«la ricchezza» [Mammona]: Mammona è il termine usato in alcuni testi ebraici ed aramaici col significato di «ricchezza, denaro, proprietà». Si pensa che derivi dalla radice ‘mn («credere, aver fiducia») ed è preso nel senso di «ciò in cui qualcuno ripone la propria fiducia». Altri lo fanno derivare da mwn («provvedere il nutrimento»). Il termine assume una connotazione negativa solo in determinati contesti (come qui) o in combinazione con altri termini (vedi Lc 16,9: «mammona di iniquità»).
In sostanza, Gesù qui afferma che occorre lasciarsi “dominare” dalle esigenze severe di Dio, che è il Signore buono e amabile, nella libertà dei suoi figli amati. Se ci si fa “dominare” da “mammona”, si cade in una vera schiavitù: questa in realtà assoggetta anzitutto l’anima, ma anche il corpo, e corrompe radicalmente la prima e apre alla corruzione del secondo. In realtà, il diavolo, tra i tanti mezzi insidiosi, si serve del mammona per perdere le anime: Salomone, Giuda, Anania e Saffira, nel grande e nel piccolo, sono anime perdute (non si vuole dire qui in senso “escatologico”, ma solo tipologico). Ora, Gesù avverte una volta per sempre, che davanti a Dio, che chiede anzitutto la carità verso i fratelli, gli inseguitori perduti del guadagno, nel piccolo non meno che nel grande, amano il medesimo guadagno a tutti i costi, e non solo non «servono Dio» nei fratelli, ma Lo odiano. Essi “sostengono” (antéchô) mammona, e disprezzano (kataphronéô) Dio.
Ma al contrario, chi serve Dio, deve amarlo, e sostenere solo Lui e la sua causa in favore degli uomini. Il contrasto è incomponibile e la scelta è drammatica.
Già nell’A. T. Mosè aveva posto Israele, salvato in modo divino e prodigioso dall’Egitto “tiranno”, di fronte alla scelta escludente:
Ecco, io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male!
Se io oggi ti prescrivo di amare il Signore Dio tuo,
di procedere nelle sue Vie,
di osservare i suoi statuti, le sue leggi, i suoi precetti,
allora [solo] tu vivrai…
e il Signore Dio tuo ti benedirà (Dt 30,15-16ab).
Gesù nel medesimo contesto e poco prima aveva prescritto ai suoi discepoli di chiedere al Padre Buono «il pane sovrasostanziale», quello che giorno per giorno, sotto la triplice forma di pane del corpo e di pane dell’anima come Pane della Parola e di Pane eucaristico (così già i Padri), porta al Regno (Mt 6,11).
Riprendendo il termine «mamónà» ricordiamo che è un’espressione tecnica aramaica che l’evangelista non ha voluto tradurre in greco e che anche la versione latina conservava, così come la precedente traduzione italiana (CEI 1971). L’attuale versione liturgica (CEI 2008) invece ha scelto di rendere questo vocabolo con «ricchezza»: da una parte rende immediatamente più chiaro il concetto, ma d’altra parte fa perdere il riferimento ad un termine strano e provocatorio, portatore di un ricco significato etimologico. Matteo non l’ha tradotto perché ha compreso che si tratta di un termine intraducibile correttamente: deriva dalla stessa radice verbale di ‘amen ed indica la solidità, la consistenza, la sostanza. La formula liturgica ben nota è stata ugualmente conservata nell’originale semitico perché ricca di significato e non facilmente trasponibile in un altro idioma: essa costituisce l’approvazione di fede e il riconoscimento di una stabile garanzia. Dire Amen significa ritenere che qualcuno e qualcosa sia sicuro e stabile, credibile e affidabile, per cui si accetta e si aderisce con atto di fiducia.
Analogamente «mamónà» rimanda a ciò che è stabile e sicuro: dunque significa ciò che conta nella vita, ciò di cui ci si può fidare, il fondamento sicuro su cui basarsi per costruire il proprio domani, ovvero le proprie «sostanze». Insensibilmente il termine è venuto a coincidere con il concetto di «patrimonio economico», perché è comunemente considerato la fondamentale garanzia di sicurezza; ma propriamente «mamónà» non significa denaro né ricchezza, ma ogni cosa che dà fiducia.
Pertanto la contrapposizione non è fra Dio e la ricchezza, bensì fra Dio e ciò che non è Dio. In questa formula sapienziale le alternative proposte sono due: o Dio o qualcos’altro. Di chi si fida un uomo? Su chi o che cosa decide di costruire la propria esistenza? Qual è la sua opzione fondamentale, come direbbero i moralisti? Concretamente dunque il «mamónà», inteso come ricchezza o capitale, diventa la più comune alternativa a Dio.
v. 25 « Perciò »: Formulato il principio, Gesù ne tira le conseguenze e inizia il seguito (con un eloquente «perciò» (dia tùto). Se Dio è riconosciuto come unico Signore e i discepoli di Gesù lo riconoscono anche Padre amorevole e provvidente, di conseguenza essi possono comprendere le priorità che dovranno caratterizzare la loro vita di credenti secondo la logica del Regno e della sua giustizia. L’introduzione al passo di Mt 6,25-34 ha l’effetto di legare questo passo al precedente detto circa l’incondizionata dedizione al servizio di Dio (6,24), e così crea un contesto teologico di fiducia in Dio (anziché di pigrizia o di scoraggiamento) per il comando «non preoccupatevi».
La clausola introduttoria è solenne: «Per questo, Io parlo a voi» (Mt 6,25), ponendosi così come il Verbo del Padre. La parola che pronuncia è di sicurezza e fiducia, e anche di conforto nelle avversità inevitabili.
«non preoccupatevi»: imperativo presente negativo. Quasi come un ritornello il verbo merimnàó (= “preoccuparsi, darsi cura, affannarsi”) segna tutta la pericope: ricorre infatti sei volte nel corso del testo (vv. 25.27.28.31.34a.b) e richiama l’agitazione e l’ansia che ostacola la ricerca di Dio e dubita della sua bontà gratuita. Per l’anima e per il corpo: non preoccuparsi, con il verbo merimnáô, che indica ansia (quotidiana) verso l’ignoto e l’avverso, fino ad una certa angoscia, del mangiare e del vestire. Certo, qui sia una buona madre di famiglia con numerosi figli, sia il grande economista, rifiutano questo argomento con motivazioni pesanti, quella tutta “preoccupata” del presente e del futuro della sua prole, del regolato andamento della casa, del decoro esterno, questo con le teorie di investimento, di produzione e di mercato assurte a ultimo dogma, ossia ad ultima misura dell’uomo, che dunque ne sarà schiavo e soggetto.
L’invito a deporre ogni mondana preoccupazione la ritroviamo nella liturgia bizantina che durante il grande ingresso, la processione in cui si portano all’altare i preziosi doni per la consacrazione, fa cantare al coro il dolce e struggente inno dei Cherubini:
Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini,
e alla Trinità vivificante cantiamo l’inno trisagio,
deponiamo ogni mondana preoccupazione
per accogliere il Re di tutte le cose,
invisibilmente scortato dagli ordini angelici.
Alleluia.
(Οι τα Χερουβίμ μυστικώς εικονίζοντες
και τη ζωοποιώ Τριάδι
τον τρισάγιον ύμνον προσάδοντες
πάσαν την βιοτικήν αποθώμεθα μέριμναν
ως τον βασιλέα των όλων υποδεξόμενοι,
ταις αγγελικαίς αοράτως δορυφορούμενον τάξεσιν.
Αλληλούια)
«per la vostra vita»: Il termine greco psyche può essere tradotto anche con «anima». Ma sarebbe un fraintendere l’antropologia semitica se per «anima» si intendesse la parte spirituale della persona in contrapposto alla parte materiale («corpo»). Il nepeš («esofago, stomaco») ha bisogno di cibo e di bevanda perché il corpo possa essere sano. Il ragionamento passa dal «minore» (cibo e vestiario) al «maggiore» (vita e corpo).
v. 26 «gli uccelli del cielo»: Luca 12,23 ha «i corvi». Matteo potrebbe aver sostituito il termine perché i «corvi» erano considerati animali immondi (vedi Lv 11,15; Dt 14,14). L’espressione più generica consente anche di includervi una cerchia più vasta del regno animale. Il Signore avverte (Mt 6,26) che gli uomini sono il secondo valore dopo Dio, Dio e l’uomo sono gli unici due valori. Tutto il resto dell’esistente creato è finalizzato agli uomini, le creature dilette. Il corpo e l’anima degli uomini, ossia gli uomini viventi, valgono più del cibo e del vestito. Il valore degli uomini di fatto è incomparabile con ogni altro aspetto della creazione.
v. 27 «allungare anche di poco»: [trad. lett. di una misura] La misura pechis originariamente era un avambraccio (cubito), ossia dal gomito alla punta delle dita (circa 45 cm). Il termine al quale si riferisce (helikia) può essere tanto la durata della vita (età) quanto la statura corporea (altezza). Perciò il detto può riferirsi sia all’età che alla statura.
v. 28 « gigli del campo»: che in realtà in Palestina sono i fiordalisi, in primavera fioriti a tappeto a perdita d’occhio. Essi sono fiori selvatici e umili, ma più splendidi del fastoso Salomone, perché così Dio li ha creati. Il termine può essere altrettanto generico quanto «gli uccelli» di 6,26, inteso ad includere una varietà di fiori e di piante.
Alcuni pensano perfino che «bestie» (theria) in questo contesto sarebbe più appropriato. Il primo verbo che descrive la loro (in)attività in termini di «fatica» (kopiósin) è strano e perciò è stato oggetto di diverse modifiche, come ad es.: kopanizousin («battere» il lino).
v. 29 «Salomone»: Per le descrizioni anticotestamentarie delle ricchezze di Salomone si veda 1 Re 10,4-5; 2 Cr 9,13-22, sebbene in questi passi non vi sia alcun accenno allo splendore del suo abbigliamento.
v. 30 «l’erba del campo»: E perfino l’erba selvatica dei campi, la sterpaglia destinata al forno, è bella nel suo fiorire per divina disposizione Per la transitorietà dei fiori e dell’erba (a confronto della parola di Dio) vedi Is 40,6-8: «Secca l’erba, il fiore appassisce».
gente di poca fede: In Mt 8,26; 14,31; 16,8 il termine oligópistos è riferito al circolo più ristretto dei discepoli di Gesù. In quel contesto il termine non ha una connotazione positiva, ma almeno serve ad attenuare il ritratto negativo che Marco fà dei discepoli di Gesù. Qui è inserito in un contesto più ampio e a quanto pare è stato riportato qui dalla fonte Q (come indica Lc 12,28).
Di fronte a tale splendido annuncio il pericolo è costituito dalla scarsa fede: infatti i discepoli vengono richiamati come «oligópistoi» (= «gente di poca fede»). Questo aggettivo è tipico di Matteo, che lo usa anche altre volte (cfr. 8,26; 14,31; 16,8), sempre in bocca a Gesù con il tono di delicato rimprovero verso i discepoli, nell’intento esortativo di portarli ad una fede matura e grande. Avere fede significa dunque dare priorità al rapporto con Dio e accogliere la grazia del suo Regno: se i discepoli accolgono in pienezza il loro status di figli, assumono un atteggiamento di libertà nei confronti delle necessità che si sperimentano all’interno delle comuni situazioni della vita, perché non si fidano del «mamonà», ma di Dio loro Padre.
v. 32 «i pagani»:[Gentili]: Il termine ethne («nazioni») si riferisce a tutti quelli che sono al di fuori di Israele. È usato anche in Lc 12,30 e perciò deve essere stato preso dalla fonte Q. Nel suo presente contesto matteano il termine fa supporre che il pubblico per il Discorso sul Monte sia Israele radunatosi per ascoltare l’insegnamento di Gesù.
v. 33 «la sua giustizia»: Questo termine tanto importante per Matteo non si trova in Lc 12,31, ma può essere stato suggerito da Lc 12,32 («al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno»). Ma l’enfasi di Matteo è su una ricerca attiva anziché su un ricevere passivo. La giustizia di Dio è rivelata nell’insegnamento di Gesù (vedi Mt 5,6.10.20).
v. 34 «del domani»: L’aforisma aggiunto al detto Q ha qualche parallelo negli insegnamenti sapienziali: «Non ti vantare del domani, perché non sai neppure che cosa genera l’oggi» (Pro 27,1; vedi anche Qo 2,23). Il termine greco kakía tradotto con «pena» potrebbe anche essere inteso in senso morale: «male» o «malizia».
La pericope di oggi si chiude dunque con un avvertimento abbastanza oscuro e difficile; alla lettera:
Non siate ansiosi (merimnáô) per il domani,
infatti il domani sarà ansioso (merimnáô) di se stesso.
Basta al giorno la sua malvagità (Mt 6,34b).
Il testo si identifica per essere un trittico, ritmato su 3 semiversetti, per essere facilmente imparato a memoria. Si tratta di un detto autentico del Signore, che insiste sulla preoccupazione per la vita che rovina l’esistenza.
Il senso va inteso circa così. I discepoli cercano “prima” il Regno e la sua giustizia, e questo deve avvenire “oggi”, e nella fiducia avranno quanto occorre alla loro vita. Il “domani” è un altro giorno, che porterà le sue pene, e naturalmente anche la loro soluzione. Essi sono avvertiti che «il giorno», ogni giorno, rivela la sua kakía, la malvagità, le disgrazie sopravvenienti e inevitabili, con il grave malessere per gli uomini. E allora giorno per giorno occorre avere fiducia nell’immancabile aiuto divino. Qui i discepoli sono chiamati a collaborare fattivamente con questo aiuto.
Sorge un’altra difficoltà. Dal testo sembra che venga l’invito a non fare «piani di previsione» economica e finanziaria, a non organizzare il lavoro, a vivere alla giornata. Non è così! Questa è stata la grande obiezione che fu opposta durante i secoli, quando furono predicati il pauperismo, l’abbandono della creazione da cui viene la sussistenza materiale degli uomini, il disprezzo del lavoro, l’ozio, il provvidenzialismo facile.
L’A. T. e il N. T. incitano a lavorare molto. Solo per citare qualche testo, si potrebbe cominciare dalle parabole: del Seminatore (Mt 13,1-23), con il desiderio di produrre molto, il 30, il 60, il 100; degli operai dell’11a ora (Mt 20,1-16). E proseguire quasi a caso:
Va’, pigro, dalla formica,
e le vie [l’operare] di essa considera! (Pr 6,6);
Noi denunciamo a voi, fratelli,
nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo…
né mangiammo il pane gratis [accettato] da qualcuno,
ma con fatica e pena notte e giorno lavorando,
per non gravare su qualcuno di voi.
Non che non abbiamo potere [di essere mantenuti],
ma affinché dessimo noi come modello a voi da imitare.
Infatti, quando stavamo presso voi,
questo denunciavamo a voi,
che chi non vuole lavorare, neppure mangi!…
A questi tali [oziosi] denunciamo e raccomandiamo nel Signore Gesù Cristo
che, lavorando con quiete, mangino il proprio pane (2 Tess 3,6.8-10.12).
Dai testi sul lavoro visti sopra, dal Seminatore che raccoglie nei granai alla formica che fa lo stesso, si comprende come tutto questo sia doveroso.
Solo, l’appello è a non avere l’ansia del guadagno a tutti i costi, a non schiacciare i fratelli, a cercare anzitutto i diritti di Dio, che, nella gelosa tutela di tutti, sono l’esclusivo bene degli uomini.
Ancora una volta, occorre collaborare con il Signore per il bene di tutti.
Qui sta la differenza con i «pagani» (tà éthne): noi oggi diremmo «quelli che non vanno in chiesa» o «quelli che non credono in Dio». Chi non ha fede in Dio si preoccupa dei beni materiali e per questi perde anche la vita; i discepoli invece desiderano «la giustizia di Dio Padre» e, confidando in lui, ottengono per grazia, «in aggiunta», tutte le cose che servono alla vita.
L’invito di Gesù, dunque, non vuole portare ad una spensieratezza imprevidente, né intende elogiare chi prende la vita a caso, senza progetto e senza méta. Non nega che la vita quotidiana abbia i suoi problemi e le grane a cui pensare: ma tutto questo egli propone di affrontarlo senza affanno. Ciò che è negativo è la preoccupazione, perché è l’atteggiamento di chi si crede solo a provvedere a tutto e pensa di avere nelle proprie mani il potere di risolvere ogni situazione. L’uomo che si crede onnipotente vive affannato perché vuole e spesso non può; pretende e tante volte non riesce; ha progetti propri senza la capacità di realizzarli.
Tale preoccupazione dunque è una questione di poca fede. Ancora una volta il richiamo al «Padre nostro che è nei cieli» indica inevitabilmente la nostra condizione di figli. Tre volte si insiste su tale idea in contrapposizione all’affanno umano: di fronte alla cura paterna (e materna, come suggerisce Isaia) chi crede in Dio lascia a lui ogni preoccupazione per il domani ed in questo rivela la sua differenza dai «pagani».
II Colletta
Padre santo,
che vedi e provvedi a tutte le creature,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché in mezzo alle fatiche
e alle preoccupazioni di ogni giorno
non ci lasciamo dominare
dall’avidità e dall’egoismo,
ma operiamo con piena fiducia
per la libertà e la giustizia del tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
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VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
- Colore liturgico: verde
- Is 49,14-15; Sal.61; 1Cor 4,1-5; Mt 6, 24-34
Mt 6,24-34
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 26 Febbraio – 04 Marzo 2017
- Tempo Ordinario VIII, Colore verde
- Lezionario: Ciclo A | Salterio: sett. 4
Fonte: LaSacraBibbia.net
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