HOLLYWOOD (RI)SCOPRE I KOLOSSAL BIBLICI, A COMINCIARE DA THE PASSION
La Passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2004) di Mel Gibson per la quinta settimana di Quaresima: nuova attenzione di Hollywood verso la figura di Gesù e le storie della Bibbia
«La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo Messia povero. Quando Gesù ci invita a prendere su di noi il suo “giogo soave”, ci invita ad arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con Lui il suo Spirito filiale e fraterno […]» (Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2014). Quinta proposta per la Quaresima 2014 dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali e della Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI è La Passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2004) di Mel Gibson.
Il ritorno dei kolossal: nuova attenzione a Hollywood verso Gesù e la Bibbia
Gli anni Duemila si aprono all’insegna di una ripresa del genere religioso nell’industria cinematografica e televisiva statunitense (senza dimenticare il grande Progetto Bibbia della Lux Vide e della Rai, sviluppato tra il 1993 e il 2002, trasmesso con successo anche in America). È proprio con La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson che si riaccende una notevole attenzione verso la storia di Gesù e, in generale, la Bibbia. Si attestano opere sull’infanzia di Gesù comeNativity (The Nativity Story, 2006) di Catherine Hardwicke oppure il recente ciclo televisivo in dieci episodi The Bible(2013) prodotto da Roma Downey e Mark Burnett, record di spettatori in America, in onda su History Channel (e in Italia sulle reti Mediaset nel mese di marzo-aprile 2014). Un successo considerevole al punto da spingere i produttori a riproporre al cinema l’episodio sulla vita di Gesù, Son of God diretto da Christopher Spencer, in occasione della Quaresima 2014. Si intensificano poi le proposte cinematografiche relative all’Antico Testamento nel 2014-2015, dall’imminente kolossal sulla Genesi Noah (2014) di Darren Aronofsky a Exodus: Gods and Kings (atteso per la fine del 2014) di Ridley Scott oppure sempre una rappresentazione della figura di Mosè realizzata da Steven Spielberg (sua anche la produzione, con la DreamWorks, della versione animata Il principe d’Egitto – The Prince of Egypt, del 1998).
La proposta di Mel Gibson
Ispirandosi ai Vangeli ma anche alle visioni della beata Anna Katharina Emmerick, Mel Gibson racconta nel film La Passione di Cristo le ultime dodici ore della vita di Gesù, dalla cattura nell’orto degli ulivi alla sua condanna, sino alla salita al Golgota, alla morte in croce. Nel mettere in scena la dolorosa Via Crucis, il regista intervallata la narrazione con alcuni brevi flashback che richiamano dei momenti della vita di Gesù (James Caviezel), dall’infanzia segnata dal legame con la madre Maria (interpretata efficacemente da Maia Morgenstern) alla vita adulta, insieme ai discepoli. Prendendo le mosse anche dalle suggestioni della pittura nordeuropea (in particolare, Matthias Grünewald e Albrecht Dürer) e recuperando le ambientazioni del film Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, come la città di Matera (ricostruendo però anche alcuni set a Cinecittà), Gibson propone una nuova rappresentazione della passione di Cristo con uno stile visivo molto duro, esplicito, caratterizzato da un linguaggio cinematografico contemporaneo, abituato ormai a un’esibizione della violenza. Il regista sottolinea con decisione la violenza inferta a Gesù, mostrandoci un Cristo sfigurato e tumefatto, inondato di sangue. «Va detto subito che se anche non si accettasse la visione estremamente dura e realistica di Gibson, essa potrebbe comunque esercitare nei nostri confronti una funzione maieutica, costringendoci a mettere in luce non tanto le fondamenta della nostra fede, quanto il nostro rapporto con un Dio picchiato, insultato, flagellato, torturato, deriso, crocifisso. Per questo il film compie, per la cultura moderna, una nuova rivoluzione nell’immagine di Gesù: lo scandalo esibito, visto, vissuto, della croce – e delle ore che la preparano – ripropone ancora una volta l’interrogativo sul concetto di Dio. […] Il film ci pone sotto gli occhi senza diaframmi, senza mediazioni, anzi in modo sfacciato, come lo è sempre la violenza, la difficoltà di essere cristiani. Per ricondurci allo scandalo della croce, a quel legno grondante sangue. Alla croce che è sapienza di Dio, segno incommensurabile del suo amore, della sua vittoria sul peccato e sulla morte, della sua gloria eterna nel nuovo Regno. Alla fine, sentiamo la pesantezza immane dello “scandalum crucis” che riguarda tutti, a cominciare da Pietro che, per primo, non fu in grado di sostenerlo. E se “l’obbrobrio della croce è una tentazione della fede” (Ilario di Poitiers) e se questo obbrobrio viene ostentato sino agli estremi, tanto più il film diventa per noi una tentazione salutare, uno scandalo culturale. Insomma bisogna fare i conti con questo scandalo, con questo Gesù e questa opera su di lui» (L. Pellegrini, L’altro volto di Cristo, in Rivista del Cinematografo, n. 3, marzo 2004, pp. 12-14).
La valutazione
La scheda della Commissione Nazionale Valutazione Film, redatta nel 2004, riporta la seguente valutazione pastorale: «La prospettiva dunque di Gibson non si colloca nell’alveo della classica iconografia di stampo romantico (di cui Gesù di Nazareth – 1977 – di Franco Zeffirelli è codificazione esemplare) e opta decisamente per un’interpretazione del volto sfigurato di Gesù evocante le rappresentazioni iconografiche del cinquecento e del seicento. In questo scenario si spiega il ricorso a due lingue, come l’aramaico e il latino, che pur non potendo avere alcuna valenza documentaristica, conferiscono tuttavia al film una ineludibile intensità. Stratagemma, quello delle lingue, che, unitamente al recupero di alcune varianti della devozione tradizionale, assegna all’opera di Mel Gibson una tensione drammaturgica di grande rilievo. […] Efficace è anche il profilo con cui si evocano i vari personaggi; seppur va segnalato che l’inevitabile processo di schematizzazione dei ruoli non deve condurre a fraintendimenti: ad esempio, la responsabilità della condanna inflitta a Gesù non è di un popolo, ma dell’intera umanità peccatrice, cui peraltro non mancano di rinviare i vari soggetti coinvolti. Accanto alle particolari “soggettive” su Gesù, si ricorda l’inquadratura dall’alto situata qualche istante prima della morte sul Calvario, che ad un tratto si trasforma in goccia d’acqua: cadendo vertiginosamente sulla terra accanto alla croce di Gesù, segna l’inizio del terremoto e la rovina del tempio. Una inquadratura che può evocare il pianto di Dio sul figlio Gesù che sta morendo. Allo stesso regista capiterà di affermare: “Il vero messaggio del mio film è il perdono. La lacrima di Dio che piove dal cielo nel momento in cui Gesù muore significa questo”. Uno degli aspetti che richiede una qualche precisazione è costituito dalla rappresentazione che si fa della violenza su Gesù. “Quello che mi ha sempre colpito della Passione – ammette Mel Gibson – è stata la capacità di Gesù Cristo, diventato uomo, di sottoporsi a una sofferenza indicibile per amore dell’umanità. Non potevo non mostrarla in tutta la sua forza e fin nei particolari. Forse sono le immagini più scioccanti che abbia mai visto in un film, ma dovevo farle vedere”. Dinanzi però a sì tanta violenza, enfatizzata non solo da immagini continuamente reiterate ma anche dall’utilizzo del rallenty, è il caso di rammentare che la morte di Gesù in croce ci salva non per la quantità del dolore subito – per quanto incalcolabile – ma per il fatto che Gesù ha vissuto l’infamante patibolo e l’immenso supplizio in assoluta fedeltà al Padre e in piena apertura d’amore all’umanità. La prospettiva della risurrezione, che nei Vangeli è la chiave di tutto, non può circoscriversi all’inquadratura conclusiva, in quanto costituisce il codice interpretativo interno dell’intera passione» (Segnalazioni cinematografiche, 2004, n.137, pp. 212-216).