Fu sant’Agostino a identificare quelli che ancora oggi sono conosciuti come i sette salmi penitenziali.
Molti santi, come San Luigi Gonzaga, il patrono dei giovani, avevano la bella abitudine di recitarli spesso.
Una volta si insegnava a pregare con questi salmi per prepararsi al sacramento della confessione o comunque nel momento in cui si aveva consapevolezza di essere in peccato.
In particolare sappiamo che sant’Agostino, il grande convertito, anzi (dovremmo dire meglio) il grande esperto della misericordia di Dio amava ripetere spesso il salmo 32 che ci offre la liturgia di questa domenica.
Ci racconta Possidio, il biografo del santo, che volle che il testo di questo salmo fosse affisso al muro della sua cella, negli ultimi giorni della sua vita, per gustare la gioia e la beatitudine di chi confessa il suo peccato.
Allora ascoltiamone un passaggio.
San Paolo riporta una citazione del salmo nella lettera ai Romani, per mostrare che Dio dona gratuitamente la sua giustizia, non come ricompensa per le opere.
D’altra parte è evidente che Dio non ci dona la sua misericordia perché la meritiamo, ma proprio perché siamo peccatori.
L’unica condizione che pone è che l’uomo la desideri e ne confessi il bisogno.
Forse il motivo che rende speciale questo salmo, e così amato in particolare da Agostino, è il fatto che non è una generica riflessione sul peccato e sul pentimento, ma riporta l’esperienza personale di un convertito.
Purtroppo i versetti cruciali non sono presenti nella liturgia di domenica: Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre ruggivo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell’arsura estiva si inaridiva il mio vigore.
Il salmista ripensa alla situazione penosissima della sua coscienza quando “taceva”: avendo commesso gravi colpe, non aveva cioè il coraggio di confessare a Dio i suoi peccati. Un tormento interiore descritto con immagini forti.
Il peccatore sente pesare su di sé la mano di Dio, consapevole che Dio non è indifferente rispetto al male commesso dall’uomo.
Agostino commentava che Dio rende pesante la sua mano nei confronti dell’orgoglioso. La mani di Dio è pesante per umiliare, quanto dolce per sollevare chi è caduto a terra.
E a proposito di questa amara inquietudine del peccatore, San Gregorio Magno diceva: “le sventure aiutano a far capire. Si è attirati verso Dio tanto più in fretta, quanto più non si ha niente a cui aggrapparsi in questo mondo”.
Finalmente il salmista apre il suo cuore con una dichiarazione coraggiosa che sembra riecheggiare nei sentimenti del figliol prodigo della parabola di Gesù.
Ha detto, infatti, con la sincerità del cuore: «Confesserò al Signore le mie colpe». Sono poche parole, ma che nascono dalla coscienza; e Dio risponde subito con un generoso perdono.
Si schiude così davanti al fedele pentito e perdonato un orizzonte di sicurezza, di fiducia, di pace, nonostante le prove della vita.
Noi potremmo applicarlo al sacramento della Riconciliazione. In esso, alla luce del Salmo, si sperimenta la coscienza del peccato, spesso offuscata ai nostri giorni, e insieme la gioia del perdono.
Al binomio «delitto-castigo» si sostituisce il binomio «delitto-perdono», perché il Signore è un Dio «che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,7).
San Cirillo di Gerusalemme insegnava questo salmo ai catecumeni che si preparavano al Battesimo.
«Dio è misericordioso e non lesina il suo perdono… Non supererà la grandezza della misericordia di Dio il cumulo dei tuoi peccati: non supererà la destrezza del grande Medico la gravità delle tue ferite: purché a lui ti abbandoni con fiducia. Manifesta al Medico il tuo male, e parlagli con le parole che disse Davide: “Ecco, confesserò al Signore l’iniquità che mi sta sempre dinanzi”. Così otterrai che si avverino le altre: “Tu hai rimesso il peccato del mio cuore”».
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