Se smettiamo di ascoltare, di farci distrarre dal rumore del mondo, dal vociare sgraziato di infine carovane di parole, che spesso ci attraversano e che a volte sostano dentro di noi, quasi sempre ci troviamo immersi in una cascata di silenzio dove l’acqua siamo noi stessi e il nostro scendere in modo fecondo nelle profondità del nostro mondo interiore.
Come nel deserto, con la magia e la sinuosità delle sue dune, apparentemente privo di vita e inospitale, alla fine dentro e attorno a noi c’è silenzio, tanto quanto basta per capire che del silenzio non capiamo mai abbastanza, che ogni volta esso ci coglie d’improvviso, ci provoca e ci costringe a prendere le misure con l’essenziale della vita.
Il silenzio va capito, non solo ascoltato. Il silenzio va digerito, non solo amaramente ingoiato. Il silenzio va vissuto, scoprendo in esso un senso gradualmente nuovo, vitale, e non più percepito come la prossimità di una condanna a un inevitabile oblio.
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Se da una parte non ricordiamo nemmeno più quante notti abbiamo passato piangendo sul cuscino della nostra storia personale le lacrime più segrete, perché ci sentivamo soli, perché non ci abbracciava più nessuno, al contrario nel deserto, nel silenzio più presente di qualsiasi altra cosa, iniziamo a distillare delicatamente i pensieri, le emozioni, i sentimenti più belli, per ritrovare in essi l’essenza della nostra vita.
È uno sforzo non da poco trasformare in qualcosa di gradevole il bello della propria storia, le tante e diverse dimensioni dei petali del proprio esistere, capacità, doti, qualità personali. Come i petali di una rosa vengono selezionati, fatti bollire in una pentola e lì lasciati a decantare, per travasarne poi l’acqua di rose in bottiglie da conservare e da regalare, allo stesso modo esiste dentro di noi un processo vitale di distillazione della bellezza della propria vita, per essere donata e apprezzata, per diventare profumo del nostro silenzio.
Per gentile concessione di Don Sergio Carettoni dal suo blog.