Dio si è fatto bambino.
L’infinito piccolo, l’eterno una manciata di ore. La parola si è fatta vagito: non un pianto, ma il grido vittorioso di ogni bambino che nasce. Il Dio bambino mi annuncia l’anima della storia: ogni uomo e ogni donna non sono esseri mortali, ma esseri Natali, votati non alla morte, ma alla vita, sempre nascenti.
Dio si è fatto bambino.
Cerco di capire di più: si è fatto bisogno di cure, si è fatto fame di occhi, di carezze, di latte. Una mano che cerca la tua, occhi nei quali ti senti naufragare, come un bambino. Dio non può vivere nel mondo se qualcuno non si prende cura di lui. Non vive fra noi senza di noi. Se tu non ti fai madre, se non lo ami, tu puoi essere la culla, ma anche la prigione o la tomba di Dio.
Il Dio bambino è una parabola vivente.
Con tutto se stesso. Difatti, un giorno, a Cafarnao, Gesù, ascoltando i suoi che discutevano su chi era il più grande, prende un bambino, lo mette là in mezzo, lo abbraccia e diceva: “Chi accoglie uno di questi piccoli accoglie me”. In mezzo, proprio in mezzo, a quel gruppo di uomini e donne giovani e vigorosi, Gesù sceglie il più indifeso, senza diritti, il più piccolo, il più debole, l’ultimo del clan.
Gesù abbracciato a lui: l’immenso, la parabola vivente.
Chi lo abbraccia abbraccia me. Abbracciare un bambino è come abbracciare Dio. Parole mai dette prima, mai pensate prima. I discepoli ne sono abbagliati. Sono parole abissali, che o accogli o rifiuti per il timore che possano capovolgere il tuo sistema di vita.
Stretto a un bambino, Gesù offre il suo tesoro: Dio come un abbraccio.
Parabola vivente che raggiunge anche me, bambino sempre, che ha fame di abbracci. Raggiunge anche noi, che continuiamo a imparare il mestiere di vivere per relazioni di stupore, mentre la vita ci imbocca continuamente di incanti e di abbracci, come facevano le donne con quel bambino in quella casa a Cafarnao, come a Betlemme, come in tutte le case.