Il testo ed il commento al Vangelo di oggi – Mt 15, 29-37 del 2 dicembre 2015, I Settimana del Tempo di Avvento – Anno I.
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- Colore liturgico: viola
- Le letture del giorno: Is 25, 6-10; Sal.22; Mt 15, 29-37
Mt 15, 29-37
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, lì si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele.
Allora Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: «Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino». E i discepoli gli dissero: «Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?».
Gesù domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette, e pochi pesciolini». Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò e li dava ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà. Portarono via i pezzi avanzati: sette sporte piene.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
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Commenti al Vangelo di Mt 15, 29-37
Commento di Paolo Curtaz
Cum Passio
Il Dio che è nato, il Dio che ancora deve nascere e rinascere nei nostri cuori è il Dio che prova compassione davanti al dolore e alla malattia. Non il Dio asettico e indifferente che dall’alto della sua perfezione guarda annoiato il destino degli uomini e li giudica con severità. Il Dio di Gesù opera e guarisce, restituisce salute e dignità, allarga gli orizzonti, crea nuove dinamiche fra le persone. È lui che interviene, è lui che cambia, è lui che trasforma. E che chiede anche a noi un cambiamento, una conversione.
Cambiare la nostra idea su Dio, ad esempio. Da uno che risolve i problemi sfamando la folla a uno che chiede a ciascuno di noi, a tutti, di mettere in gioco ciò che siamo, ciò che abbiamo per poter sfamare la folla. Quanto è difficile credere in un Dio che ci chiede di dargli una mano! Quanto vorremmo (e così spesso facciamo) un Dio che interviene a risolvere i guai che il nostro egoismo ha provocato! Accogliamo il Dio di Gesù con serietà, smettiamola di invocare qualcuno che risolve i problemi invece di aiutarci a riconoscerli. E mettiamo sul piatto quel poco che siamo, perché la nostra generosità sfami ogni cuore.
Commento di don Antonello Iapicca
Abbracci di compassione che moltiplicano la vita
[ads2] Chi incontra il Signore resta “stupito” della sua “compassione”. Ma oggi dire “ti compatisco” suona male, perché ci è penetrato dentro l’orgoglio di questa generazione prometeica, che ha fatto dell’uomo l’unico orizzonte e delle sue possibilità l’unica misura con cui valutare e giudicare. A scuola, al cinema, negli stadi, ovunque si ode l’encomio di chi si è fatto da solo, mentre si impone la nuova fede che incita a credere in se stessi, lottando per affermarsi a qualunque costo, come se ciò fosse l’unica terapia capace di curare i complessi. Non si possono compatire i portatori di handicap, men che meno si può avere compassione di chi è schiavo degli impulsi della propria sessualità ferita dal peccato e da storie complicate, scendendo i gradini della perversione nel tripudio della “società civile”. E’ intollerante la compassione di Cristo che si piega sulla “folla” di “malati” per “abbracciare visceralmente” – secondo il significato originale di “splanchnizomai” – ogni loro sofferenza sino a farla sua; ingannati dal demonio abbiamo stravolto il significato del termine arrivando all’aberrazione di usarlo per giustificare l’omicidio perpetrato dall’eutanasia e dell’aborto. Ma, in ogni generazione, c’è una folla di poveri che ha “recato con sé” le proprie infermità “deponendo ai piedi di Gesù” i suoi “zoppi, storpi, ciechi e sordi”, ed è ancora capace di “stupore” sperimentando in Lui l’unico che si fa carico sino in fondo di ogni sofferenza; è la Chiesa, l’assemblea che riunisce gli ultimi, i peccatori, i più deboli che “non devono aspettare nessun altro” per essere salvati, perché hanno riconosciuto in quel Rabbì di Nazaret il Messia del quale erano stati profetizzati proprio i segni che ha compiuto nella loro vita. L’amore che li ha raggiunti gratuitamente li fa “glorificare il Dio di Israele” divenendo così un segno di speranza per il mondo. Per questo lo seguono “rimanendo presso di Lui” durante “tre giorni”, immagine di quelli nei quali il Signore è stato “deposto” accanto a loro nella tomba com-patendo il dolore, per risvegliarli dalla morte e salvarli dal peccato. Ma come noi, anche se guariti, “non hanno da mangiare”, perché chi è stato resuscitato e perdonato ha bisogno di “un alimento e sostegno indispensabile per poter percorrere la via della vita, finché non giungiamo, dopo aver lasciato questo mondo, alla nostra vera meta, che è il Signore” (San Gaudenzio da Brescia).
Gesù ci conosce bene e sa che nessuno è confermato in Grazia; nonostante tante esperienze del suo amore, possiamo “svenire” di fronte alle tentazioni. A Gesù non basta “guarirci”, vuole “saziarci”. E per farlo, prende del poco che trova in noi, insufficiente come lo erano per gli apostoli e Gesù, “i cinque pani e i due pesci”. Ma Lui ha un modo originale per sfamarci: come fece Elia con la vedova di Zarepta, il Signore ci chiede tutto quanto abbiamo per vivere, perché l’abbondanza scaturisce dalla totale spoliazione. Avrebbe potuto operare diversamente creando dal nulla, ma ha voluto prendere tra le sue mani la fragile opera che aveva iniziato a ricreare: per “saziarci” ci conduce nell’umiltà che supera il dubbio sollevato dei discepoli: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”. La domanda che sorge di fronte alla sproporzione tra il desiderio di infinito dell’uomo e la sua realtà di peccato e precarietà – alla quale il mondo risponde con la compassione assassina che “rimanda digiuni” coloro che non ha saputo guarire – trova in Gesù una risposta inaspettata, l’unica esatta. Lui guarda con compassione la nostra povertà: ai suoi occhi la debolezza, la malattia, le nevrosi, i complessi, il carattere, l’aspetto fisico, la nostra persona così com’è custodisce il germe di vita eterna che Egli stesso vi ha seminato e che attende solo di portare a maturazione e compimento. Noi siamo il “dove” poter trovare, in mezzo ai “deserti” dell’umanità, l’alimento necessario per “sfamare la folla” in mezzo alla quale viviamo. Basta l’umiltà che sa guardare con compassione alla propria storia e alla propria realtà, accettando i limiti e le malattie, senza difendere nulla con la scusa di essere inadatti o inesperti, per “deporre” con audacia, istante dopo istante, tutto noi stessi nelle mani del Signore. Nella sua compassione saprà trasformare la nostra vita come nell’ “eucaristia” trasforma il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue. Questo Avvento ci chiama a “sederci” nella liturgia e nella preghiera, per consegnare a Cristo le nostre ore, i nostri progetti, i nostri schemi perché siano “spezzati” dalle sue mani trapassate dai chiodi che lo crocifiggono alla nostra debolezza, e per questo moltiplicati in una fecondità che il mondo non conosce. Solo da una vita “spezzata” per amore, infatti, scaturisce una vita saziata, abbondante sino ad “avanzare sette sporte”, la pienezza capace di “sfamare” chi ancora non conosce l’amore di Dio.
Commento dei giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire, Bassano Romano (VT)
“Li deposero ai suoi piedi ed egli li guarì”.
La scena che oggi ci presenta il vangelo è fonte di grande speranza per noi credenti in Cristo, ma anche per tutta l’umanità: molta gente, una grande folla, si raduna intorno a Gesù “recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati. Li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì”. Il redentore, che si era autodefinito “medico”, adempie così la sua missione: guarisce i corpi malati, suscita la fede nei presenti, ridona la vista ai ciechi… Quest’opera divina non è mai cessata: è ancora Lui che sana corpi e anime, è ancora lui a sentire compassione di tutte le nostre miserie e di tutte le nostre infermità. Ha compassione anche della nostra fame e, come allora, è ancora lui che è miracolosamente provvido per soccorrere tutte le nostre necessità fisiche e spirituali. Dinanzi alla folla di allora, dinanzi agli affamati di oggi, egli ripete ancora: «Sento compassione di questa folla… non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada». Se però molti svengono e muoiono lungo le strade del mondo, ciò è dovuto ai nostri egoismi, alla mancanza di amore a Dio e al nostro prossimo. In continuazione ci ricorda, a noi e ai potenti del mondo, Papa Francesco che troppo spesso e per troppo tempo lasciamo gèmere nell’attesa i poveri del mondo. Dobbiamo ancora accrescere e dilatare la catena della solidarietà e godere nel costatare come anche oggi i miracoli della carità cristiana, diventino motivo di fede nell’unico vero Dio. Gesù così ha pregato per noi: “risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”.