Strada facendo
Brucia Dio. Brucia dentro, una volta che in qualche modo lo si è incontrato.
O sfiorato. O intuito.
Brucia e riempie di nostalgia. Vertigine, in certi momenti.
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Brivido di eternità e di immenso.
Quando ti rendi conto che è qui, ora, adesso.
Mentre scrivo, mentre leggi.
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Questo Dio che in Cristo si è rivelato ed è giunto fino a noi.
Brucia e scalda. E illumina. E incendia.
Non si può certo impedire ad un fuoco di illuminare e scaldare.
Ed illumina e scalda perché è la sua natura, perché acceso.
Come Amos che, rimbrottato da Amasia che gli chiede di andarsene da Betel, di smettere di profetizzare, afferma, candidamente, che ne farebbe volentieri a meno, ma non è mai stata una sua scelta.
Così Gesù sfida i pregiudizi dei suoi concittadini. Perché arde d’amore.
Per Dio, per i suoi. Arde dell’amore di Dio per i suoi.
E chi gli sta accanto, chi all’inizio lo aveva timidamente seguito perché sedotto, ammaliato, ora fa un salto di qualità, enorme, immenso. Gesù chiede ai suoi discepoli, a noi, di portare il Regno.
Ma se hanno rifiutato lui, che pure era il Cristo, come mai potranno accogliere noi?
Mandati
Vengono mandati, veniamo mandati.
Sembra quasi che la Bibbia sia percorsa da un’irrefrenabile bisogno di andare, di muoversi. Come se l’incontro con Dio mettesse la voglia di ballare, di raccontare, di dire. Sempre in strada, mai stanziali, vagabondi, goim, cioè stranieri in questa vita in questa terra, in questa pelle.
Lo sa Abramo. Lo sa Mosè che spinse i suoi ad uscire. Lo sanno i profeti.
O la vita è movimento o non è. O la vita è curiosità e ricerca, attesa e anelito, o non è.
E vengono mandati a due a due.
Prima delle parole è lo stile che evangelizza.
A due a due, senza guru carismatici, nella fatica della comunione (che sempre implica fatica), nella possibilità di non essere tanti solitari che si sfiorano, ma persone che camminano come compagni in una stessa direzione. Persone in relazione e sappiamo bene, soprattutto in un tempo in cui il virtuale assedia il reale, quanto ci sia vitale la relazione, ogni relazione.
Questo siamo, o dovremmo essere. O potremmo diventare.
Viandanti che si fanno compagnia cercando il senso e la pienezza. E, andando, raccontano ad altri quanto hanno visto e conosciuto.
Molti pensano, purtroppo, di fuggire il mondo nascondendosi in sacrestia, innalzando alte pareti di incenso per non sapere, chiudendo Dio dentro i tabernacoli. È la paura che non ci permette di essere veri. Paura di perdere. Paura di essere travolti.
Non dobbiamo temere nulla: ci è donato il potere di dominare sulle tenebre, sugli spiriti che tolgono la purezza dallo sguardo sugli altri. Lo spirito divisore che vede solo il male e la malizia.
Ci è donato uno Spirito santo che santifica. Noi e chi incontriamo.
Perciò ci mettiamo in cammino, perciò è tempo ed è bene fare sinodo.
Ordini
Una cosa chiede ai discepoli il Signore: vivere liberi. Liberare perché liberati.
Non schiavi delle strutture, delle organizzazioni, dei planing.
Molti vivono nel caos organizzativo totale e ciò non rende onore al Vangelo. Ma altri rischiano di farsi soffocare dalle opere, magari ereditate da santi fondatori, gigantesche strutture che ostacolano e rendono servi. Religiosi diventati custodi di immensi complessi inutilizzati, parrocchie indebitate per decenni per strutture che nessuno usa. Non va bene, proprio non va bene.
Prima la comunità, prima il cuore, prima la Parola.
E poi gli strumenti, se ci sono, e i mezzi, se non ostacolano e offuscano.
Custodiamo con rispetto quanto i nostri padri hanno faticosamente costruito, opere d’arte per onorare Dio a disposizione di tutti, non chiuse nei salotti dei principi e dei re. Ma troviamo il modo giusto di non morire dietro le opere che non servono ad evangelizzare.
Liberi. Ed è bellissimo trovare discepoli, preti, collaboratori liberi dall’uso del denaro, liberi nel donarsi e nel donare, onesti e trasparenti nelle cose che fanno.
Qualche tempo fa un bel giovane prete mi raccontava di avere portato la sua vecchia auto per una riparazione, e di avere avuto un’auto sostitutiva decisamente più bella e nuova. Arrivato in parrocchia, un quartiere degradato di una città del Sud, appena visto lo sguardo dei giovani sulla piazza tornò dal meccanico chiedendogli la grazia di un’auto meno appariscente: si sentiva a disagio.
Un piccolo segno, fra i tanti. Senza fare i pauperisti per forza. Ma senza giustificarsi davanti alle nostre piccole vanità.
Restate
Gesù ci chiede di restare fra le case. Non ai margini del quartiere in un complesso parrocchiale recintato e invalicabile.
Di restare, ove possibile. Di abitare in mezzo alla città.
Non è forse il significato della parola parochia? Che significa fra le case come stranieri.
La gente sa se ci siamo. Se frequentiamo le strade e le case. Se ci sentiamo partecipi, non ospiti.
E anche nel momento del rifiuto che, quindi, è preventivato, ci è chiesto un atteggiamento inatteso: nessuna vendetta, nessuna stizza, nessuna rabbia.
Solo la polvere dei calzari da scuotere per ripartire.
Così accade. I discepoli partono, propongono la conversione, la proclamano (non aspettano che avvenga, è Dio che converte, affari suoi!), allontanano i demoni e le tenebre, guariscono il cuore delle persone.
L’ho visto anch’io mille volte.
In me.
Nostalgia di tornare ad evangelizzare lasciando andare le mille inutili paure.
Ardere d’amore, per illuminare chi cammina nelle tenebre.
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