CARCERE, RIPARTIRE DALLA MISERICORDIA
Visitare i carcerati: Cesare deve morire (2012) di Paolo e Vittorio Taviani
Fede, ancoraggio nella malattia
[ads2]«I carcerati troppo spesso sono tenuti in condizioni indegne della persona umana, e dopo non riescono a reinserirsi nella società. Ma grazie a Dio ci sono anche dirigenti, cappellani, educatori, operatori pastorali che sanno stare vicino a voi nel modo giusto. E ci sono alcune esperienze buone e significative di inserimento. Bisogna lavorare su questo, sviluppare queste esperienze positive, che fanno crescere un atteggiamento diverso nella comunità civile e anche nella comunità della Chiesa. Alla base di questo impegno c’è la convinzione che l’amore può sempre trasformare la persona umana» (Francesco, Discorso alla Casa Circondariale “Giuseppe Salvia”, 21 marzo 2015).
Papa Francesco, nei suoi numerosi incontri con i detenuti non smette mai di offrire parole di speranza, di fiducia, esortando ad abbracciare un percorso di cambiamento. Il carcere deve essere luogo in cui si cura la persona, non spazio dove la si umilia o degrada. Il carcere, aggiunge papa Francesco, «può diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone».
A dare voce alla condizione dei detenuti è il film Cesare deve morire (2012) di Paolo e Vittorio Taviani, scelto dalla Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI – Fondazione Ente dello Spettacolo, in accordo con l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, per il ciclo Cinema e Giubileo.
Quando il cinema diventa occasione educativa
Orso d’oro e Premio della Giuria Ecumenica al 62. Festival di Berlino (2012), nonché vincitore di diversi David di Donatello tra cui Miglior film e Miglior regia, Cesare deve morire dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani offre una rilettura attuale della dramma shakespeariano Giulio Cesare.
Roma, carcere di Rebibbia, il regista Fabio Cavalli presenta ai detenuti il progetto della messa in scena dell’opera di William Shakespeare Giulio Cesare. Molte adesione tra i carcerati – nessuno vuole interpretare però la figura di Bruto, il “traditore” –, che si mettono in gioco con il laboratorio teatrale, ma soprattutto con la vita. Prove dopo prove, lo spettatore assiste infatti a un percorso di riscatto dei protagonisti, che sperimentano progressivamente il potere educativo dell’arte, della cultura, capace di regalar loro sogni di speranza oltre le sbarre.
Giustamente acclamati a Berlino, i fratelli Taviani regalano uno straordinario e poetico racconto sugli ultimi nelle carceri italiane. Sono tutti detenuti e lo spettatore è messo subito a conoscenza della loro pena, degli anni da scontare. I registi non fanno sconti né sminuiscono la gravità delle loro colpe. Ma ci ricordano che sono soprattutto esseri umani, che hanno bisogno di avvertire fiducia e possibilità di intraprendere un percorso rieducativo.
Il teatro e in generale la cultura sono l’occasione per infrangere le pesanti corazze che questi uomini vestono, per aiutarli a comprendere l’orrore delle proprie colpe ma anche la possibilità di risolverle, di poter trovare una via di espiazione e redenzione. Emozionante è la battuta che chiude il film, al termine del debutto dello spettacolo teatrale, quando il detenuto ergastolano rientra in cella: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventa una prigione…”.
I fratelli Taviani confermano pertanto il loro cinema di impegno civile, il loro sguardo sociale. Cesare deve morire, girato alternando bianco e nero – per raccontare i detenuti, le prove – e il colore – il palcoscenico, l’applauso degli spettatori –, è un’opera dalla struttura narrativa semplice, che recupera il lavoro teatrale che viene condotto abitualmente nelle carceri. Una semplicità che però spiazza, che diventa trascinante, quando si assiste al potere catartico giocato dal teatro, dall’arte, capace di toccare i cuori feriti di quanti hanno sprecato la propria esistenza.
I Taviani offrono una lezione di grande cinema, ma principalmente una lezione di umanità. Il loro film presenta un percorso rieducativo per i detenuti, così come per lo stesso spettatore, chiamato a liberarsi di pregiudizi e chiusure dinanzi all’“altro” incidentato, che ha sbagliato e smarrito se stesso.
Cesare deve morire è dunque un’opera perfettamente in linea con il tema della misericordia corporale “Visitare i carcerati”. I registi aprono infatti le porte del carcere di Rebibbia, di ogni carcere, per mostrare un’umanità sofferente, disgraziata, bisognosa di misericordia.
Per approfondire con la Cnvf e Cinematografo.it
Commissione Nazionale Valutazione Film CEI: «L’opera dei Taviani si distingue per originalità, coraggio, essenzialità stilistica. Carcere, detenuti, colpe forti e pene pesanti: argomenti rispetto ai quali l’intramontabile testo shakespeariano offre la possibilità di una immediata vicinanza con l’attualità, e la estrema plasticità delle parole concede impensate libertà di atteggiamento. In sostanza non si chiede ai detenuti di fare “gli attori” ma, al contrario, di identificare se stessi con i personaggi, di tirarne fuori torti e ragioni, in una sorta di estremo confronto tra realtà e finzione. A rendere il tono ancor più anti-didattico e spoglio, ecco l’indicazione data agli ‘interpreti’ di mantenere nella pronuncia i rispettivi dialetti di provenienza, adattandoli alle frasi del testo. Tranne la sequenza iniziale e quella finale, i due autori girano in B&N, scelta formale che sottrae la possibilità di distrazioni estetiche ma induce a qualche preziosismo forse non necessario. Da tempo il teatro nelle carceri è occasione per fare gruppo e creare momenti di crescita. Qui tra i due poli (detenzione/messa in scena) si colloca il cinema degli esperti Taviani. Il risultato è un prodotto imperfetto ma pieno di vita, mosso e dinamico, acuto e carico di suggestioni. E il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti» (www.cnvf.it).
Rivista del Cinematografo – Cinematografo.it: «L’Orso d’Oro è stato una bella sorpresa per tutti. Non un premio alla carriera (…) ma un riconoscimento meritato e in linea con il festival tedesco. Che nulla ha che a vedere con l’età di Paolo e Vittorio Taviani, rispettivamente 81 e 83 anni. E neanche con la tipologia della storia, per qualcuno superata. Bensì un lavoro straordinario e spiazzante, che rielabora uno schema a vantaggio di un’operazione artistica di altissimo livello. Cesare deve morire (…) è un dramma carcerario ambientato in prigione, (…) la rilettura di Giulio Cesare di Shakespeare. Che i carcerati-attori adattano e reinterpretano infarcendolo del loro vissuto: ecco lo scarto, l’idea che permette di annullare la distanza tra rappresentazione e realtà. Quando si schierano contro Cesare, il leader che si fa dittatore, le parole tradimento e lealtà hanno un significato universale e calzante allo stesso tempo. Sono “uomini d’onore”, dice Antonio (Antonio Frasca) degli assassini di Cesare, nel duplice senso che conosciamo: alcuni di loro stanno effettivamente scontando la pena per reati mafiosi. Si entra e si esce dal palcoscenico virtuale del carcere, la recita si mescola con la vita (…)» (Marina Sanna, Cesare deve morire, in «Rivista del Cinematografo» – Cinematografo.it, 1 marzo 2012).