Giubileo dei Sacerdoti – Terza meditazione di Papa Francesco – 2 giugno 2016

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GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA

RITIRO SPIRITUALE GUIDATO DAL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEI SACERDOTI

TERZA MEDITAZIONE

Basilica di San Paolo Fuori le Mura – Giovedì, 2 giugno 2016

Esercizi per i sacerdoti 2016

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Terza meditazione: il buon odore di Cristo
e la luce della sua misericordia

Speriamo che il Signore ci conceda quello che abbiamo chiesto nella preghiera: imitare l’esempio della pazienza di Gesù e con la pazienza superare le difficoltà.

Questa terza meditazione ha come titolo: “Il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia”.

In questo terzo incontro vi propongo di meditare sulle opere di misericordia, sia prendendone qualcuna, che sentiamo più legata al nostro carisma, sia contemplandole tutte insieme, vedendole con gli occhi misericordiosi della Madonna, che ci fanno scoprire “il vino che manca” e ci incoraggiano a “fare tutto quello che Gesù ci dirà” (cfr Gv 2,1-12), affinché la sua misericordia compia i miracoli di cui il nostro popolo ha bisogno.

Le opere di misericordia sono molto legate ai “sensi spirituali”. Pregando chiediamo la grazia di “sentire e gustare” il Vangelo in modo tale che ci renda sensibili per la vita. Mossi dallo Spirito, guidati da Gesù possiamo vedere già da lontano, con occhi di misericordia, chi giace a terra al bordo della strada, possiamo ascoltare le grida di Bartimeo, possiamo sentire come sente il Signore sul bordo del suo mantello il tocco timido ma deciso dell’emorroissa, possiamo chiedere la grazia di gustare con Lui sulla croce il sapore amaro del fiele di tutti i crocifissi, per sentire così l’odore forte della miseria – in ospedali da campo, in treni e barconi pieni di gente –; quell’odore che l’olio della misericordia non copre, ma che ungendolo fa sì che si risvegli una speranza.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando delle opere di misericordia, racconta che santa Rosa da Lima, il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, santa Rosa da Lima senza esitare le disse: «Quando serviamo i poveri e i malati, siamo buon odore di Cristo» (n. 2449). Questo buon odore di Cristo – la cura dei poveri – è caratteristico della Chiesa, sempre lo è stato. Paolo centrò qui il suo incontro con “le colonne”, come lui le chiama, con Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi «ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri» (Gal 2,10). Questo mi ricorda un fatto, che ho detto alcune volte: appena eletto Papa, mentre continuavano lo scrutinio, si è avvicinato a me un fratello Cardinale, mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non dimenticarti dei poveri”. Il primo messaggio che il Signore mi ha fatto arrivare in quel momento. Il Catechismo dice anche, in maniera suggestiva, che «gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi, a difenderli e a liberarli» (n. 2448). E questo senza ideologie, soltanto con la forza del Vangelo.

Nella Chiesa abbiamo avuto e abbiamo molte cose non tanto buone, e molti peccati, ma in questo di servire i poveri con opere di misericordia, come Chiesa abbiamo sempre seguito lo Spirito, e i nostri santi lo hanno fatto in modo molto creativo ed efficace. L’amore per i poveri è stato il segno, la luce che fa sì che la gente glorifichi il Padre. La nostra gente apprezza questo, il prete che si prende cura dei poveri, dei malati, che perdona i peccatori, che insegna e corregge con pazienza… Il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona. E non è tanto per la ricchezza in sé, ma perché il denaro ci fa perdere la ricchezza della misericordia. Il nostro popolo riconosce “a fiuto” quali peccati sono gravi per il pastore, quali uccidono il suo ministero perché lo fanno diventare un funzionario, o peggio un mercenario, e quali invece sono, non direi peccati secondari – perché non so se teologicamente si può dire questo -, ma peccati che si possono sopportare, caricare come una croce, finché il Signore alla fine li purificherà, come farà con la zizzania. Invece ciò che attenta contro la misericordia è una contraddizione principale. Attenta contro il dinamismo della salvezza, contro Cristo che “si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (cfr 2 Cor 8,9). E questo è così perché la misericordia cura “perdendo qualcosa di sé”: un brandello di cuore rimane con la persona ferita; un tempo della nostra vita, in cui avevamo voglia di fare qualcosa, lo perdiamo quando lo regaliamo all’altro, in un’opera di misericordia.

Perciò non è questione che Dio mi usi misericordia in qualche mancanza, come se nel resto io fossi autosufficiente, o che ogni tanto io compia qualche atto particolare di misericordia verso un bisognoso. La grazia che chiediamo in questa preghiera è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Per noi sacerdoti e vescovi, che lavoriamo con i Sacramenti, battezzando, confessando, celebrando l’Eucaristia…, la misericordia è il modo di trasformare tutta la vita del popolo di Dio in “sacramento”. Essere misericordioso non è solo un modo di essere, ma il modo di essere. Non c’è altra possibilità di essere sacerdote. Il Cura Brochero diceva: «Il sacerdote che non prova molta compassione dei peccatori è un mezzo sacerdote. Questi stracci benedetti che porto addosso non sono essi che mi fanno sacerdote; se non porto nel mio petto la carità, non sono nemmeno cristiano».

Vedere quello che manca per porre rimedio immediatamente, e meglio ancora prevederlo, è proprio dello sguardo di un padre. Questo sguardo sacerdotale – di chi fa le veci del padre nel seno della Chiesa Madre – che ci porta a vedere le persone nell’ottica della misericordia, è quello che si deve insegnare a coltivare a partire dal seminario e deve alimentare tutti i piani pastorali. Desideriamo e chiediamo al Signore uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di “quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la nostra gente” per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a loro. Perché, come dice il Documento di Aparecida, citando sant’Alberto Hurtado, «nelle nostre opere, il nostro popolo sa che comprendiamo il suo dolore» (n. 386).

La prova di questa comprensione del nostro popolo è che nelle nostre opere di misericordia siamo sempre benedetti da Dio e troviamo aiuto e collaborazione nella nostra gente. Non così per altri tipi di progetti, che a volte vanno bene e altre no, e alcuni non si rendono conto del perché non funziona e si rompono la testa cercando un nuovo, ennesimo piano pastorale, quando si potrebbe semplicemente dire: non funziona perché gli manca misericordia, senza bisogno di entrare in particolari. Se non è benedetto è perché gli manca misericordia. Manca quella misericordia che appartiene più a un ospedale da campo che a una clinica di lusso, quella misericordia che, apprezzando qualcosa di buono, prepara il terreno ad un futuro incontro della persona con Dio invece di allontanarla con una critica puntuale…

Vi propongo una preghiera con la peccatrice perdonata (cfr Gv 8,3-11), per chiedere la grazia di essere misericordiosi nella Confessione, e un’altra sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Mi commuove sempre il passo del Signore con la donna adultera, come, quando non la condannò, il Signore “mancò” rispetto alla legge; in quel punto sul quale gli chiedevano di pronunciarsi – “bisogna lapidarla o no?” – non si pronunciò, non applicò la legge. Fece finta di non capire – anche in questo il Signore è un maestro per tutti noi – e, in quel momento, tirò fuori un’altra cosa. Iniziò così un processo nel cuore della donna che aveva bisogno di queste parole: «Neanch’io ti condanno». Tendendole la mano la fece alzare e questo le permise di incontrarsi con uno sguardo pieno di dolcezza che le cambiò il cuore. Il Signore tende la mano alla figlia di Giairo: “Datele da mangiare”. Al ragazzo morto, a Nain: “Alzati”, e lo dà alla sua mamma. E a questa peccatrice: “Alzati”. Il Signore ci rimette proprio come Dio ha voluto che l’uomo stia: in piedi, alzato, mai per terra. A volte mi dà un misto di pena e di indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione, il «non peccare più». E utilizza questa frase per “difendere” Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge. Penso che le parole che usa il Signore sono tutt’uno con le sue azioni. Il fatto di chinarsi a scrivere per terra due volte, creando una pausa prima di ciò che dice a quelli che vogliono lapidare la donna e, prima di ciò che dice a lei, ci parla di un tempo che il Signore si prende per giudicare e perdonare. Un tempo che rimanda ciascuno alla propria interiorità e fa sì che quelli che giudicano si ritirino.

Nel suo dialogo con la donna il Signore apre altri spazi: uno è lo spazio della non condanna. Il Vangelo insiste su questo spazio che è rimasto libero. Ci colloca nello sguardo di Gesù e ci dice che “non vede nessuno intorno ma solo la donna”. E poi Gesù stesso fa guardare intorno la donna con la domanda: “Dove sono quelli che ti classificavano?” (la parola è importante, perché dice di ciò che tanto rifiutiamo come il fatto che ci etichettino e ci facciano una caricatura…). Una volta che la fa guardare quello spazio libero dal giudizio altrui, le dice che nemmeno lui lo invade con le sue pietre: «Neanch’io ti condanno». E in quel momento stesso le apre un altro spazio libero: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Il comandamento si dà per l’avvenire, per aiutare ad andare, per “camminare nell’amore”. Questa è la delicatezza della misericordia che guarda con pietà il passato e incoraggia per il futuro. Questo «non peccare più» non è qualcosa di ovvio. Il Signore lo dice “insieme con lei”, la aiuta ad esprimere in parole ciò che lei stessa sente, quel “no” libero al peccato che è come il “sì” di Maria alla grazia. Il “no” viene detto in relazione alla radice del peccato di ciascuno. Nella donna si trattava di un peccato sociale, del peccato di qualcuno a cui la gente si avvicinava o per stare con lei o per lapidarla. Non c’era un altro tipo di vicinanza con questa donna. Perciò il Signore non solo le sgombra la strada ma la pone in cammino, perché smetta di essere “oggetto” dello sguardo altrui, perché sia protagonista. Il “non peccare” non si riferisce solo all’aspetto morale, io credo, ma a un tipo di peccato che non la lascia fare la sua vita. Anche al paralitico di Betzatà Gesù dice: «Non peccare più» (Gv 5,14); ma costui, che si giustificava per le cose tristi che gli succedevano, che aveva una psicologia da vittima – la donna no -, lo punge un po’ con quel «perché non ti accada qualcosa di peggio». Il Signore approfitta del suo modo di pensare, di ciò che lui teme, per farlo uscire dalla sua paralisi. Lo smuove con la paura, diciamo. Così, ognuno di noi deve ascoltare questo «non peccare più» in maniera intima e personale.

Questa immagine del Signore che mette in cammino le persone è molto appropriata: Egli è il Dio che si mette a camminare con il suo popolo, che manda avanti e accompagna la nostra storia. Perciò, l’oggetto a cui si dirige la misericordia è ben preciso: si rivolge a ciò che fa sì che un uomo e una donna non camminino nel loro posto, con i loro cari, con il proprio ritmo, verso la meta a cui Dio li invita ad andare. La pena, ciò che commuove, è che uno si perda, o che resti indietro, o che sbagli per presunzione; che sia fuori posto, diciamo; che non sia pronto per il Signore, disponibile per il compito che Lui vuole affidargli; che uno non cammini umilmente alla presenza del Signore (cfr Mi 6,8), che non cammini nella carità (cfr Ef 5,2).

Lo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi

[ads2]Adesso passiamo allo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi.

E, parlando di spazio, andiamo a quello del confessionale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere il confessionale come un luogo in cui la verità ci rende liberi per un incontro. Dice così: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). E ci ricorda che «il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all’intenzione e alla carità di Cristo» (n. 1466).

Segno e strumento di un incontro. Questo siamo. Attrazione efficace per un incontro. Segno vuol dire che dobbiamo attrarre, come quando uno fa dei segni per richiamare l’attenzione. Un segno dev’essere coerente e chiaro, ma soprattutto comprensibile. Perché ci sono segni che sono chiari solo per gli specialisti, e questi non servono. Segno e strumento. Lo strumento si gioca la vita nella sua efficacia -serve o non serve? -, nell’essere disponibile e incidere nella realtà in modo preciso, adeguato. Siamo strumento se veramente la gente si incontra con il Dio misericordioso. A noi spetta “far che si incontrino”, che si trovino faccia a faccia. Quello che poi faranno è cosa loro. C’è un figlio prodigo nel porcile e un padre che tutte le sere sale in terrazza per vedere se arriva; c’è una pecora perduta e un pastore che è andato a cercarla; c’è un ferito abbandonato al bordo della strada e un samaritano che ha il cuore buono. Qual è, dunque, il nostro ministero? Essere segni e strumenti perché questi si incontrino. Teniamo ben chiaro che noi non siamo né il padre, né il pastore, né il samaritano. Piuttosto siamo accanto agli altri tre, in quanto peccatori. Il nostro ministero dev’essere segno e strumento di tale incontro. Perciò ci poniamo nell’ambito del mistero dello Spirito Santo, che è Colui che crea la Chiesa, Colui che fa l’unità, Colui che ravviva ogni volta l’incontro.

L’altra cosa propria di un segno e di uno strumento è di non essere autoreferenziale, per dirlo in maniera difficile. Nessuno si ferma al segno una volta che ha compreso la cosa; nessuno si ferma a guardare il cacciavite o il martello, ma guarda il quadro che è stato ben fissato. Siamo servi inutili. Ecco, strumenti e segni che furono molto utili per altri due che si unirono in un abbraccio, come il padre col figlio.

La terza caratteristica propria del segno e dello strumento è la loro disponibilità. Che sia pronto all’uso lo strumento, che sia visibile il segno. L’essenza del segno e dello strumento è di essere mediatori, disponibili. Forse qui si trova la chiave della nostra missione in questo incontro della misericordia di Dio con l’uomo. Probabilmente è più chiaro usare un termine negativo. Sant’Ignazio parlava di “non essere impedimento”. Un buon mediatore è colui che facilita le cose e non pone impedimenti. Nella mia terra c’era un grande confessore, il padre Cullen, che si sedeva nel confessionale e, quando non c’era gente, faceva due cose: una era aggiustare palloni di cuoio per i ragazzi che giocavano a calcio, l’altra era leggere un grande dizionario di cinese. Era stato tanto tempo in Cina, e voleva conservare la lingua. Diceva lui che quando la gente lo vedeva in attività così inutili, come aggiustare vecchi palloni, e così a lungo termine, come leggere un dizionario di cinese, pensava: “Posso avvicinarmi a parlare un po’ con questo prete perché si vede che non ha niente da fare”. Era disponibile per l’essenziale. Lui aveva un orario per il confessionale, ma era lì. Evitava l’impedimento di avere sempre l’aspetto di uno molto occupato. E’ qui il problema. La gente non si avvicina quando vede il suo pastore molto, molto occupato, sempre impegnato.

Ognuno di noi ha conosciuto buoni confessori. Bisogna imparare dai nostri buoni confessori, di quelli ai quali la gente si avvicina, quelli che non la spaventano e sanno parlare finché l’altro racconta quello che è successo, come Gesù con Nicodemo. E’ importante capire il linguaggio dei gesti; non chiedere cose che sono evidenti per i gesti. Se uno si avvicina al confessionale è perché è pentito, c’è già pentimento. E se si avvicina è perché ha il desiderio di cambiare. O almeno desidera il desiderio, e se la situazione gli sembra impossibile (ad impossibilia nemo tenetur, come dice il brocardo, nessuno è obbligato a fare l’impossibile). Il linguaggio dei gesti. Ho letto nella vita di un santo recente di questi tempi che, poveretto, soffriva nella guerra. C’era un soldato che stava per essere fucilato e lui andò a confessarlo. E si vede che quel tale era un po’ libertino, faceva tante feste con le donne… “Ma tu sei pentito di questo?” – “No, era tanto bello, padre”. E questo santo non sapeva come uscirne. C’era lì il plotone per fucilarlo, e allora gli disse: “Di’ almeno: ti rammarichi di non essere pentito?” – “Questo sì” – “Ah, va bene!”. Il confessore cerca sempre la strada, e il linguaggio dei gesti è il linguaggio delle possibilità per arrivare al punto.

Bisogna imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono. Io sono rimasto tanto edificato da uno dei Cardinali della Curia, che a priori io pensavo che fosse molto rigido. E lui, quando c’era un penitente che aveva un peccato in modo che gli dava vergogna a dirlo e incominciava con una parola o due, subito capiva di che cosa si trattava e diceva: “Vada avanti, ho capito, ho capito!”. E lo fermava, perché aveva capito. Questa è delicatezza. Ma quei confessori – perdonatemi – che domandano e domandano…: “Ma dimmi, per favore…”. Tu hai bisogno di tanti dettagli per perdonare oppure “ti stai facendo il film”? Quel cardinale mi ha edificato tanto. La completezza della confessione non è una questione matematica – quante volte? Come? dove?… -. A volte la vergogna si nasconde più davanti al numero che davanti al peccato stesso. Ma per questo bisogna lasciarsi commuovere dinanzi alla situazione della gente, che a volte è un miscuglio di cose, di malattia, di peccato, di condizionamenti impossibili da superare, come Gesù che si commuoveva vedendo la gente, lo sentiva nelle viscere, nelle budella e perciò guariva e guariva anche se l’altro “non lo chiedeva bene”, come quel lebbroso, o girava intorno, come la Samaritana, che era come la pavoncella: faceva il verso da una parte ma aveva il nido dall’altra. Gesù era paziente.

Bisogna imparare dai confessori che sanno fare in modo che il penitente senta la correzione facendo un piccolo passo avanti, come Gesù, che dava una penitenza che bastava, e sapeva apprezzare chi ritornava a ringraziare, chi poteva ancora migliorare. Gesù faceva prendere il lettuccio al paralitico, o si faceva pregare un po’ dai ciechi o dalla donna sirofenicia. Non gli importava se dopo non badavano più a Lui, come il paralitico alla piscina di Betzatà, o se raccontavano cose che aveva detto loro di non raccontare e poi sembrava che il lebbroso fosse Lui, perché non poteva entrare nei villaggi o i suoi nemici trovavano motivi per condannarlo. Lui guariva, perdonava, dava sollievo, riposo, faceva respirare alla gente un alito dello Spirito consolatore.

Questo che dirò adesso l’ho detto tante volte, forse qualcuno di voi lo ha sentito. Ho conosciuto, a Buenos Aires, un frate cappuccino – vive ancora -, poco più giovane di me, che è un grande confessore. Davanti al confessionale ha sempre la fila, tanta gente – tutti: gente umile, gente benestante, preti, suore, una fila – un susseguirsi di persone, tutto il giorno a confessare. E lui è un grande perdonatore. Sempre trova la strada per perdonare e per far fare un passo avanti. E’ un dono dello Spirito. Ma, a volte, gli viene lo scrupolo di aver perdonato troppo. E allora una volta parlando mi ha detto: “A volte ho questo scrupolo”. E io gli ho chiesto: “E cosa fai quando hai questo scrupolo?”. “Vado davanti al tabernacolo, guardo il Signore, e gli dico: Signore, perdonami, oggi ho perdonato molto. Ma che sia chiaro: la colpa è tua perché sei stato tu a darmi il cattivo esempio! Cioè la misericordia la migliorava con più misericordia.

Infine, su questo tema della Confessione, due consigli. Uno, non abbiate mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso. La misericordia ci libera dall’essere un prete giudice-funzionario, diciamo, che a forza di giudicare “casi” perde la sensibilità per le persone e per i volti. Io ricordo quando ero in II Teologia, sono andato con i miei compagni a sentire l’esame di “audiendas”, che si faceva al III Teologia, prima dell’ordinazione. Andammo per imparare un po’, sempre si imparava. E una volta, ricordo che ad un compagno hanno fatto una domanda, era sulla giustizia, de iure, ma tanto intricata, tanto artificiale… E quel compagno disse con molta umiltà: “Ma padre, questo non si trova nella vita” – “Ma si trova nei libri!”. Quella morale “dei libri”, senza esperienza. La regola di Gesù è “giudicare come vogliamo essere giudicati”. In quella misura intima che si ha per giudicare se si viene trattati con dignità, se si viene ignorati o maltrattati, se si è stati aiutati a mettersi in piedi…. Questa è la chiave per giudicare gli altri. Facciamo attenzione che il Signore ha fiducia in questa misura che è così soggettivamente personale. Non tanto perché tale misura sia “la migliore”, ma perché è sincera e, a partire da essa, si può costruire una buona relazione. L’altro consiglio: non siate curiosi nel confessionale. L’ho già accennato. Racconta santa Teresina che, quando riceveva le confidenze delle sue novizie, si guardava bene dal chiedere come erano andate poi le cose. Non curiosava nell’anima delle persone (cfr Storia di un’anima, Manoscritto C, Alla madre Gonzaga, c. XI 32r). E’ proprio della misericordia “coprire con il suo manto”, coprire il peccato per non ferire la dignità. E’ bello quel passo dei due figli di Noè, che coprirono con il mantello la nudità del padre che si era ubriacato (cfr Gen 9,23).

La dimensione sociale delle opere di misericordia

Adesso passiamo a dire due parole sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Alla fine degli Esercizi, sant’Ignazio pone la “Contemplazione per giungere all’amore”, che congiunga ciò che si è vissuto nella preghiera con la vita quotidiana. E ci fa riflettere su come l’amore va posto più nelle opere che nelle parole. Tali opere sono le opere di misericordia, quelle che il Padre «ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,10), quelle che lo Spirito ispira a ciascuno per il bene comune (cfr 1 Cor 12,7). Mentre ringraziamo il Signore per tanti benefici ricevuto dalla sua bontà, chiediamo la grazia di portare a tutti gli uomini la misericordia che ha salvato noi.

Vi propongo, in questa dimensione sociale, di meditare su alcuni dei passi conclusivi dei Vangeli. Lì, il Signore stesso stabilisce tale connessione tra ciò che abbiamo ricevuto e ciò che dobbiamo dare. Possiamo leggere queste conclusioni in chiave di “opere di misericordia”, che pongono in atto il tempo della Chiesa nel quale Gesù risorto vive, accompagna, invia e attira la nostra libertà, che trova in Lui la sua realizzazione concreta e rinnovata ogni giorno.

La conclusione del Vangelo di Matteo, ci dice che il Signore invia gli apostoli e dice loro: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cfr 28,20). Questo “insegnare a chi non sa” è in sé stessa una delle opere di misericordia. E si rifrange come la luce nelle altre opere: in quelle di Matteo 25, che consistono piuttosto nelle opere cosiddette corporali, e in tutti i comandamenti e consigli evangelici, di “perdonare”, “correggere fraternamente”, consolare chi è triste, sopportare le persecuzioni, e così via.

Marco termina con l’immagine del Signore che “collabora” con gli apostoli e “conferma la Parola con i segni che la accompagnano” (cfr 16,20). Questi “segni” hanno la caratteristica delle opere di misericordia. Marco parla, tra l’altro, di guarire i malati e scacciare gli spiriti cattivi (cfr 16,17-18).

Luca continua il suo Vangelo con il Libro degli “Atti” – praxeis – degli Apostoli, narrando il loro modo di procedere e le opere che compiono, guidati dallo Spirito.

Giovanni termina parlando delle «molte altre cose» (21,25) o «segni» (20,30) che Gesù fece. Gli atti del Signore, le sue opere, non sono meri fatti ma sono segni nei quali, in modo personale e unico per ciascuno, si mostrano il suo amore e la sua misericordia.

Possiamo contemplare il Signore che ci invia a questo lavoro con l’immagine di Gesù misericordioso, così come fu rivelata a Suor Faustina. In quella immagine possiamo vedere la Misericordia come un’unica luce che viene dall’interiorità di Dio e che, passando attraverso il cuore di Cristo, esce diversificata, con un colore proprio per ogni opera di misericordia.

Le opere di misericordia sono infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape. Perché la misericordia è feconda e inclusiva. Queste due caratteristiche importanti: la misericordia è feconda e inclusiva. E’ vero che di solito pensiamo alle opere di misericordia ad una ad una, e in quanto legate ad un’opera: ospedali per i malati, mense per quelli che hanno fame, ostelli per quelli che sono per la strada, scuole per quelli che hanno bisogno di istruzione, il confessionale e la direzione spirituale per chi necessita di consiglio e di perdono… Ma se le guardiamo insieme, il messaggio è che l’oggetto della misericordia è la vita umana stessa nella sua totalità. La nostra vita stessa in quanto “carne” è affamata e assetata, bisognosa di vestito, di casa, di visite, come pure di una sepoltura degna, cosa che nessuno può dare a sé stesso. Anche il più ricco, quando muore, si riduce a una miseria e nessuno porta dietro al suo corteo il camion del trasloco. La nostra vita stessa, in quanto “spirito”, ha bisogno di essere educata, corretta, incoraggiata, consolata. Parola molto importante, questa, nella Bibbia: pensiamo al Libro della consolazione di Israele, nel profeta Isaia. Abbiamo bisogno che altri ci consiglino, ci perdonino, ci sostengano e preghino per noi. La famiglia è quella che pratica queste opere di misericordia in maniera così adatta e disinteressata che non si nota, ma basta che in una famiglia con bambini piccoli manchi la mamma perché tutto vada in miseria. La miseria più assoluta e crudelissima è quella di un bambino per la strada, senza genitori, in balia degli avvoltoi.

Abbiamo chiesto la grazia di essere segno e strumento; ora si tratta di “agire”, e non solo di compiere gesti ma di fare opere, di istituzionalizzare, di creare una cultura della misericordia, che non è lo stesso di una cultura della beneficienza, dobbiamo distinguere. Messi all’opera, sentiamo immediatamente che è lo Spirito Colui che spinge, che manda avanti queste opere. E lo fa utilizzando i segni e gli strumenti che vuole, benché a volte non siano in sé stessi i più adatti. Di più, si direbbe che per esercitare le opere di misericordia lo Spirito scelga piuttosto gli strumenti più poveri, quelli più umili e insignificanti, che hanno loro stessi più bisogno di quel primo raggio della misericordia divina. Questi sono quelli che meglio si lasciano formare e preparare per realizzare un servizio di vera efficacia e qualità. La gioia di sentirsi “servi inutili”, per coloro che il Signore benedice con la fecondità della sua grazia, e che Lui stesso in persona fa sedere alla sua mensa e ai quali offre l’Eucaristia, è una conferma che si sta lavorando nelle sue opere di misericordia.

Al nostro popolo fedele piace raccogliersi intorno alle opere di misericordia. Basta venire ad una delle udienze generali del mercoledì e vediamo quanti ce ne sono: gruppi di persone che si mettono insieme per fare opere di misericordia. Tanto nelle celebrazioni – penitenziali e festive – quanto nell’azione solidale e formativa, la nostra gente si lascia radunare e pascolare in un modo che non tutti riconoscono e apprezzano, malgrado falliscano tanti altri piani pastorali centrati su dinamiche più astratte. La presenza massiccia del nostro popolo fedele nei nostri santuari e pellegrinaggi, presenza anonima per eccesso di volti e per desiderio di farsi vedere solo da Colui e Colei che li guardano con misericordia, come pure per la collaborazione numerosa che, sostenendo col suo impegno tante opere solidali, dev’essere motivo di attenzione, di apprezzamento e di promozione da parte nostra. E per me è stata una sorpresa come qui in Italia queste organizzazioni siano tanto forti e radunino tanto il popolo.

Come sacerdoti, chiediamo due grazie al Buon Pastore: quella di lasciarci guidare dal sensus fidei del nostro popolo fedele, e anche dal suo “senso del povero”. Entrambi i “sensi” sono legati al “sensus Christi”, di cui parla san Paolo, all’amore e alla fede che la nostra gente ha per Gesù.

Concludiamo recitando l’Anima Christi, che è una bella preghiera per chiedere misericordia al Signore venuto nella carne, che ci usa misericordia con i suoi stessi Corpo e Anima. Gli chiediamo che ci usi misericordia insieme con il suo popolo: alla sua anima chiediamo “santificaci”; il suo corpo supplichiamo “salvaci”; il suo sangue imploriamo “inebriaci”, toglici ogni altra sete che non sia di Te; all’acqua del suo costato chiediamo “lavaci”; la sua passione imploriamo “confortaci”; consola il tuo popolo; Signore crocifisso, nelle tue piaghe, Ti supplichiamo, “nascondici”… Non permettere che il tuo popolo, Signore, si separi da Te. Che niente e nessuno ci separi dalla tua misericordia, la quale ci difende dalle insidie del nemico maligno. Così potremo cantare le misericordie del Signore insieme a tutti i tuoi santi quando ci comanderai di venire a Te.

[Preghiera dell’Anima Christi]

Ho sentito qualche volta commenti dei sacerdoti che dicono: “Ma questo Papa ci bastona troppo, ci rimprovera”. E qualche bastonata, qualche rimprovero c’è. Ma devo dire che sono rimasto edificato da tanti sacerdoti, tanti preti bravi! Da quelli – ne ho conosciuti – che, quando non c’era la segreteria telefonica, dormivano con il telefono sul comodino, e nessuno moriva senza i sacramenti; chiamavano a qualsiasi ora, e loro si alzavano e andavano. Bravi sacerdoti! E ringrazio il Signore per questa grazia. Tutti siamo peccatori, ma possiamo dire che ci sono tanti bravi, santi sacerdoti che lavorano in silenzio e nascosti. A volte c’è uno scandalo, ma noi sappiamo che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.

E ieri ho ricevuto una lettera, l’ho lasciata lì, con quelle personali. L’ho aperta prima di venire e credo che sia stato il Signore a suggerirmelo. E’ di un parroco in Italia, parroco di tre paesini. Credo che ci farà bene sentire questa testimonianza di un nostro fratello.

E’ scritta il 29 maggio, da pochi giorni.

“Perdoni il disturbo. Colgo l’occasione  di un amico sacerdote che in questi giorni si trova a Roma per il Giubileo sacerdotale, per farLe pervenire senza alcuna pretesa – da semplice parroco di tre piccoli parrocchie di montagna, preferisco farmi chiamare ‘pastorello’ – alcune considerazioni sul mio semplice servizio pastorale, provocate – La ringrazio di cuore – da alcune cose che Lei ha detto e che mi chiamano ogni giorno alla conversione. Sono consapevole di scriverLe nulla di nuovo. Certamente avrà già ascoltato queste cose. Sento il bisogno di farmi anche io portavoce. Mi ha colpito, mi colpisce quell’invito che Lei più volte fa a noi pastori di avere l’odore delle pecore. Sono in montagna e so bene cosa vuol dire. Si diventa preti per sentire quell’odore, che poi è il vero profumo del gregge. Sarebbe davvero bello se il contatto quotidiano e la frequentazione assidua del nostro gregge, motivo vero della nostra chiamata, non fosse sostituito dalle incombenze amministrative e burocratiche delle parrocchie, della scuola dell’infanzia e di altro. Ho la fortuna di avere dei bravi e validi laici che seguono dal di dentro queste cose. Ma c’è sempre quell’incombenza giuridica del parroco, come unico e solo legale rappresentante. Per cui, alla fine, lui deve sempre correre dappertutto, relegando a volte la visita agli ammalati, alle famiglie come ultima cosa, fatta magari velocemente e in qualche modo. Lo dico in prima persona, a volte è davvero frustrante constatare come nella mia vita di prete si corra tanto per l’apparato burocratico e amministrativo, lasciando poi la gente, quel piccolo gregge che mi è stato affidato, quasi abbandonato a se stesso. Mi creda, Santo Padre, è triste e tante volte mi viene da piangere per questa carenza. Uno cerca di organizzarsi, ma alla fine è solo il vortice delle cose quotidiane. Come pure un altro aspetto, richiamato anche da Lei: la carenza di paternità. Si dice che la società di oggi è carente di padri e di madri. Mi pare di constatare come a volte anche noi rinunciamo a questa paternità spirituale, riducendoci brutalmente a burocrati del sacro, con la triste conseguenza poi di sentirci abbandonati a noi stessi. Una paternità difficile, che poi si ripercuote inevitabilmente anche sui nostri superiori, presi anche loro da comprensibili incombenze e problematiche, rischiando così di vivere con noi un rapporto formale, legato alla gestione della comunità, più che alla nostra vita di uomini, di credenti e di preti. Tutto questo – e concludo – non toglie comunque la gioia e la passione di essere prete per la gente e con la gente. Se a volte come pastore non ho l’odore delle pecore, mi commuovo ogni volta del mio gregge che non ha perso l’odore del pastore! Che bello, Santo Padre, quando ci si accorge che le pecore non ci lasciano soli, hanno il termometro del nostro essere lì per loro, e se per caso il pastore esce dal sentiero e si smarrisce, loro lo afferrano e lo tengono per mano. Non smetterò mai di ringraziare il Signore, perché sempre ci salva attraverso il suo gregge, quel gregge che ci è stato affidato, quella gente semplice, buona, umile e serena, quel gregge che è la vera grazia del pastore. In modo confidenziale Le ho fatto pervenire queste piccole e semplici considerazioni, perché Lei è vicino al gregge, è capace di capire e può continuare ad aiutarci e sostenerci. Prego per Lei e La ringrazio, come pure per quelle “tiratine di orecchie” che sento necessarie per il mio cammino. Mi benedica Papa Francesco e preghi per me e per le mie parrocchie”. Firma e alla fine quel gesto proprio dei pastori: “Le lascio una piccola offerta. Preghi per le mie comunità, in particolare per alcuni ammalati gravi e per alcune famiglie in difficoltà economica e non solo. Grazie!”

Questo è un fratello nostro. Ce ne sono tanti così, ce ne sono tanti! Anche qui sicuramente. Tanti. Ci indica la strada. E andiamo avanti! Non perdere la preghiera. Pregate come potete, e se vi addormentate davanti al Tabernacolo, benedetto sia. Ma pregate. Non perdere questo. Non perdere il lasciarsi guardare dalla Madonna e guardarla come Madre. Non perdere lo zelo, cercare di fare… Non perdere la vicinanza e la disponibilità alla gente e anche, mi permetto di dirvi, non perdere il senso dell’umorismo. E andiamo avanti!

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