DOMENICA «DEL BATTESIMO E DELLA COPPA» XXIX del Tempo ord. B
Marco 10,35-45 (leggi 10,32-45); Isaia 53,10-11; Salmo 32; Ebrei 4,14-16
Antifona d’Ingresso Sal 16,6.8
Io t’invoco, mio Dio: dammi risposta,
rivolgi a me l’orecchio e ascolta la mia preghiera.
Custodiscimi, o Signore, come la pupilla degli occhi,
proteggimi all’ombra delle tue ali.
[ads2]L’orante del salmo 16 (SI = supplica individuale) è consapevole che il Signore ascolta sempre i suoi servi che gridano a Lui così l’assemblea con l’Orante, nella stessa fiducia, invoca epicleticamente il Signore affinché si tenda all’ascolto (30,3; 37,3) ed esaudisca ancora una volta le suppliche dei suoi fedeli (v. 6). L’Orante/assemblea incalza con le richieste epicletiche, e chiede che il Signore lo custodisca come la «pupilla degli occhi» (v. 8), la parte più cara, proprio come il fedele deve custodire i precetti del Signore (Pr 7,2). Il Signore stesso ha avvertito che chi tocca il popolo suo, tocca la pupilla dell’occhio suo (Zacc 2,8, Volgata). La situazione ideale di tale custodia è la protezione all’ombra delle ali del Signore, nel santuario dove i Cherubini fanno la guardia adorante all’arca, e dove si ricevono le mirabili grazie del Signore (35,8; 56,2; 60,5; 62,7; 90,4; Dt 32,11), ossia la Parola della sua Legge santa, e il convito di comunione.
Canto all’Evangelo Cf Mc 10,45
Alleluia, alleluia.
Il Figlio dell’uomo è venuto per servire
e dare la propria vita in riscatto per molti.
Alleluia.
Oggi, in questa Domenica, noi fedeli accogliamo la proclamazione dell’Evangelo di Resurrezione acclamando il Signore Risorto nella sua parola umile, che rivela come Egli venne quale Servo di tutti, e insieme quale Servo sofferente, che pone la sua vita per il riscatto di tutti dalla prigionia del peccato e della morte.
Questa Domenica di questo Tempo Ordinario, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, il Signore è contemplato mentre come Profeta e Maestro divino preannuncia il Mistero ancora nascosto della sua morte e del fine divino di essa. Nel suo ministero messianico, e realizzando il programma battesimale, consegnatogli dal Padre, si notano due fasi, alle quali fa da cerniera la sua Trasfigurazione (Mc 9,2-8) preceduta e seguita da due preannunci della Passione e Resurrezione (Mc 8,31 e 9,30-31).
Cristo Signore dalla Chiesa oggi e come sempre è celebrato in modo invariabile come Risorto, poiché la Chiesa è creata dalla Resurrezione, mentre lo contempla in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. Infatti, per il titolo divino del suo Battesimo nello Spirito Santo è consacrato dal Padre suo come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.
Il brano evangelico della liturgia di oggi è incentrato sull’episodio dei figli di Zebedeo che segue immediatamente il terzo annunzio della passione, ma che la lettura liturgica non riporta ma è prevista altresì una forma breve 10,42-45 (sic!). Sono appena tre versetti, che possono svolgere un servizio significante nella lettura evangelica, che noi abbiamo inserito nella lettura introduttiva, i quali ci aiutano anche a contestualizzare meglio l’episodio dei due fratelli e la reazione degli altri dieci discepoli. Per la terza volta Gesù annuncia la sua passione. Egli sta delineando con caratteri sempre più marcati il profilo del Messia-Servo che costituisce la sua identità messianica. Ma l’incomprensione dei discepoli persiste; e, come dopo il primo annuncio ci fu la contestazione di Pietro (8,31-33) e dopo il secondo la discussione dei discepoli che si chiedevano chi fosse il più grande fra loro (9,30-37), al terzo annunzio fa seguito la domanda dei figli di Zebedeo che chiedono di sedere con Gesù nella gloria del regno.
Vanamente Isaia aveva profetato che il servo del Signore sarebbe stato uomo dei dolori, si sarebbe addossato le colpe degli uomini e avrebbe giustificato molti (Cf. la lett). La prima lettura è ispirata ai riti ebraici dell’espiazione: una vittima viene immolata per i peccati del popolo, sacrificio che sarà sostituito una volta per sempre da quello del Cristo. Chiunque vuole offrire la sua vita, deve accettare di passare attraverso la sofferenza. Se la chiesa vuol essere una madre per l’umanità, se vuol dare al Cristo una posterità, essa deve vivere il mistero pasquale e dimenticare se stessa, affinché gli uomini si ricordino di Dio.
La lettera agli Ebrei ci ricorda con forza che è l’obbedienza a salvarci. Il Signore che ci ha salvato non ha niente di straordinario: è un uomo che soffre, divorato dall’angoscia, torturato e deriso, provato in tutto come e più di noi. Non solo egli non ha evitato questa vergogna, ma l’ha voluta e accettata. Dinanzi alle sofferenze del Cristo, nessun povero arrossisce delle proprie miserie. Gesù insegna che la salvezza non consiste nel benessere, nel progresso tecnico e neppure nell’elevarsi al di sopra della condizione umana; ma piuttosto nell’accettare tale condizione, lottando per far sbocciare un’umanità capace di amare.
La pagina evangelica è ancora un capovolgimento delle prospettive del mondo. Il buon senso ci fa presentire che il successo viene solo alla fine di una lotta. Gli apostoli comprendono in questo modo le parole di Gesù sul suo destino di sofferenza: dopo una fase difficile, egli «sfonderà» e il regno di Dio non sarà più un sogno. Secondo Gesù invece, le persone «arrivate» non trasformano assolutamente nulla. Al contrario, coloro che cambiano il mondo sono proprio gli uomini continuamente contraddetti e minacciati, come lui; è giocando la propria pelle che si instaura il regno di Dio. Il destino del messia è quello del servo sofferente, che offre la sua vita per gli altri. Solo chi gli somiglia è grande e viene riconosciuto come capo nel regno di Dio.
L’episodio evangelico, riferito anche da Mt 20,20-28 ma non da Luca, data forse la figura meschina che vi fanno due importanti personaggi della prima Chiesa, ha tutte le probabilità di essere storico, fondato sul ricordo dei litigi e dell’arrivismo dei dodici fino agli ultimi giorni precedenti l’arresto di Gesù. Esso dimostra ancora una volta la propensione degli apostoli a condividere in pieno il carattere temporale e mondano delle attese messianiche coltivate dai giudei del tempo.
La versione riportata da Marco è per i due figli di Zebedeo meno onorifica che in Matteo, il quale pone la richiesta di onorificenze in bocca alla loro madre. È un particolare che non cambia e neppure altera il contenuto della domanda; semmai l’intervento di questa madre conferma che intorno a Gesù tutt’altro si pensava fuorché alla sua prossima fine.
La Chiesa primitiva aveva una grande stima dei due apostoli (Cf Gal 2,9; sono sempre chiamati ad essere presenti nei momenti più importanti della vita di Gesù Cf 5,37; 9,2 14,33s). Quindi, se nonostante questo l’evangelista ha voluto riferirlo, se ne deve concludere che non c’è motivo di dubitare della sua storicità.
Simboli chiave del brano sono il calice ed il battesimo.
Esaminiamo il brano
- vv. 32-34 – Rispetto alle due precedenti predizioni la terza si presenta molto più particolareggiata, addentrandosi in particolari che troveranno piena corrispondenza nella storia della passione. Come le altre, però, essa è diretta ai soli discepoli, gli unici che sono in grado, almeno parzialmente, di comprenderne la portata in relazione al mistero messianico impersonato da Gesù.
- 32 – «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme»: La frase iniziale ripresenta all’attenzione del lettore il tema del «viaggio» (vedi 10,1.17). Gerusalemme è il luogo dove le tre predizioni della passione troveranno adempimento. Nel racconto di Marco questa sarà l’unica visita di Gesù a Gerusalemme.
«salire a Gerusalemme»: l’espressione, molto comune nella Bibbia, è dettata dalla posizione geografica di Gerusalemme, tra le più elevate di tutta la Palestina (Cf. Lc 2,41-42; 19,28; Gv 2,13; 5,1). La comitiva apostolica preceduta da Gesù, ha ormai imboccato la strada che da Gerico (-300 mt) sale a Gerusalemme (+600 mt). I Salmi 120-134 erano usati dai pellegrini che si recavano nella Città Santa e perciò sono chiamati «canti delle ascensioni». Sulla bocca di Gesù quel «saliamo» (anabaínō) ha non solo un significato geografico ma teologico, come in Giovanni, perché si tratta di salire sulla croce e quindi in cielo (Cf. Gv 3,13). E di ciò Gesù ne aveva piena coscienza, come appare dall’annunzio; egli era ben deciso a raggiungere Gerusalemme dove la passione dovrà compiersi.
«Gesù camminava davanti a loro»: L’uso del participio proágōn («precedere, andare davanti») fa risaltare la preminenza di Gesù tra i viaggiatori e la sua volontaria accettazione della sorte che lo aspetta a Gerusalemme.
«essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti»: Il secondo gruppo sembra essere costituito dai discepoli (akolouthoûntes). Ma chi sono quelli del primo gruppo: accompagnatori, gente del posto o membri di un più ampio gruppo di discepoli di Gesù (oltre ai Dodici)? E perché erano sgomenti?
«Presi di nuovo in disparte i Dodici»: Anche le prime due predizioni della passione erano riservate ai Dodici (vedi 8,27-33; 9,31-32). In tutti e tre i casi i discepoli non capiscono niente e dimostrano la loro mancanza di comprensione con le loro risposte fuori luogo.
«si mise a dir loro quello che stava per accadergli»: La terza predizione della passione è molto più dettagliata delle prime due. Corrisponde così bene al racconto marciano della passione da indurre a pensare che Marco l’abbia composta (o quantomeno completata) alla luce del racconto della passione.
- 35-37 – I due fratelli con una intraprendenza degna del loro soprannome di figli del tuono (Cf. Mc 3,17), domandano di avere i primi posti, di essere primi ministri nel regno instaurato dal messia glorioso. In tutto l’evangelo questi due insieme a Pietro costituiscono un circolo più intimo tra i Dodici (vedi 5,37; 9,2; 14,33; anche 1,29). Questo è l’unico caso in cui agiscono da soli.
«concedici»: l’imperativo aoristo sottolinea che il posto è ancora libero: si decide dunque in questo momento chi lo debba occupare. I discepoli hanno assunto un atteggiamento di “rimandare”, di non voler comprendere, di chiudere il cuore dell’intelligenza, insomma di non tenere conto delle Parole del Signore e di non chiedergliene la spiegazione, sperando che tutto passi e si risolva per il meglio. E quale è il meglio per i buoni discepoli? Che il Signore, che in modo ripetuto e abbondante ha mostrato di possedere i poteri del Messia atteso, inauguri finalmente il regno terreno di pace e di prosperità. L’illusione di questo regno liberatore resta perfino dopo la Resurrezione (At 1,6). Solo lo Spirito Santo a Pentecoste farà comprendere ai discepoli che regnò dal “legno” il Signore.
«sedere alla destra»: con le loro parole i due fratelli reclamano onore e potenza. “Sedere alla destra” di qualcuno, infatti, significa porsi subito dopo di lui e partecipare alla sua autorità (Cf. 12,36; 14,62; 15,27; ecc.), un termine tecnico per indicare il potere e il suo esercizio (cf. Sal 109,1 ). Non essendoci possibilità che due occupino il medesimo posto, è spontaneo che un terzo debba contentarsi di «sedere alla sinistra».
«alla tua sinistra»: Marco sembra usare indifferentemente due diversi termini greci per «sinistra» (aristeros nel v. 37 e euónymos nel v. 40). Una curiosa coincidenza: in 15,27 dove Gesù viene crocifisso tra due banditi (testai), «uno a destra e uno alla sua sinistra (euónymos)».
- 38 – «Non sapete ciò che domandate»: il rimprovero, più che l’oggetto della richiesta (pur sbagliato perché chiediamo sempre cose sulla linea dei nostri desideri e non su quella delle nostre vere esigenze), ha di mira l’incapacità dei due fratelli a comprendere che, tanto per Gesù quanto per coloro che vorranno seguirlo, il cammino per la gloria passa attraverso la sofferenza e il dolore. Anche noi come i due discepoli incriminati ricorriamo spesso (sia tra noi che con Dio) allo stesso infantile ricatto: «Noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Non è forse vero che, nella preghiera dei fedeli, collochiamo l’«Ascoltaci, o Signore» subito all’inizio, prima ancora dì formulare le nostre «terribili» richieste ? Mettiamo le mani avanti; ci devi dire di sì. Una volta strappata la promessa dell’esaudimento (almeno, così ci illudiamo) passiamo a illustrare ciò che abbiamo stabilito che il Signore debba darci, e in dettaglio, specificando perfino i modi e i tempi delle «prestazioni» da parte di Dio! Dovremmo, invece, avere la discrezione di precisare: Ascoltaci, se le nostre preghiere non sono sciocche. Ascoltaci, se pensi che le nostre preghiere siano legittime. Ascoltaci, se non abbiamo sbagliato la domanda… Gesù ha infinita bontà, che è anche magnanimità e sopportazione, e anche questa volta non si adira e non inveisce contro tale presunzione. Invece prende l’occasione di insegnare ancora una volta quale debba essere l’attitudine del discepolo: nell’essere schiavo e servo degli altri. Perciò anzitutto dichiara che neppure sanno quello che chiedono.
«il calice»: il calice da bere è un’immagine molto usata dalla tradizione biblica, tanto da assumere un valore relativamente ambiguo. C’è, infatti, il calice della gioia, della “consolazione” offerta alle persone in lutto dopo i funerali (Cf. Ger 16,7), dell’ospitalità (Sal 23,5), della salvezza (Sal 16,5; 116,13), della benedizione (1 Cor 10,16) e così via. Ma c’è anche il calice dell’ira di Dio, espressione della prova lacerante, della sofferenza e del giudizio riservato agli empi (Sal 75,9), al popolo infedele (Is 51,17, Ez 23,31-34), alle nazioni peccatrici della terra (Ger 25,15ss). Cristo, che assume su di sé il peccato dell’umanità nella sua passione e morte, beve questo calice terribile. La coppa che egli farà circolare tra gli amici nella cena di addio, prima della morte, richiamerà questo suo impegno di solidarietà con l’umanità peccatrice e nella preghiera del Getsemani questo destino di morte violenta con i peccatori e per i peccatori gli si presenterà in tutta la sua drammaticità al punto che egli grida al Padre: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (14,36). Ma alla fine la sua scelta non ha esitazioni; a Pietro che con la spada tenta di impedire la sua cattura nel Getsemani, replica: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11).
«il battesimo»: questa seconda immagine è di uso meno comune, ma non per questo meno efficace. Per comprenderla appieno, si deve tener presente in primo luogo che il verbo da cui deriva (báptisma) significa «immergersi» e anche «andare a fondo»; e poiché nell’A.T. si usava collegare le sofferenze allo stato di chi si trova sommerso da una grande quantità di acqua o nel fondo del mare (Cf Sal 42,8; 69,2; 88,8; Is 43,2a), è chiaro che «battesimo» qui significa essere sopraffatti dal dolore o immersi completamente nelle sofferenze (Cf. Lc 12,50). Tenendo conto di questa risonanza delle due immagini si comprende facilmente come le prime comunità cristiane abbiano potuto esprimere la loro partecipazione al destino di Gesù mediante i due gesti sacramentali del battesimo e del calice, Cf. Rm 6,3; 1 Cor 10,16.
Fa sensazione che le due espressioni «io bevo, io sono battezzato» non stanno al futuro, ma al presente durativo, in greco pínō e báptisma. Comprendiamo così che dal battesimo nello Spirito fino alla Croce, la Vita del Signore è un permanente bere la Coppa del Getsemani, ed un permanente essere «travolto dalle grandi acque», il cui segno ultimo è la Croce.
- 39 – La risposta dei due fratelli è pronta, ma anche la precisazione di Gesù giunge sicura ed inequivocabile. Gesù riconosce loro la retta intenzione e la effettiva disponibilità alla via della Croce: Giacomo condivise fisicamente la sorte del Maestro subendo il martirio sotto Erode Agrippa I (At 12,2), Giovanni probabilmente morì in tarda vecchiaia (Gv 21,23) di morte naturale, anche lui però non senza aver sofferto l’esilio e probabilmente anche il martirio.
- 40 – «è per coloro per i quali è stato preparato»: la frase suona molto dura. Come appare dal confronto con Mt 20,23, che aggiunge «dal Padre mio», con la costruzione passiva l’evangelista, secondo il suo costume (Cf. 4,11.24-25; 8,12; 9,31), ha inteso evitare di nominare direttamente il nome di Dio. In questo passivo è espressa la libera azione di Dio; anche Gesù, nel suo compito storico, si affida totalmente alla fedeltà e libertà di Dio (Cf. 13,32). È chiaro che Gesù, rifiutando di accettare la richiesta di Giacomo e Giovanni e rimettendo ogni decisione al Padre, viene ad affermare che la concessione della gloria del regno celeste non può fondarsi sulla propria presunzione, ma deve essere concepita come una libera donazione che Dio fa secondo la sua infinita sapienza, giustizia e liberalità, senza mai farsi vincere in generosità e senza venir meno mai alle sue promesse.
- 41 – «gli altri dieci si sdegnarono»: non perché fossero migliori dei due fratelli (Cf. 9,34), si erano solo risentiti dell’intraprendenza che questi avevano mostrato. Si sentivano defraudati. La loro è una reazione ben diversa da quella dialogante di Gesù; esprime infatti una intolleranza che li manifesta più ambiziosi di Giacomo e Giovanni.
- 42 – «i loro grandi»: Con questo richiamo all’esperienza politica Gesù non intende negare la legittimità delle autorità costituite (Cf. Gv 19,11), ma soltanto far costatare una realtà che era sotto gli occhi di tutti. Per la sola Palestina bastavano gli esempi recenti di Erode il Grande, di suo figlio Antipa (Cf. 6,17-29 dove fa decapitare Giovanni Battista) e dello stesso procuratore romano Ponzio Pilato (15,1).
- 43-44 – Il proseguire della discussione dà a Gesù l’occasione di precisare il significato e il valore dei ruoli nella comunità cristiana, riproponendo un detto era già stato anticipato in altro contesto (Cf. 9,35).
Con esso non si condanna di aspirare ai posti di responsabilità né si insegna paradossalmente che per raggiungere tali posti bisogna farsi servi e schiavi di tutti (pántōn = di tutti, senza articolo sottolinea qualunque ambiente in cui si trovi, senza distinzione di categorie; doûlos = schiavo, che non decide per se), ma più semplicemente si vuole dire che nell’ambito della comunità cristiana i chiamati al comando devono adempiere al loro mandato con spirito di servizio (diakoneo), facendosi tutto a tutti e guardando solo al bene degli altri (Cf. 1 Cor 9,19-23; 2 Cor 4,5).
- 45 – «Il Figlio dell’uomo infatti..»: Il titolo «Figlio dell’uomo» compare in tutte e tre le predizioni della passione (8,31; 9,31; 10,33-34). Questo versetto non solo sintetizza le tre predizioni, ma ne dà anche una interpretazione teologica presentando Gesù nella veste di servitore (diakonos). Gesù è il più chiaro esempio dell’ideale da lui proposto del capo-servitore («non per farsi servire, ma per servire»). L’esempio personale di Gesù si presenta dunque come prova di quanto insegnato prima e allo stesso tempo come norma per tutti coloro che vogliono seguirlo. Paolo così scrisse nella lettera ai Galati:«Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo; perciò non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni agli altri» (5,26; 6,14).
«dare la propria vita in riscatto per molti»: Quest’ultima frase, benché non riferisca alla lettera nessun testo dell’A.T., esprime un pensiero che è proprio di Is 53 (I lett), dove si canta la morte del Servo di Jahwe per la salvezza di tutte le genti.
«in riscatto»: Il termine lytron («riscatto») si riferisce al prezzo pagato per liberare un prigioniero o al prezzo pagato da uno schiavo per riacquistare la libertà. Per l’uso teologico del termine si veda 4 Mac[1] 17,21 dove il martirio della madre e dei suoi sette figli (vedi 2 Maccabei 7) è interpretato nel senso di un sacrificio di espiazione e un riscatto: «Il tiranno fu punito e la patria purificata – essendo essi diventati, per così dire, un riscatto per i peccati della nostra nazione». Il termine greco derivato da esso apolytrósis è usato di frequente nelle epistole del NT (vedi Rm 3,24; 8,23; 1 Cor 1,30; Ef 1,7.14; 4,30; Eb 9,15; 11,35) per descrivere gli effetti della morte e risurrezione di Gesù. Come in 10,28-31 dove Gesù ha presentato ai suoi seguaci una visione controcorrente dell’ethos del tempo, così ora impartisce loro una lezione sull’esercizio del potere. I governanti pagani spadroneggiano sui loro sudditi e i «potenti» tra loro fanno pesare la loro autorità. Il potere pagano (ossia, romano) era esercitato principalmente con la forza, l’intimidazione e attraverso una rete clientelare che mirava a garantire una fedeltà assoluta all’imperatore. Ma il modo in cui il potere è mantenuto in quel mondo di governanti e di sudditi è anàtema per i veri seguaci di Gesù. Il suo insegnamento sulla preminenza servitrice che egli esemplifica è l’opposto di qualsiasi fascino per il potere o la precedenza nella vita della Chiesa. La Chiesa di qualsiasi epoca deve guardarsi bene dall’adottare quelle oppressive strutture di potere e di prestigio che caratterizzano i governanti di questo mondo, e deve imitare il genere di preminenza servitrice praticata da Gesù, il quale ha dato la propria vita perché gli altri potessero essere liberi. Confidiamo quindi nel Signore per ottenere da lui misericordia, grazia e aiuto, nelle debolezze e infedeltà della vita cristiana; il Cristo, provato in ogni cosa come noi è capace di compatire le nostre infermità (2a lett.).
“La nostra posizione, nella chiesa, in qualche modo è simile a quella di Giacomo e di Giovanni. …Al servizio del regno, siamo uomini e donne impegnati da una parola data, indubbiamente generosa, ma di cui non sospettiamo tutte le conseguenze: a poco a poco, lungo le diverse tappe della nostra vita spirituale, scopriremo che abbiamo sempre molto da imparare sul suo reale significato. «Voi non sapete ciò che domandate». Anche noi non sapevamo quello che chiedevamo quando un giorno abbiamo risposto alla chiamata del Cristo. … Mettendoci alla sua sequela, forse credevamo che l’oggetto della nostra donazione fosse la conversione della nostra volontà, pensando che si trattasse semplicemente di volere e desiderare beni di un ordine diverso rispetto a quelli a cui può tendere una volontà non ancora convertita. Invece scopriamo a poco a poco, se appena non siamo del tutto infedeli alla grazia della nostra chiamata, alla sua misteriosa logica, che l’oggetto della nostra donazione siamo noi stessi, nel senso che dobbiamo accettare che un altro in noi sia signore e maestro della nostra volontà. Si tratta di rinunciare, una volta per tutte, ad essere noi gli artefici, i soggetti della nostra santità.” (C. Pasquier).
II Colletta:
Dio della pace e del perdono,
tu ci hai dato in Cristo il sommo sacerdote
che è entrato nel santuario dei cieli
in forza dell’unico sacrificio di espiazione;
concedi a tutti noi di trovare grazia davanti a te,
perché possiamo condividere fino in fondo
il calice della tua volontà
e partecipare pienamente alla morte redentrice del tuo Figlio.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
lunedì 12 ottobre 2015 – Abbazia Santa Maria di Pulsano
[1]È un libro compreso tra gli Apocrifi dell’Antico Testamento, contenuto come appendice nella traduzione greca della Bibbia dei Settanta. È di autore ignoto, anche se da alcuni Padri della Chiesa viene attribuito a Giuseppe Flavio. È stato scritto in greco verso il termine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C.; si presenta come una omelia che illustra il primato della pia ragione sulle passioni ricorrendo agli esempi offerti dal martirio di Eleazaro e dei sette fratelli narrato nel Secondo libro dei Maccabei.