Commento al Vangelo del 22 marzo 2015 – Paolo Curtaz

­Quinta domenica di Quaresima

Ger 31,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12, 20-33

Ci guardi e splendi

Ci è necessario il deserto.

Ci è necessario per ritrovare noi stessi, la nostra anima, per scoprirci credenti.

Per ricordarci che siamo uomini, non macchine, né consumatori necessari ad un mostruoso sistema che ci misura dal nostro portafoglio.

Il deserto ci è necessario per lasciar uscire da dentro il grido che anela a Dio.

Come il cercatore di Dio e cantante Lucio Dalla che, in un mondo politicamente corretto in cui nessuno professa la fede pubblicamente, in cui ci si vergogna di dirsi credenti, osava cantare:

Tra mille mondi te ne vai e splendi
O appeso in croce in un garage
Io non ho dubbi tu esisti e splendi
Con quel viso da ragazzo con la barba senza età
Ci guardi e splendi
Di cercarti io non smetterò
Abbiamo tutti voglia di parlarti
Mi senti? Mi senti?

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E cerchiamolo in noi stessi, Dio, ritagliando degli spazi di silenzio e di preghiera, perché, come dice bene Geremia, ora la legge è scritta nei cuori, ora il percorso è inscritto in noi. Non abbiamo bisogno che altri ce lo indichino.

Gesù è diventato uomo, fino in fondo, sul serio, perché potessimo incontrarlo e farci accompagnare verso il Padre.

Vogliamo vedere Gesù

Vogliono vedere Gesù, come noi.

Sono i greci, i pagani che simpatizzano per religione ebraica, che salgono a Gerusalemme per avere l’illuminazione, per capire, per credere. Qualcuno ha parlato loro del Nazareno e vogliono incontrarlo. Non c’è superficialità nella loro richiesta, solo sincero desiderio.

E approfittano di Andrea e Filippo, il cui nome tradisce una provenienza straniera, per avere un incontro.

Anche a noi accade così: è la curiosità a spingerci verso Dio. Crediamo di conoscerlo da tempo e, invece, non lo abbiamo mai veramente incontrato. Abbiamo la testa piena di parole e di idee su Dio e corriamo il rischio di passare l’intera vita a credere di credere.

La fede è il desiderio di un incontro, di quell’incontro.

Vogliamo vedere Gesù, anche noi, ma questo incontro avviene solo attraverso la mediazione, a volte povera e affaticata, di uomini come Filippo e Andrea.

Sono i discepoli, ancora oggi, a farci incontrare il Signore, a indicarcelo.

E ciò che Gesù dice ai greci è sconcertante, è una nuova logica: la logica del dono di sé.

Il chicco

Sono i greci ad ascoltare la difficile Parola del Signore.

Erano stati i greci a teorizzare l’esistenza dei migliori chiamati a comandare.

Sono i greci di oggi, le banche, il mercato, ad esigere che siano i vincenti a predominare.

Sono i greci reali, un popolo piagato e sanguinante, impoverito e sbandato, ad essere travolto dai migliori.

Vincono i forti. Vincono i migliori. Vincono gli spregiudicati.

Gesù, invece, parla di perdere la vita, di donarla.

Come lui saprà fare fra poche settimane.

Noi

E noi discepoli, sconcertati, meditiamo questa parola luminosa e inquietante: per vivere, spesso, dobbiamo affrontare una morte. E questo ci spaventa.

Siamo convinti che la miglior vita possibile sia quella senza guai. Senza intoppi. Senza sofferenza.

Beati quelli che hanno potere e soldi, che non dipendono dagli altri, che se ne fregano di tutti.

Furbi e beati.

Beati quelli che sanno usare il prossimo con spregiudicatezza.

No, non è così.

Il Signore ci dice che se vogliamo avanzare, rinascere, dobbiamo prepararci a morire a qualcosa.

È vero: lo sposo “muore” al suo egoismo per dedicarsi alla sposa.

La sposa “muore” sacrificando la sua libertà per dare alla luce un figlio.

Il volontario “muore” dedicando il suo tempo libero all’ammalato.

Eppure tutti questi gesti danno luce ad una dimensione nuova, all’amore, ad una nuova creatura, alla solidarietà.

L’immagine del parto dice bene questa logica intessuta nelle cose: le doglie sono necessarie per dare alla luce una nuova creatura.

Certo: accettare questo discorso è difficile. Quando stiamo soffrendo non pensiamo alla vita che ne scaturirà. Quando stiamo male facciamo fatica ad intravedere il dopo. Quando siamo al buio e al freddo della terra come il chicco non pensiamo a un Dio misericordioso, ma a un despota che permette la nostra sofferenza.

 

Gesù ha paura di questo momento, è turbato quando vede i greci arrivare; sa che la sua ora si avvicina.

Quanto è umano questo Dio impaurito!

Eppure ne capisce il disegno, la necessità, e accetta di morire.

Per amore, solo per amore.

Abbiamo il coraggio di morire a noi stessi, come ha fatto il Signore Gesù.

Di imparare ad obbedire alla realtà, per portare frutto.

Allora, e solo allora, nel nostro cammino di desertificazione, di essenzialità, deposti i pesi, scopriremo quanto Dio ci ama, e vedremo, oggi, nel cuore, con lo sguardo della fede, il Signore Gesù.

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