In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». (Giovanni 6)
Stare invece nella nostra di carne,
che è tutto ciò che abbiamo,
dimorare nella cattedrale intrecciata di ossa luminose,
meditare il vento che dilata i polmoni,
battezzarsi nel sangue di arterie che sono radici
e lasciare che i nostri occhi vedano la fame
ma quella degli altri,
e poi decidere di noi,
perché è solo di noi che possiamo decidere.
Come possiamo noi
dare la nostra carne da mangiare?
Non chiedersi come possa Lui
ma cercare chi mangerà noi,
e subito elencare le paure che ci impediscono di declinarci in sacrificio,
lucidamente sentire definitiva la proposta,
turarsi gli orecchi alla tentazione di chi propone un cristianesimo indolore
stare in guardia dai devoti del benessere
dagli invasati del sorriso ad ogni costo
dai consacrati alla serenità.
Cambiare la domanda,
lasciare che il corpo decida con chi stare
sfamare di parole e di silenzi,
nutrire la fame d’amore,
perdersi,
stare con mani aperte e
lasciar cadere il frutto di Adamo,
consacrarsi cuori esposti ai venti,
decidere di consegnarsi
accogliere il fatto che la vita abbia sempre fame,
farsi masticare,
perdersi,
per entrare nell’Eterno,
e sussurrare ai confidenti che in fondo Lui non ha mai detto altro.
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Quando la vita non scorre in noi,
quando tutto sembra morto,
quando ciò che tocchiamo sfiorisce,
quando insistere è solo orgoglio,
quando non troviamo più il nostro posto,
quando avveleniamo la vita di chi ci sta intorno,
quando non ci emoziona più nulla,
quando non c’è stupore in niente,
quando non abbiamo in noi la vita
significa che non scorre in noi il Suo sangue,
significa che non mastichiamo la sua storia.
Perché non è tutto uguale,
senza di Lui si può solo sopravvivere
e confessare che è ridicolo credere
di poter riempire da soli
il vuoto che ci portiamo dentro,
se il cuore è cavo
è solo perché possa svuotarsi ad ogni battito,
tazza
sorgente
sorgiva.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
Così Lui rimarrà,
già rimane,
è in noi che lo troviamo
perché nostro corpo si è fatto sua dimora
e vicino ci appare
nel gesto della consegna.
Così Lui libera
noi che siamo suo cenacolo
e scardina le resistenze
e disarma le difese
a noi poter decidere
se far vincere la paura
e morire in una tana
o rischiare per un cielo di stelle,
e di perdersi per sempre,
ma solo per Amore.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Perché alla fine
vera libertà è vivere per Lui,
a causa sua,
nostra dolcissima ossessione,
verso Lui scorre ogni cosa
verso Lui, disceso per mettere a morte la morte
e baciare ogni istante
perché fosse imbevuto d’eterno.
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook