Letture patristiche del 20 settembre 2015 – Comunità monastica di Pulsano

Letture patristiche

DOMENICA «della seconda predizione della passione e resurrezione»

Marco 9,30-37; Sapienza 2,12.17-20; Salmo 53; Giacomo 3,16-4,3

  1. «Imparate da me che sono mite»

Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell`uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»” (Mc 9,30-31).

«Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Cosí li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo” (Mc 9,32).

Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall`amore che essi nutrivano per il Salvatore, questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il piú grande“(Mc 9,33-34).

Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (cf. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l`ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me…»“(Mc 9,35-37).

[ads2]«Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell`umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, cosí dapprima li esorta col semplice comandamento dell`umiltà, e li ammaestra subito dopo con l`esempio dell`innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: “Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me”, o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere piú grandi per rendere cosí un atto d`onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: “La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà” (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch`essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l`aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all`apparenza, aggiunge:

…«E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato», volendo cosí convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre. (Beda il Vener., In Evang. Marc., 3, 9, 28-37)

  1. Umiltà e grandezza del Verbo incarnato

Non è ovviamente, senza motivo il fatto che i tre magi, condotti dallo splendore di una nuova stella ad adorare Gesú, non lo abbiano visto in procinto di comandare ai demoni, di risuscitare i morti, di ridare la vista ai ciechi, o la deambulazione agli storpi, o la parola ai muti; né in procinto di compiere qualche altro gesto rivelatore della potenza divina; no, videro un bimbo silenzioso, tranquillo, affidato alle cure di sua madre; in lui non appariva alcun segno esterno del suo potere, offrendo invece alla vista un solo grande prodigio: la sua umiltà. Cosí, lo spettacolo stesso di quel santo bambino al quale Dio, il Figlio di Dio, si era unito, impartiva all`occhio quell`insegnamento che piú tardi doveva essere proclamato all`orecchio, e quanto non proferiva ancora il suono della sua voce, lo insegnava già il semplice fatto di guardarlo. Tutta la vittoria del Salvatore, infatti – vittoria che ha soggiogato il demonio e il mondo -, è iniziata dall`umiltà ed è stata consumata nell`umiltà. Egli ha inaugurato nella persecuzione i suoi giorni predestinati, e nella persecuzione li ha portati a termine; al bambino non è mancata la sofferenza, e a colui che era chiamato a soffrire non è mancata la dolcezza dell`infanzia; infatti, il Figlio unico di Dio ha accettato, con un unico atto di abbassamento della sua maestà, tanto di nascere volontariamente come uomo che di poter essere ucciso dagli uomini.

Se dunque Dio onnipotente, per il privilegio della sua umiltà, ha reso buona la nostra causa sí perversa, e ha distrutto la morte e l`autore della morte (cf. 1Tm 1,10; Eb 2,14), non rifiutando quanto di sofferenze gli procuravano i suoi persecutori, sopportando anzi con suprema dolcezza e per obbedienza al Padre le crudeltà di coloro che si accanivano contro di lui; quanto noi stessi dovremmo essere umili, quanto pazienti, dal momento che, se qualche prova ci sopraggiunge, di certo mai la subiamo senza averla meritata! Chi si potrà vantare di avere il cuore puro o di essere esente da peccato? (cf. Pr 20,9). E, come afferma san Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, mentiamo e la verità non è in noi” (1Gv 1,8).

Chi si troverà sí indenne da colpa che la giustizia non abbia niente da rimproverargli in lui, o che la misericordia non debba perdonargli? Per cui, o carissimi, tutta la pratica della sapienza cristiana non consiste né in abbondanza di parole, né in abilità nel discutere, né in appetiti di lode e di gloria, bensí nella sincera e volontaria umiltà che il Signore Gesú Cristo ha scelto e insegnato con ogni mezzo, dal seno materno fino al supplizio della croce. Infatti, un giorno che i suoi discepoli disputavano, come dice l`evangelista, per stabilire “chi, tra di loro dovesse essere il più grande nel regno dei cieli, egli chiamò a sé un bambino e postolo in mezzo a loro, disse: In verità, in verità vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo bambino, sarà il piú grande nel regno dei cieli” (Mt 18,1-4). Cristo ama l`infanzia che egli ha dapprima vissuto sia nell`anima che nel corpo. Cristo ama l`infanzia, maestra di umiltà, regola di innocenza, modello di dolcezza. Cristo ama l`infanzia e verso di lei orienta il modo di agire degli adulti; verso di lei riconduce gli anziani; egli attrae al suo esempio personale coloro che egli innalza al regno eterno.

Se però vogliamo divenire capaci di capire come sia possibile pervenire ad una conversione cosí mirabile, e per quali trasformazioni si debba ritornare allo stato di infanzia, lasciamo che sia san Paolo ad istruirci, con le parole: “Non siate come bambini nel modo di giudicare, siate invece bambini in fatto di malizia” (1Cor 14,20). Non si tratta perciò per noi di ritornare ai giochi dell`infanzia, né alle goffaggini degli inizi, bensí di riprendere da essa una cosa che si addice benissimo anche agli anni della maturità, cioè che svaniscano senza indugi le nostre agitazioni interiori e che ritroviamo rapidamente la pace, che non serbiamo alcun ricordo delle offese; non siamo minimamente avidi di dignità; che amiamo stare insieme, serbando una uguaglianza secondo natura. E` un gran bene, infatti, non saper nuocere e non avere il gusto del male; infatti, far torto e restituire il torto, costituisce la sapienza di questo mondo; al contrario, non ricambiare a nessuno male per male (cf. Rm 12,17), è quello spirito d`infanzia, pieno di uguaglianza, proprio di un`anima cristiana. E` a questo tipo di somiglianza con i bambini che ci invita, o carissimi, il mistero della festa di oggi; ed è questa forma di umiltà che vi insegna il Salvatore bambino adorato dai magi. Per mostrare quale gloria egli prepara per i suoi imitatori, egli ha consacrato con il martirio dei neonati insieme a lui; nati a Betlemme come Cristo, essi sono stati in tal modo associati a lui sia nell`età che nella passione.

Amino dunque i fedeli l`umiltà ed evitino ogni orgoglio; preferisca ciascuno a sé il proprio prossimo (cf. 1Cor 4,6) e che “nessuno ricerchi il proprio interesse, bensí quello degli altri” (1Cor 10,24); in tal modo, quando tutti saranno compenetrati da sentimenti di benevolenza, piú non esisterà il virus dell`invidia: infatti, “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). E` quanto attesta lo stesso nostro Signore Gesú Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

(Leone Magno, Sermo VII, in Epiphan., 2-4)

  1. I danni dell`invidia e della gelosia per i singoli e per la Chiesa

Molto si estende la rovina, molteplice e tristemente feconda, della gelosia. E` la radice di tutti i mali, la sorgente delle stragi, il vivaio dei delitti, la sostanza delle colpe. Da lei sorge l`odio, da lei procede l`animosità. La gelosia infiamma l`avarizia, perché non può essere contento del suo, chi vede l`altro piú ricco di sé. La gelosia eccita l`ambizione, se si vede qualcuno maggiormente onorato. Quando la gelosia accieca il nostro senso e soggioga al suo potere l`intimo della nostra mente, si disprezza il timore di Dio, si trascura l`insegnamento di Cristo, non si pensa al giorno del giudizio. La superbia si gonfia, la crudeltà si esacerba, la perfidia si erge, l`impazienza si scuote, furoreggia la discordia e ferve l`ira; e chi è in potere altrui non può piú reggere e reprimere sé. Si rompe cosí il vincolo della pace donataci dal Signore, si viola la carità fraterna, si adultera la verità, si scinde l`unità, ci si getta nell`eresia e nello scisma, si disprezzano i sacerdoti, si invidiano i vescovi -lamentandosi di non essere stati nominati al posto loro – e si sdegna di riconoscere i propri superiori. Cosí ricalcitra e si ribella chi è superbo per l`invidia e pervertito dalla gelosia: chi è nemico, per animosità e livore, non dell`uomo, ma della sua dignità.

Ma quale tignola per l`anima, quale muffa per il pensiero, quale ruggine per il cuore, invidiare in altrui, o la sua virtù, o la sua felicità, odiare cioè in lui o i suoi meriti, o i benefici divini, convertire in male proprio il bene altrui, esser tormentati dalla prosperità dei ricchi, far propria pena della gloria degli altri, e radunare quasi nel proprio tetto i propri carnefici, farsi cioè torturare dai propri pensieri e dai propri sensi, lasciarsi da loro lacerare con sofferenze profonde, strappare a brani l`intimo del cuore con le unghie del rancore. In tale stato non si può gustare cibo o apprezzare bevanda: e si sospira sempre, si geme e ci si duole; mai gli invidiosi depongono il loro livore, giorno e notte il loro petto è internamente lacerato senza posa. Gli altri mali hanno un termine e ogni sentimento delittuoso, una volta compiuto il delitto, si placa… ma l`invidia non ha termine: è un male sempre vivo, un peccato senza fine; piú chi è oggetto di invidia avanza e ha successo, piú l`invidioso arde in un maggiore fuoco di gelosia…

Perciò il Signore, preoccupandosi di questo pericolo e che nessuno incappasse nel laccio mortale dell`invidia contro i fratelli, interrogato dai suoi discepoli chi tra loro fosse maggiore, disse: “Chi sarà il minimo fra tutti voi, costui sarà grande” (Lc 9,48).

(Cipriano di Cartagine, De zelo et livore, 6-7)

  1. Il vero significato di bambino per Gesú

Anche noi, sicuramente, andiamo fieri di un termine che evoca nel bambino i beni piú belli e piú perfetti che possediamo in questa vita, quelli che siamo soliti definire “educazione e pedagogia“. Per pedagogia intendiamo una buona formazione che porti qualitativamente dall`infanzia alla virtù. Il Signore, d`altronde, ci ha indicato chiaramente cosa bisognasse intendere per “bambino. Essendo sorta una disputa tra gli apostoli per stabilire chi di loro fosse il piú grande, Gesú pose in mezzo a loro un bambino e disse: Chi si farà come questo bambino sarà il piti grande nel regno dei cieli” (Mt 18,1-4; Lc 9,46-48; Mc 9,33-37).

Non si serve del termine “bambino” pensando all`età in cui si manca di intelligenza, come certuni hanno ritenuto. E quando dice: “Se non diverrete come questi bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3), non bisogna interpretarlo scioccamente.

In effetti, noi non siamo piú dei bambini che camminano carponi, non ci trasciniamo piú sul suolo come prima, alla maniera di serpenti rotolandoci con tutto il nostro corpo nei desideri irragionevoli; al contrario, tesi verso l`alto con la nostra intelligenza, separati dal mondo e dai peccati, toccando appena la terra con la punta del piede, pur apparendo presenti in questo mondo, conseguiamo la santa sapienza. Questa, però, sembra una follia (cf. 1Cor 1,18-22) a coloro che sono orientati alla malvagità.

Sono davvero dei bambini coloro che riconoscono Dio come unico Padre, semplici, piccolini, puri…

Nei confronti di coloro che sono progrediti nel Logos, (il Signore) ha fatto una simile dichiarazione; ordina loro di disprezzare i fastidi di quaggiú e di fissare l`attenzione solamente sul Padre, imitando i bambini.

Ecco perché dice loro subito dopo: “Non datevi pensiero per il domani, perché ad ogni giorno basta il suo affanno” (Mt 6,34). Egli intende prescrivere in tal modo di deporre le preoccupazioni di questa vita per affezionarsi al Padre solamente. E chi mette in pratica questo precetto è realmente un piccolino e un bambino, ad un tempo per Dio e per il mondo: questo lo considera nell`errore; quegli lo ama. Ma poiché, come dice la Scrittura, vi è un solo maestro, che è nei cieli (cf. Mt 23,8), in accordo con ciò si potrà dire con ragione che tutti gli abitanti della terra sono suoi discepoli. E tale è in effetti la verità: la perfezione appartiene al Signore, che non cessa di insegnare, fintanto che noi conserviamo il carattere di bambini e di piccolini e non cessiamo di apprendere.

(Clemente di Ales., Paedagogus, V, 16, 1 – 17, 3)

  1. Con l’umiltà si arriva al regno, con la semplicità si entra in cielo

Se avete ascoltato con attenzione la lettura dell’evangelo potete comprendere quale reverenza sia dovuta ai leviti e sacerdoti di Dio, e con quale umiltà gii stessi chierici debbano prevenirsi a vicenda nel rendersi onore; infatti ai discepoli che chiedevano chi di loro sarebbe stato il più grande nel regno dei cieli, il Signore, dopo aver collocato un fanciullo davanti a tutti,disse: «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). Di qui comprendiamo che si perviene al regno con l’umiltà e con la semplicità si entra in cielo.

Chi dunque desidera raggiungere le altezze della divinità, cerchi gli abbassamenti dell’umiltà; chi vuole precedere il fratello nel regno, prima lo preceda nell’onorario, come dice l’Apostolo: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10); lo superi pure nel servirlo, per poterlo superare in santità. Se infatti il fratello non ti ha offeso, gli devi rispetto e amore; e se per caso ti ha offeso, onoralo ancora di più per conquistarlo. Questa è infatti l’idea centrale dei cristianesimo: che ricambiamo con l’amore chi ci ama, con la pazienza chi ci offende. Chi dunque sarà stato più paziente nel sopportare le offese, sarà maggiore nel regno dei cieli. Non si giunge al regno con la superbia, le ricchezze e la prepotenza, ma con l’umiltà e la povertà e la dolcezza. «Quanto è angusta la via che conduce alla vita!» (Mt 7,14).

Chiunque perciò sarà gonfio per gli onori e carico di ricchezze, come un giumento impacciato e troppo carico non potrà passare per la via angusta del regno. E proprio quando crederà di essere arrivato, la porta troppo stretta gli impedirà di entrare,e sarà obbligato a tornare indietro. E così angusta infatti per un ricco la porta del cielo, quanto per un cammello la cruna di un ago, come dice il Signore: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,24).

Dai «Discorsi» di san Massimo di Torino, vescovo.

lunedì 14 settembre 2015
Abbazia Santa Maria di Pulsano

Le letture patristiche sono tratte dalla dal CD-Rom “La Bibbia e i Padri della Chiesa”, Ed. Messaggero –Padova, distribuito da Unitelm, 1995.

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