Fatti (un) regalo
Vogliamo vedere Gesù.
È il desiderio che ci spinge a vivere, nonostante tutto. La speranza che ci aiuta a dare senso al deserto (di pace, di relazioni, di senso) che stiamo vivendo.
Un desiderio che emerge dal profondo: Vogliamo vedere Gesù.
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Sì, ho un desiderio interiore fortissimo, crescente, totalizzante, di vedere Gesù.
Non solo sentirne parlare, o leggere le sue parole. Ma vederlo. Con gli occhi dell’anima, con lo sguardo interiore, con la preghiera.
Vogliamo vedere Gesù chiedono nel vangelo di oggi alcuni greci, i pagani, i lontani di ieri e di oggi.
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Mi piacerebbe tanto, quanto lo desidero, quanto lo sogno, che anche oggi accadesse come quel giorno. Che chi desidera l’incontro con Gesù si rivolgesse ai discepoli. A noi. A me.
A quelli che sono in sintonia con loro, anzitutto: Filippo, il cui nome lascia intendere ascendenze col mondo greco, e poi Andrea.
Come mi piacerebbe che fossimo noi, i discepoli, ad essere capaci di condurre ancora a Gesù.
Ma, purtroppo, spesso, troppo spesso, i greci non vengono da noi perché abbiamo perso di credibilità. Chi cerca Dio, chi cerca il Maestro, chi cerca il Cristo, troppe volte si trova da solo nel suo cammino. Fatica a trovare, anche fra noi discepoli, uomini e donne capaci di accoglierli, disposto ad ascoltarli, determinati a diventare compagni di viaggio.
Possa questa quaresima aiutare noi fragili discepoli a tornare ad essere portatori di Cristo. Cristofori.
Nonostante le paure, dentro questo tempo fragile e sospeso, strano, esasperante.
Per tornare ad accogliere i tanti lontani, perché sentinelle sui confini.
Perché noi per primi siamo greci diventati discepoli.
Il seme
Filippo e Andrea vanno ad informare Gesù di quell’incontro.
E Gesù ne esce scosso. Come se fosse un segnale. E lo è. Ora l’annuncio ha raggiunto i confini, ha varcato le porte di Israele. La missione è completata, si è compiuta. È giunta l’ora, il tempo di manifestarsi definitvamente.
Gesù sa che il suo tempo è venuto. Un’ultima prova, un ultimo segnale, imponente, estremo, grandioso, si staglia all’orizzonte.
Il vangelo di Giovanni è costruito come un immenso processo al Nazareno, sin dalle prime pagine. Il rifiuto da parte del Sinedrio e dei benpensanti, dei devoti e dei detentori della verità si palesa da subito. Gesù sa che il suo modo di parlare di Dio non può essere tollerato, visto che non è stato possibile ricondurlo a normalità.
Non sa cosa accadrà. Sa solo che è pronto ad andare fino in fondo.
A non cedere.
Morirà, piuttosto che rinnegare il volto del Padre.
Allora parla di fecondità. Di seme che deve morire per portare frutto.
La gloria, la presenza di Dio, la shekinah, si manifesterà in Gesù, quando donerà definitivamente la sua vita.
Il cuore dell’annuncio di Gesù non è la morte, ma il portare frutto.
Ci sono gesti che apparentemente sono un fallimento ma che, invece, sono gravidi di vita e di futuro. Come la croce che non rappresenta un grande dolore, ma un immenso amore, il più grande dono di sé che sia possibile vivere.
Donare la vita
Gesù parla di odiare questa vita per conservarla per l’eternità.
Brutta traduzione. Gesù sta dicendo che esiste una vita più intensa nascosta in questa nostra vita. Una vita che è riflesso dell’Eterno. Una vita che si manifesta quando finalmente entriamo nella logica del dono, del servizio.
Servi della felicità altrui.
Servi come Filippo e Andrea che portano i greci ad incontrare Gesù.
Non è facile donare la vita. Non è facile diventare dono.
In perenne bilico fra un narcisismo innalzato a regola di vita e un servilismo strisciante vestito da umiltà, donare la vita è una lotta continua, un equilibrio difficile che solo alla luce dello Spirito Santo possiamo realizzare.
E che Gesù realizza come mai nessuno prima di lui.
Libero. Senza rancore. Senza rabbia. Senza pianti. Senza recriminazioni.
Libero di donare senza aspettarsi nulla in cambio.
Questo significa seguire il Nazareno, questo significa diventare discepoli.
Turbamento
Ma non è una scelta semplice, quella del dono.
Né eroica. Né devota.
È sangue e fango. È paura e tentennamento. È cadere e rialzarsi. È accettare che la vita, necessarimente, procede a zig-zag.
Gesù è turbato, e lo dice. E vorrebbe non arrivare fino a questo punto, fino al marcire in terra.
Tentenna, parla ad alta voce, vorrebbe essere salvato dalla tenebra che si staglia all’orizzonte.
Ma si fida di Dio. Si fida del Padre.
Sia Lui a decidere. Sia Lui. Se questo manifesta la gloria agli uomini, sia.
Accada.
Quella croce, quel dono, quel Dio osteso e osceno, quella (apparente) brutale sconfitta esprime pienamente la logica del Padre. Che ama fino a morirne.
Mi rattrista questo Vangelo.
Perché vedo il dolore del Signore.
Mi consola questo Vangelo.
Perché vedo il dolore del Signore.
Che è il mio. Che è esattamente il mio.
Se Gesù ha avuto paura, cosa ho da temere? Perché mai dovrei nascondere le mie fragilità e fingere di essere ciò che non sono: forte?
Deciso a donare, sì. Ma pavido e vigliacco. Desideroso di essere discepoli, ovvio, ma spesso chiedo di essere salvato dalla terra umida e buia.
Ma da questa terra Gesù sarà innalzato.
E tutti volgeranno lo sguardo. Lo alzeranno.
Noi siamo i frutti di quel seme.
Io. Tu.
Noi siamo frutto di quel dono.
Gv 12, 20-33 | Paolo Curtaz 18 kb 14 downloads
Quinta domenica di Quaresima – Ger 31,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12, 20-33 …Io ci sono e sono con voi. Ogni giorno alle 20 (Alle 21 la domenica) sui miei canali Facebook e Youtube non mancate la piccola lectio #FTC per far crescere la fede e la speranza.
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