Celebriamo oggi l’ottava di Pasqua di Cristo. Nell’Antica Legge, all’ottavo giorno si concludeva la settimana di Pasqua ebraica con una “santa convocazione” (cfr. Lv 23,5ss.). Così il popolo cristiano commemora oggi la vera Pasqua, il passaggio di Cristo nella terra promessa del Cielo, ossia, nella Gerusalemme celeste.
Questa è la manifestazione insuperabile della divina misericordia, perché con la sua resurrezione, Cristo vince la morte e rigenera i credenti come figli di Dio, come ci ricorda Giovanni ev. nella prima Lettera: “chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio..” (5,1).
Tra gli evangelisti è Giovanni, che maggiormente penetra il mistero della resurrezione. Negli ultimi capitoli del suo vangelo, egli cerca di descrivere la nuova condizione di Cristo – che in realtà è impossibile descrivere con i concetti spazio-temporali del nostro linguaggio. Vediamo infatti la difficoltà dei testimoni oculari di definire la condizione di Gesù risorto.
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Essa sorpassa l’intelligenza dei mortali: “La resurrezione di Gesù è [il salto] verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire… Egli è uscito verso una vita diversa, nuova – verso la vastità di Dio, e partendo la lì, Egli si manifesta ai suoi” (J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, vol II, pp. 272s.).
Pertanto, lungo i secoli, il Risorto potrà ancora manifestarsi ai “suoi”, in rivelazioni straordinari: pensiamo ai santi, come Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila o Pio da Pietralcina e altri. Possiamo chiederci: chi sono “i suoi”, ai quali il Risorto dà questo privilegio?, oppure, all’inverso: perché Egli non si manifesta a tutti, anche a coloro che lo hanno crocifisso e lo perseguitano continuamente nella storia fino ad oggi?
“I suoi” sono coloro che lo accolgono con la fede; agli altri rimane nascosto. La fede cristiana è questa relazione tra l’uomo e Dio. Essa intanto è dono di Dio: Cristo entra dall’eterno oggi di Dio nel nostro oggi temporale e si rivela a coloro che lo cercano. Al tempo stesso la fede è una virtù morale che deve crescere. Le “porte chiuse… per timore dei Giudei” sono l’immagine del timore umano davanti alle potenze ostili del mondo, che rifiutano Cristo e minacciano quelli che lo seguono. Gesù conosce la fede debole dei suoi discepoli (cfr. Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8; 17,20; 26,34…).
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Egli vince il timore dei discepoli, quando entra attraverso le “porte chiuse” nel cenacolo, li saluta “pace a voi” e mostra loro le mani e il fianco (Gv 20,19s.). I particolari raccontati: le porte chiuse e le parti del corpo con i segni della crocifissione mostrano la condiscendenza divina verso la debolezza umana. In un tratto sparisce la loro paura: “i discepoli gioirono al vedere il Signore” (20,20). L’incontro con Cristo dona gioia profonda; invero, la fede cristiana anticipa la beatitudine dei santi, essa è anzi “il principio della vita eterna”, perché comunica al credente lo Spirito di Dio, lo fa partecipe della sua vita divina (cfr. S. Thomas Aq, De veritate, q. 14).
La “gioia della fede” (J. Ratzinger) è appunto il principio, non il pieno compimento della beatitudine celeste. Essa sorregge i credenti tra i dolori e le angosce della vita terrena. Gesù ripete il saluto “pace a voi”, come per confermare nei discepoli e nei futuri evangelizzatori il dono della pace. Nessuna tempesta di persecuzione potrà scuotere chi costruisce la propria esistenza sulla roccia della Parola di Cristo (cfr. Mt 7,25), Subito Egli dà loro la futura missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” (20,21).
La gioia dell’incontro con il Risorto diventa la loro missione di annunciarla agli altri. Gli apostoli e i futuri evangelizzatori dovranno affrontare l’opposizione del mondo, che Egli stesso ha affrontato; ma essi saranno anche animati dalla stessa potenza divina di cui Gesù Cristo era investito: “ Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo” (20,22); in virtù dello Spirito di Dio potranno amministrare i doni di salvezza con autorità divina: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (20,23).
Certamente solo i credenti possono accettare tale autorità che Cristo assegna agli apostoli. D’altra parte, le grandi conversioni di personaggi noti e di popoli interi, avvenuti nei secoli, confermano questa mirabile efficacia divina del ministero pastorale e sacramentale. Ebbene, il dono dello Spirito diventa impegno degli apostoli e dei loro successori di vivere secondo lo Spirito, di lasciarsi da Lui muovere, trasformare e santificare in una vita ad imitazione di Cristo.
Segue nella pericope l’episodio di Tommaso apostolo, che sarebbe accaduto nell’ottavo giorno dopo la Risurrezione di Cristo, cioè, oggi. Considerando i versetti precedenti dobbiamo constatare che tra gli apostoli Tommaso è “in buona compagnia” con la sua “incredulità”. Egli rappresenta tutti coloro che, nei secoli fino ad oggi, sono scossi dal dubbio e dall’incredulità verso Cristo e la sua Chiesa. Tommaso incontra il Risorto nella prima domenicale, memoria di pasqua, della Chiesa primitiva: dei primi cristiani. Così egli diventa un invito agli increduli, dubbiosi e lontani di tutti i tempi di accostarsi alla comunità cristiana.
Tommaso si è riavvicinato alla comunità degli apostoli, pur con il cuore ancora incredulo. Il Signore ripete il saluto pasquale: “Pace a voi!”. Poi si rivolge a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente! ” (20,27). Vale a dire: la comunità cristiana, riunita per la liturgia domenicale, è il luogo di incontro con Cristo. Egli si rivela nella preghiera della comunità e nella Parola di Dio ascoltata: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20); e nei sacramenti celebrati dalla comunità Egli si fa “toccare”.
Riconoscendo Cristo, Tommaso confessa: “ mio Signore e mio Dio!” L’incredulità guarita di Tommaso diventa esortazione per i futuri “ricercatori di Dio”, di aver il coraggio di credere nella testimonianza degli apostoli trasmessa dalla Chiesa. Invero, solo chi crede in Cristo trova la vita, nel tempo e nell’eternità. Così l’evangelista conclude: “questi [segni di Gesù] sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20,31). Cristo doni ai pastori della Chiesa e alle comunità ecclesiali di proclamare le sue parole e i suoi segni nel mondo e di essere autentici luoghi di incontro con Dio.
Fonte: “Testimoni della Luce” – questa rubrica a cura di P. Joseph Heimpel, ocd nasce con l’idea di pubblicare meditazioni sul Vangelo festivo, sulla vita cristiana e su questioni attuali, attinenti all’obiettivo principale. Canale Telegram @carmelitanicentroitalia