Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione “2 Cor 5,6-7)
Siamo in esilio, è questa la risposta a tutte le nostre domande. Questo siamo chiamati a sussurrare al nostro cuore quando si spacca di malinconia, quando si aggrappa con troppa ferocia alle bellezze di questo mondo, quando dimentica che tutto scorre, e che non siamo a casa, non ora, non qui.
Anche nei momenti di felicità, anche dentro il cuore di incontri che sembrano eterni, anche dentro gli accadimenti che riempiono gli occhi di gratitudine. Siamo in esilio, nulla è la nostra casa, impossibile mettere radici. I nostri occhi dovrebbero avere impressi nelle pupille il desiderio d’Altrove, inquieti i nostri muscoli e sempre tesi, in attesa della chiamata all’approdo.
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Inutile abitare solo il presente, illudersi che possa diventare eterno nido, se siamo vigili al cuore del tempo presente troveremo sempre un appello all’uscita, alla partenza, al cammino. Un sorriso mite dovremmo essere capaci di stendere sulle cose di questo mondo avendone da tempo soppesato la transitorietà. Tutto è segno dell’Infinito ma tutto è appunto solo un simbolo.
E i simboli vanno decifrati, respirati, abbandonati. Siamo esiliati, nessun ruolo per noi su questa terra deve ancorarci al presente, nessun senso di definitività, non siamo indispensabili. Invece vivere ogni cosa in pienezza per imparare a dire addio, grati. Per imparare a consegnare ad altri. Per imparare a benedire. Per non smettere mai di camminare.
Solo che per vivere in esilio, senza lasciarsi prendere dal morso del risentimento, serve tanta fede. Non viviamo nella visione, non è ancora tempo dello sguardo negli occhi dell’Eterno, serve fede, che è muoversi nel visibile implorando ogni cosa che ci sveli la sua anima invisibile. Che è inginocchiarsi nel cuore del creato per provare ogni volta a sentire il battito caldo del cuore del Creatore. E ringraziare e rimettersi in cammino. E se la nostra felicità non è piena, non qui, non ora, ringraziare: siamo solo gente in esilio.
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Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. (Ezechiele 17)
Vivere nella fede e non nella visione. Che è come tenere tra le dita un ramoscello di cedro, ma lasciarlo parlare, dilatarne le possibilità. La punta di un ramo, un quasi niente, eppure avere la fede di piantarlo sopra un monte alto e imponente. La fede non s’accontenta di restare a contemplare il ramoscello, non è retorica delle piccole cose, è sfacciato coraggio che anche la più piccola cosa che viviamo può mettere radici nell’Immenso.
Il monte è alto e imponente. Non ci si può accontentare di meno. Se non potessimo aggrapparci alla cima del monte, se non fossimo innestati in Dio, la nostra piccolezza sarebbe solo miseria. Invece prendere ogni minimo ramoscello di questa nostra vita e piantarlo in Dio, con la costanza e la sfacciataggine di chi sente che ogni minima cosa, anche la più piccola, se radicata in Dio può diventare divina. Non c’è nulla di banale, nulla di superficiale, nulla di tralasciabile.
Ogni cosa implora d’essere interrata sulle pendici del Creatore. Siamo ramoscelli in esilio. Lui, e solo Lui, la nostra terra promessa. E metteremo rami, e porteremo frutto, e qualsiasi ramoscello diventerà cedro magnifico. E saremo nido per uccelli e luogo di riposo per gli affaticati. L’esilio è possibilità solo per chi, qui e ora, vede cedri nei ramoscelli. A salvarci sono le persone che davanti ai rami spezzati dei nostri fallimenti vedono, vedono davvero perché i loro occhi si inumidiscono d’amore, il cedro che siamo. Questa è fede. Contemplare la pienezza promessa in ogni frammento.
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». (Marco 4)
Siamo in esilio, siamo come semi gettati sul terreno, e il nostro cuore è inquieto finche non riposa in te. Perché se ascoltiamo bene sentiamo una forza che ci abita, la stessa che ci fa spezzare le pareti del seme, perché sentiamo che non basta essere seme, che c’è una forza che ci porta altrove. Come un richiamo. Siamo nati per essere in te. Questa è fede.
Siamo come uno sguardo che troverà pace solo posandosi nel tuo cuore. Così dobbiamo solo affidarci a questa nostalgia d’amore che ci abita. Così dobbiamo solo mettere ogni cosa al suo posto, tentare di creare le condizioni ma soprattutto ascoltarci. Ascoltare la forza del seme e seguirne le tracce. Lasciar esplodere la forza del seme e seguirne i sentieri. Spontaneamente il nostro cuore cerca te. Siamo fatti per te. È tutto così semplice…
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook