Terra Santa: La chiesa di San Giorgio a Taybeh

1829

La resistenza di Taybeh
Ecco di Bergamo, Sept. 2005

Il villaggio è là, in cima alla collina, dominato da tre campanili. Non ci sono minareti né cupole di sinagoghe a svettare verso il cielo. Questo grumo di case fra i saliscendi pietrosi della Cisgiordania, a trenta chilometri da Gerusalemme, è uno scherzo del destino, un’isola di resistenza.

Le rovine della chiesa di San Giorgio, nel villaggio di Taybeh presso Ramallah. Foto: Simone Natale
Le rovine della chiesa di San Giorgio, nel villaggio di Taybeh presso Ramallah. Foto: Simone Natale

Non compare sulle cartine, nemmeno palestinesi, e non rientra nei circuiti turistici né fra le tappe dei pellegrinaggi. Taybeh è l’unico villaggio della Terra Santa interamente cristiano. L’eccezione che conferma la regola. E qui la regola è che la presenza cristiana va assottigliandosi. Nel 1948 i seguaci di Gesù erano il 25 per cento degli abitanti della Palestina storica. Oggi sono meno del 2 per cento: 180 mila.

Taybeh è citata nella Bibbia con il nome storico di Efraim. Sei volte nell’Antico Testamento e una nel Nuovo: “Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli” (Gv 11,54). Il figlio di Dio si fermò qui alcuni giorni prima del viaggio finale a Gerusalemme, verso la Passione. “Quando uno si sente minacciato va dagli amici, e qui Gesù ne aveva. Questa era la Samaria, regione nota per la sua accoglienza” dice padre Raed Abusahlia, 38 anni, da due parroco cattolico di Taybeh.

È un personaggio noto in Terra Santa: palestinese nato vicino a Jenin, è stato cancelliere del Patriarcato latino di Gerusalemme. È un infaticabile animatore della comunità cattolica latina di questo lembo di Medio Oriente. “Nel villaggio – dice – i cristiani sono presenti senza interruzione da duemila anni. Sono orgogliosi di dire, un po’ scherzando, che sono stati evangelizzati direttamente da Gesù”.

Taybeh ha 1.400 abitanti: cattolici (750), greco-ortodossi (450) e melchiti (165). Ci sono anche una quarantina di musulmani “di passaggio” come dicono qui: sono ospiti a tempo. La vecchia Efraim ha resistito all’islamizzazione (è circondata da 16 villaggi islamici) e alla colonizzazione ebraica dei territori (in zona ci sono cinque insediamenti; quello di Ofra è in continua espansione e si sta mangiando terre di proprietà di Taybeh). Certo ha pagato il suo tributo all’emigrazione, verso l’America, la Giordania e Gerusalemme: i residenti erano 3 mila 400 prima della guerra del 1967. Lontano da qui vivono almeno 7 mila persone originarie del villaggio, che è gomito a gomito con Der Jerir: anche questo centro era a maggioranza cristiana. Come lo erano Betlemme e Ramallah, la capitale amministrativa dell’Autorità palestinese a dieci chilometri da qui.

Ma qual è il segreto di Taybeh, l’elisire che le ha permesso di resistere nel tempo all’erosione migratoria e demografica? “C’è un senso dell’identità e dell’appartenenza fortissimo” risponde il sindaco, Daoud Khoury, greco-ortodosso, sposato con una americana, padre di tre figli, eletto appena due mesi fa nelle fila di Al Fatah, il partito-stato fondato da Yasser Arafat. La foto del raìs è appesa alle spalle del primo cittadino, sulla scrivania c’è la Bibbia (“noi cristiani ci sentiamo palestinesi a tutti gli effetti e Arafat ha sempre difeso la nostra presenza in questa terra” commenta padre Raed). Per tanti che se ne sono andati dal villaggio, qualcuno ha fatto il percorso inverso. Il sindaco è fra questi. La sua è una famiglia storica di Taybeh, la più grande. Dopo 24 anni negli Stati Uniti, il professor Khoury (è docente di materie economiche all’Università di Bir Zeit) ha deciso di lasciare insieme ai suoi cari le agiatezze di una vita da benestante per tornare in patria. Era il 1999. “Gli anni pieni di speranze di pace – ricorda – innescate dal processo di Oslo. La situazione sembrava uscita dal tunnel. Noi palestinesi della diaspora ci siamo detti: è ora di tornare, meglio essere primi nel villaggio che ultimi in città. Volevo fare qualcosa per la mia terra, c’era un Paese da costruire. Poi con la seconda Intifada tutto è precipitato. Ma non sono pentito della mia scelta“.

Non basterebbe il senso forte dell’identità – e la coscienza della responsabilità di mantenere questo presidio cristiano – per dare corpo all’eccezione di Taybeh. Aiutano anche i rapporti distesi con i vicini musulmani e soprattutto le ottime relazioni fra le tre comunità cristiane.

La Provvidenza ha fatto la sua parte – dice padre Giacomo, da 16 anni parroco dei melchiti, palestinese nato a Jaffa – e il fatto di condividere le sofferenze di questa terra gioca un ruolo. Tra noi parroci si va d’accordo, si prega anche insieme. È un fatto raro, anche in Palestina“. Il villaggio è un laboratorio di ecumenismo, di prove d’unità fra cristiani. Sulle feste è stato raggiunto un compromesso: Natale viene celebrato secondo il calendario gregoriano-latino e la Pasqua seguendo quello giuliano-ortodosso. C’è poi una regola non scritta che vige a Taybeh: non si vendono proprietà a chi non è cristiano. Case e terreni passano di padre in figlio. “Vogliamo costituire un fondo comune – dice il sindaco – nel quale ogni emigrato versa 10 dollari: con quei soldi acquisteremo le proprietà di chi volesse liberarsene“. Il professor Daoud Khoury ha altri progetti: costruire un albergo, un centro commerciale e addirittura un casinò, mischiando il sacro con il profano.

Sulle comunità vigila il patrono San Giorgio. Dà il nome alla chiesa bizantina che risale al quarto secolo, contemporanea dei primi nuclei del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Le sue rovine sono prossime al municipio e dominano la vallata che scende verso il Mar Morto. Il sindaco è anche azionista dell’azienda di famiglia che produce l’unica birra nazionale palestinese, la “Taybeh“. Sarebbe stato il Saladino a dare questo nome al villaggio: la leggenda dice che passò di qui e, colpito dall’ospitalità degli abitanti, scelse il termine che significa “gradevoli, gentili“.

Le vendite di birra sono un termometro dello stato di salute socio-economica dei territori palestinesi. “Di questi tempi non vanno bene, abbiamo dovuto lasciare a casa nove persone” dice il sindaco. Nella vecchia Efraim il 30 per cento della popolazione è senza lavoro. “Cerchiamo di rispondere insieme ai bisogni del nostro popolo: anche questo ci unisce” osserva padre David Khoury (parente del primo cittadino), nato qui e da 20 anni parroco dei greco-ortodossi.

I tre sacerdoti a guida delle comunità sono uniti in un comitato: una volta al mese si ritrovano per valutare problemi, esigenze, possibili risposte. “Noi cristiani di Terra Santa – chiosa padre Raed – non vogliamo restare mendicanti, dipendere dagli altri. La nostra gente ha voglia di lavorare e sa creare prodotti di qualità“. La vitalità e l’operosità della parrocchia cattolica hanno dato frutti.

È stata allestita la scuola del Patriarcato latino (450 studenti, dall’asilo nido al liceo; un terzo degli allievi più piccoli iscritti è musulmano e arriva dai villaggi vicini), c’è una casa di accoglienza per chi è di passaggio (dedicata a Charles de Foucault, che nel suo peregrinare fece tappa a Taybeh), un centro medico (raggiungere il vicino ospedale di Ramallah, in tempi di checkpoint e strade chiuse è spesso impossibile anche per gli ammalati) e, ultima arrivata, una casa di ricovero per anziani.

Ma padre Raed è un vulcano ed ha messo in piedi anche attività per creare altra occupazione: laboratori per la lavorazione della ceramica e del legno d’ulivo e per la fabbricazione di candele. È stata ottimizzata la produzione dell’olio d’oliva: ci sono 30 mila alberi nella zona. Veniva usato come merce di baratto: grazie a un nuovo frantoio quest’anno sono stati prodotti 35 mila litri. L’olio di Taybeh ora è in vendita in 2 mila 500 supermercati francesi.

Padre Raed non è mai fermo (“sa, qui lo Stato è assente e agire è un nostro dovere”). Le attività danno lavoro a una quarantina di persone, con una ricaduta positiva per duecento. Ha inventato le “lampade della pace“. L’obiettivo è diffonderne 100 mila nelle chiese del mondo entro tre anni: finora è stata raggiunta quota settemila. Il ricavato della vendita serve a finanziare i progetti per Taybeh. “Ai cristiani d’Occidente – dice il parroco – chiedo un aiuto per la Terra Santa ma anche tante preghiere“. La comunità cerca in Europa parrocchie e Comuni disponibili a gemellaggi. Il sindaco dà una garanzia: “Quanto resisterà Taybeh non lo so, ma sono certo che lavorerò fino all’ultimo per difendere l’identità della mia terra“. 

Andrea Valesini