Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 10 marzo 2024.
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Di là verrà a giudicare
Un giorno Dio valuterà la riuscita o il fallimento della vita di ognuno. Di là verrà a giudicare è uno degli articoli della fede che professiamo, ma forse non ci siamo mai chiesti cosa significhi di là. Di là, da dove? Non ci siamo posti questa domanda, forse perché la risposta ci sembrava scontata: ritornerà dal cielo.
Il Risorto ha promesso ai discepoli di rimanere con loro “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), dunque, non c’è da attendersi un suo ritorno e il trono su cui si è assiso per pronunciare il suo giudizio non va collocato in cielo, ma sulla terra. Dove? Ecco la sorpresa: è dalla croce che egli giudica il mondo.
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È Gesù, il crocefisso, che, rovesciando le prospettive e i valori del mondo, giudica le sconfitte una vittoria, il servizio un potere, la povertà una ricchezza, la perdita un guadagno, l’umiliazione un trionfo, la morte una nascita. È con Gesù crocefisso che ognuno si deve confrontare, perché egli solo è colui che dice la verità sulle scelte dell’uomo ed è solo il suo giudizio che deve essere “temuto”, vale a dire, accolto e seguito.
Non incute paura il giudizio del Crocefisso. Costituisce, sì, la più severa condanna di ogni malvagità, ma è motivo di gioia e di speranza per il peccatore; dal Crocefisso, infatti, ognuno si sente ripetere soltanto: “Io non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Fa che io non tema i giudizi degli uomini, ma che segua i tuoi giudizi, o Crocifisso”.
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Prima Lettura (2 Cr 36,14-16.19-25)
In quei giorni 14 tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato in Gerusalemme.
15 Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. 16 Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
19 Quindi incendiarono il tempio, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutte le sue case più eleganti.
20 Il re deportò in Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, 21 attuandosi così la parola del Signore, predetta per bocca di Geremia: “Finché il paese non abbia scontato i suoi sabati, esso riposerà per tutto il tempo nella desolazione fino al compiersi di settanta anni”.
22 Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: 23 “Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!”.
Gli israeliti ritenevano che, nell’oltretomba, al giusto e al peccatore fosse riservata la stessa sorte: divenire “ombre” che vagano in un luogo di silenzio, di tenebre e senza gioie (Sl 88,13). Per questo consideravano il bene e il male, i successi e le sventure di questa vita, come segni sicuri delle benedizioni o dei castighi di Dio per le opere compiute. Anche gli autori dei libri delle Cronache la pensavano in questo modo e il brano che oggi ci viene proposto ne è una prova.
Siamo nel V-IV secolo a.C., sono già passati molti anni da quando Nabucodònosor ha distrutto Gerusalemme e deportato a Babilonia gli scampati alla spada (vv. 19-20); gli esuli hanno fatto ritorno nella terra dei loro padri, eppure non riescono ancora a darsi una ragione della sciagura che li ha colpiti. Come mai – si chiedono – Dio ha permesso che il tempio e la città santa fossero distrutti?
La prima parte della lettura scioglie questo enigma (vv. 14-18): Israele è stato colpito a causa delle sue infedeltà e dell’insensatezza dei suoi capi e dei suoi sacerdoti. Il Signore amava il suo popolo, se ne prendeva cura, mandava i profeti per indicare il cammino della vita, ma Israele disprezzò le parole dei suoi inviati, li schernì e perseguitò. Dio allora fu colto dall’ira e punì, senza rimedio, il popolo, che fu sconfitto e umiliato dai babilonesi.
La seconda parte della lettura (v. 21) introduce un secondo esempio di retribuzione rigorosa. Prima dell’invasione dei babilonesi, Israele aveva trascurato l’osservanza dell’anno sabbatico, non aveva lasciato riposare la terra ogni sei anni, per permettere ai poveri e agli animali di nutrirsi dei frutti spontanei del suolo (Lv 26, 34). Per questo Dio aveva fatto scontare al suo popolo questa infedeltà mandandolo in esilio per settant’anni, così la terra riposò per tutto il tempo che le era stato “sottratto”.
La logica del libro delle Cronache ci sorprende e va chiarita. Di fronte a questo Signore permaloso e suscettibile rimaniamo allibiti e ci chiediamo: che Dio è mai questo che si adira come un uomo, si comporta come un contabile, prende nota dei debiti e dei crediti, tira freddamente le somme e punisce con severità, coinvolgendo addirittura degli innocenti?
Questo modo di intendere la retribuzione solleva difficoltà insormontabili. Come spiegare, ad esempio, le sventure che colpiscono anche i giusti e la prosperità dei malvagi? Al colmo dell’amarezza, Giobbe, sconsolato, arguiva: non so neppur io se sono innocente o colpevole; ma so che detesto la vita, perché sono costretto a concludere che Dio “fa perire l’innocente e il reo. Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli se ne ride! La terra è in balia del malfattore ed egli vela il volto dei giudici. Se non lui, chi dunque?” (Gb 9,21-24) e il Qoelet: “Tutto ho visto nei giorni della mia vanità: perire il giusto nonostante la sua giustizia, vivere a lungo l’empio nonostante la sua iniquità” (Qo 7,15). Anche scorrendo la storia di Israele, si è costretti ad ammettere che spesso, proprio quando era fedele al Signore, questo popolo veniva sopraffatto dai nemici.
Indubbiamente il linguaggio impiegato è arcaico, ricorre spesso nell’Antico Testamento, ma non è più il nostro: presenta come castigo di Dio ciò che, in realtà, è solo una conseguenza degli errori dell’uomo. Non Dio, ma il peccato castiga chi lo commette e, a volte, si ripercuote, con le sue nefaste conseguenze, anche “nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 34,7). Questa verità era ben nota ai saggi dell’Antico Testamento, che la ripetevano frequentemente: chi pecca contro Dio, danneggia se stesso; quanti lo odiano amano la morte (Pr 8,36); “Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani, perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (Sap 1,12).
Non è dunque stato il Signore a mandare in esilio Israele né, ancor meno, a incitare Nabucodònosor a scatenare guerre e a commettere crimini e violenze. È stata l’insensatezza del popolo e dei suoi governanti a provocare la rovina. Quattro secoli più tardi, Gerusalemme ripeterà l’errore: rifiuterà “la via della pace” proposta da Gesù, non riconoscerà “il tempo in cui Dio l’ha visitata” e decreterà la propria distruzione (Lc 19,41-44).
La lettura si chiude (vv. 22-23) con il racconto del ritorno dei deportati. Dopo lunghi anni d’esilio, Dio suscitò Ciro, re di Persia, che emanò un editto in cui concedeva a tutti la libertà.
È l’immagine viva della conclusione di ogni storia fra Dio e l’uomo: l’ultima parola l’avrà sempre il suo amore.
Come gli israeliti infedeli, chi si allontana da Dio diviene schiavo dei propri idoli, ma il Signore non lo abbandona mai. Non c’è prigione profonda e buia che egli non visiti, se là vi scorge un suo figlio; non c’è condizione intricata che egli non sciolga, né catene del vizio che non sia deciso a spezzare, né odi atavici che egli non voglia o non sappia comporre.
Seconda Lettura (Ef 2,4-10)
4 Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, 5 da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. 6 Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, 7 per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
8 Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; 9 né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. 10 Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo.
Questo brano va collocato nel contesto da cui è tolto, il secondo capitolo della Lettera agli efesini che inizia presentando, in termini drammatici, la condizione dell’uomo lontano da Dio e dalla salvezza. Chi conduce una vita corrotta, chi è schiavo dei propri vizi non sta costruendo la propria vita, sta semplicemente consumando la propria esistenza, è già morto.
Paolo include anche se stesso fra coloro che si trovavano in questa disperata condizione: “Nel numero di quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi, un tempo, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri” (Ef 2,1-3).
A questo punto inizia la nostra lettura: Dio, ricco di amore e di misericordia, è intervenuto per liberare l’uomo e lo ha fatto risuscitare, con Cristo, a nuova vita (vv. 4-7).
Questa salvezza non è il premio per le nostre buone azioni, ma è un dono completamente gratuito del Padre, per cui nessuno può vantarsi del bene che ritrova in sé né, tanto meno, può disprezzare chi, purtroppo, non ha ancora aperto il proprio cuore a tanta grazia (vv. 9-10).
Se è vero che non è l’uomo a salvarsi mediante le proprie opere buone, è altrettanto vero però che queste costituiscono la risposta necessaria all’amore di Dio: sono il segno che la grazia del Signore è stata accolta e ha cominciato a produrre frutti (v. 10).
Vangelo (Gv 3,14-21)
In quel tempo Gesù disse a Nicodemo: 14 “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15 perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.
16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. 17 Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19 E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. 21 Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.
Solo l’evangelista Giovanni parla di Nicodemo, personaggio ragguardevole fra i farisei, forse un membro del grande sinedrio, che, approfittando del buio e del silenzio della notte, si recò da Gesù. Pare di vederlo, quest’uomo già avanti negli anni, muoversi nell’oscurità, rasentando, circospetto, i muri della città di Gerusalemme, per non essere scorto da qualche suo collega. È alla ricerca della luce e ha intuito chi gliela può dare: il giovane rabbi di Nazaret, l’uomo “venuto da Dio come maestro” (Gv 3,2). Entra in scena di notte e nella notte si dilegua, senza che l’evangelista ci riferisca come si è concluso il suo dialogo con Gesù.
Dopo qualche tempo lo si ritroverà fra i sommi sacerdoti di Gerusalemme impegnati in un’animata discussione per trovare il modo di togliere di mezzo Gesù. Egli li ascolterà in silenzio, poi butterà lì una frase provocatoria: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Riceverà una risposta irridente: “Studia e vedrai che il Profeta non sorge dalla Galilea!” (Gv 7,51-52). Povero Nicodemo, troppo leale per trovarsi a suo agio in quell’assemblea di beffardi!
Farà la sua ultima comparsa sul Calvario, assieme a Giuseppe d’Arimatea, per avvolgere in bende il corpo di Gesù e deporlo nel sepolcro (Gv 19,39-40).
Il brano di oggi costituisce l’ultima parte del suo dialogo notturno.
Nella prima parte (vv.13-15), Gesù gli richiama un episodio accaduto durante l’esodo ed egli, “il maestro d’Israele” (Gv 3,10), lo ha certo presente. Nel deserto, molti israeliti erano caduti vittime dei serpenti velenosi; Mosè si era rivolto al Signore che gli aveva ordinato di costruire un serpente di bronzo e di issarlo su un palo. Chi, dopo essere stato morsicato, avesse sollevato lo sguardo verso quel serpente, aveva salva la vita (Nm 21,4-9).
Il fatto è piuttosto singolare e pare ricollegarsi a certe pratiche magiche e idolatriche dell’antichità. Anche nel tempio di Gerusalemme era conservato un serpente di bronzo che, si diceva, fosse quello innalzato da Mosè.
Difficile stabilire cosa realmente accadde durante l’esodo. Il messaggio dell’episodio è invece chiaro e già i rabbini lo avevano intuito: gli israeliti non erano guariti perché guardavano al serpente, ma perché elevavano il loro cuore a Dio; era il Signore che salvava, non l’effige di bronzo. Il libro della Sapienza commenta così il fatto: “Chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quello che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti” (Sap 16,7).
Gesù si rifà a questo fatto e lo interpreta come un simbolo di quanto sta per accadere a lui: sarà innalzato sulla croce e tutti coloro che lo contempleranno avranno salva la vita.
Nicodemo, che aveva capito poco o nulla di quanto Gesù aveva detto sulla necessità di “nascere dall’alto”, ha certo capito ancora di meno sull’innalzamento del Figlio dell’uomo. È certo rimasto sorpreso, sconcertato, forse anche un po’ deluso. Ha ascoltato in silenzio, incapace persino di formulare un’ultima domanda. Non poteva capire perché gli mancava la luce del Risorto e le affermazioni di Gesù rimanevano avvolte in un’aura di mistero. Non è così per noi che oggi, alla luce degli avvenimenti della Pasqua, siamo in grado di capire: guardare a Gesù “innalzato” significa “credere in lui” (v. 15), tenere gli occhi puntati sull’amore che egli ha manifestato.
La croce non è un amuleto da appendere al collo né un simbolo che indica la conquista di un territorio o la sacralizzazione di un ambiente. È il punto di riferimento di ogni sguardo del credente che, in essa, vede sintetizzata la proposta di vita fattagli dal Maestro. Sulla croce finivano gli schiavi, solo gli schiavi. Dall’alto della croce Gesù proclama che l’uomo riuscito secondo Dio è colui che si è reso volontariamente schiavo per amore, servo dei propri fratelli fino a consumare la propria vita per loro.
Oggi i serpenti che feriscono, che avvelenano l’esistenza e spengono la vita si chiamano orgoglio, invidie, risentimenti, passioni sregolate. Solo lo sguardo rivolto a colui che è stato innalzato può curare dal veleno di morte che iniettano nel cuore di ogni uomo. Un giorno però, tutti – assicura l’evangelista – “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (19,37) e saranno salvi.
Nella seconda parte del brano (vv. 16-21) abbiamo una meditazione teologica sulla missione del Figlio dell’uomo: Dio non lo ha mandato “per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.
A differenza di Matteo che, per richiamare l’importanza e le conseguenze eterne delle scelte fatte oggi, ricorre all’immagine del giudizio finale, Giovanni impiega un linguaggio diverso e più consono alla mentalità di oggi: esclude addirittura che Dio giudichi l’uomo e parla di un giudizio che si attua nel presente e che è solo salvezza.
Le posizioni teologiche di Matteo e Giovanni sembrano contradditorie; in realtà, pur impiegando linguaggio e immagini differenti, i due evangelisti propongono la stessa verità. Il giudizio di Dio non viene pronunciato alla fine dei tempi, ma oggi; di fronte a ogni opzione che l’uomo è chiamato a fare, il Signore fa udire il suo parere: indica ciò che è conforme alla sapienza del cielo e mette in guardia dalle scelte di morte.
Non si afferma che alla fine Dio rifiuterà per sempre chi ha sbagliato, chi ha seguito altri criteri, altri giudizi. Dio non scaccerà nessuno, egli “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) . L’assurdità di una sua condanna è presentata da Paolo con una serie di domande retoriche: “Chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio che rende giusti? Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?” (Rm 8,31-34). La conclusione è scontata: “Nessuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,39).
Tuttavia, al termine della vita, quando Dio “proverà col fuoco la qualità dell’opera di ognuno” (1 Cor 3,13), verranno evidenziate la conformità o la difformità delle azioni di ciascuno con la persona di Cristo. Dio accoglierà certamente tutti fra le sue braccia, ma qualcuno sarà costretto ad ammettere di aver gestito molto male o di avere irrimediabilmente sprecato l’opportunità unica che gli era stata offerta. L’opera di costui – ammonisce Paolo – “finirà bruciata; anche se egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Cor 3,15).
Per gentile concessione di Settimana News.