Il nucleo centrale del libro presenta otto storie vere di donne e uomini che vivono ai margini della società, nelle periferie non soltanto delle città, ma anche in quelle «esistenziali», di cui spesso parla papa Francesco.Sono vicende intrise di sofferenza, ma anche di speranza non ancora sopita, raccolte da alcuni volontari in una parrocchia del Nord-Est d’Italia. C’è, per esempio, chi ha vissuto gli orrori della guerra nella ex Jugoslavia; chi è entrato nel giro della criminalità organizzata; chi è rimasto senza tetto e senza lavoro.Tutti raccontano in prima persona la loro storia.
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Città del Vaticano (Radio Vaticana) – “Esclusi. Nelle periferie esistenziali con Papa Francesco”. È il nuovo libro di don Nandino Capovilla, parroco a Marghera e referente per il Medio Oriente di Pax Christi Italia, e Betta Tusset, del punto pace Pax Christi di Venezia, presentato in questi giorni alla Libreria Paoline Multimedia di Roma. “Ma cosa sono queste periferie di cui continua a parlare Papa Francesco?”, si chiede Gaetano – uno dei personaggi del libro – mentre va a prestare servizio di volontariato nella sua nuova parrocchia, in un quartiere multietnico di una nebbiosa città del nord Italia. Tra testimonianza e romanzo, si vuole direttamente dare voce alla ‘carne di Cristo’, perché in ogni ‘scarto dell’umanità’ c’è qualcuno da ascoltare e da amare. Cosa ha spinto dunque gli autori a scrivere questo libro? Giada Aquilino li ha intervistati. Cominciamo, con don Nandino Capovilla:
Don Capovilla – Le piaghe che Papa Francesco dice di toccare e quindi stare con i poveri. Ecco, le storie da queste ‘periferie esistenziali’, storie di poveri senza dimora che ci condizionano poi anche nelle nostre scelte di fede e soprattutto ci chiamano a condividere e quindi a ‘far saltare’ anche gli schemi dell’assistenza.
D. – Betta, nel libro c’è un personaggio immaginario e tante storie: di cosa si parla?
Tusset – Si parla innanzitutto di relazioni che si instaurano tra le persone, tra i volontari che fanno un gesto semplice offrendo la colazione la domenica mattina in una qualsiasi parrocchia di una qualsiasi periferia italiana e la gente che ha bisogno, verso cui ci si china. Quello che abbiamo cercato di evidenziare nel libro è che, partendo da un piccolo gesto, ci si allarga a conoscersi e a condividere, a raccontarsi vicendevolmente, quindi a tornare ad essere gli uni per gli altri semplicemente persone. E nel libro poi c’ è un personaggio che non esiste, un personaggio inventato: Gaetano, che è un volontario che ci rappresenta un po’ tutti; fa fatica ad accettare le storie di queste persone, perché le giudica innanzitutto e pensa che se hanno sbagliato – come dice lui – perché poi le si deve accogliere a braccia aperte? Non basta, forse, semplicemente chinarsi verso di loro e dare loro il necessario? Perché anche ascoltarli?
D. – Perché? Da dove arriva la risposta, don Nandino?
Don Capovilla – La risposta è sempre esattamente nella nostra umanità condivisa, riconosciuta. Per strada, in autobus, quando vediamo una persona che vive nel disagio – che appunto è un povero, un senza fissa dimora, una persona che, diremmo, sta di là, sull’altro lato della strada – bisogna scoprire e partire dal punto di vista che è esattamente un nostro fratello. E, allora, ecco che prima di tutto bisogna attivare l’ascolto e poi far sì che sia possibile, proprio dall’ottica delle periferie, cominciare a guardare la storia in modo diverso, con i loro occhi.
D. – Ci sono storie di dolore, di abbandono, di ‘scarto’, come dice Papa Francesco: lo ha ribadito anche nel suo ultimo viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine. Quali realtà avete colto e raccontato, Betta?
Tusset – Sono storie che partono dalla mancanza di lavoro, partono da un disagio psicologico, a volte psichiatrico, dalla tossicodipendenza; poi ci sono storie di persone che magari arrivano da più lontano e che hanno sofferto i problemi collegati alla guerra, alla fame dell’Africa, al fuggire da realtà durissime per arrivare qui e, magari, essere accolte in maniera anche sbagliata; e infine, anche storie di fragilità che si incontrano e che poi fanno fatica a trovarsi, come quelle, ad esempio, delle nostre badanti. L’unica donna che è raccontata in questo libro è proprio una signora dell’est europeo, Romana, che improvvisamente – avendo perso l’affetto che la legava qui, una delle nostre persone anziane che accudiva – si è trovata a perdere la famiglia che l’aveva accolta e, con questa, la casa e il lavoro, a non riuscire più a risalire la china e a non riuscire più neppure ad avere la forza di ritornare in patria, perché la sua dignità di donna lavoratrice da tanto tempo non lo ha permette.
D. – Come poi dalla realtà parrocchiale si può uscire fuori e andare verso l’altro, don Nandino?
Don Capovilla – E’ assolutamente necessario riscrivere, continuamente, quei percorsi di solidarietà delle nostre città, le reti che ci impegnano prima di tutto come cittadini prima che come credenti, proprio per generare inclusione, ascolto, possibilità di spazi. Dal libro, per esempio, è nata un’esperienza di superamento di chiusura delle biblioteche cittadine. Nelle istituzioni, da cittadini e da cristiani, ci mettiamo ad inventare, con creatività, soluzioni nuove perché davvero da questi cittadini “a metà”, come dice Papa Francesco, si possa avere tutti gli stessi diritti nella stessa città.
D – Don Nandino, voi come Pax Christi, spesso siete usciti dalla realtà parrocchiale per andare ad esempio nei Territori palestinesi. Lì ci sono persone ‘escluse’, nel senso di escluse dalla pace: cosa manca per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi oggi?
Don Capovilla – La mancanza di giustizia, la mancanza di un sussulto per i popoli del Medio Oriente, in particolare, i popoli oppressi, come quello palestinese da un’occupazione militare, da una colonizzazione che mette in dubbio anche il progetto di una soluzione di due Stati per due popoli. E, da parte nostra, deve esserci un sussulto sul riconoscimento dei percorsi che possono portare alla pace: in questo caso, in questi giorni, anche dal nostro Parlamento italiano, per un riconoscimento dello Stato di Palestina, come l’Europa ha già fatto.