Lectio divina della Liturgia della Parola delle 4 messe di Natale
NATALE DEL SIGNORE
MESSA VESPERTINA NELLA VIGILIA
Dal libro del profeta Isaìa Is 62,1-5
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Il Signore troverà in te la sua delizia.
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
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finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
Per amore di Gerusalemme
Quello del profeta per la sua città è un amore impaziente che con forza richiede la restaurazione della giustizia e della «salvezza». L’oracolo non esprime solo il desiderio di veder ricostruiti edifici e reinsediati gli abitanti ma anche il fiducioso abbandono nelle mani di Dio. La restaurazione sognata comporta una vera reviviscenza della vita cittadina, della gioia dello sposo e della sposa, dei canti e delle feste, della fecondità della terra arata, seminata, veramente »sposata». L’amore per la città è l’amore per il popolo., con la sua cultura e la sua storia. Il profeta in nome dell’amore per la sua città e il suo popolo si fa loro intercessore insegnando ai figli d’Israele a fare lo stesso per Gerusalemme.
Il profeta che sogna Gerusalemme, città dell’incontro tra amici, difesa contro i nemici, culla della cultura, non si rassegna a vederla come luogo di violenza e di solitudine, di indifferenza e crudele competitività. Perciò invita i suoi concittadini a non smettere di sperare perché dove c’è speranza per la città umana c’è anche la salvezza.
Salmo responsoriale Sal 88
Canterò per sempre l’amore del Signore.
«Ho stretto un’alleanza con il mio eletto,
ho giurato a Davide, mio servo.
Stabilirò per sempre la tua discendenza,
di generazione in generazione edificherò il tuo trono».
Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua giustizia.
«Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza”.
Gli conserverò sempre il mio amore,
la mia alleanza gli sarà fedele».
Dagli Atti degli Apostoli At 13,16-17.22-25
Testimonianza di Paolo a Cristo, figlio di Davide.
Paolo, [giunto ad Antiòchia di Pisìdia, nella sinagoga,] si alzò e, fatto cenno con la mano, disse:
«Uomini d’Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. Il Dio di questo popolo d’Israele scelse i nostri padri e rialzò il popolo durante il suo esilio in terra d’Egitto, e con braccio potente li condusse via di là.
Poi suscitò per loro Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”.
Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele.
Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”».
Il nostro Salvatore è Gesù Cristo
L’apostolo Paolo nella sua prima predicazione, quale missionario della Chiesa, evangelizza annunciando Gesù nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, dove erano state appena proclamate le Scritture in giorno di sabato. Paolo sintetizza il messaggio della Scrittura ricordando l’esperienza fatta da Israele di essere il popolo eletto e, perciò stesso, destinatario della potente misericordia di Dio che lo ha riscattato dalla schiavitù dell’esilio babilonese. Il Signore ha voluto rendere sempre più stabile la relazione con il suo popolo scegliendo un re dal cuore umile. Benché Davide sia presentato come modello di sovrano obbediente e giusto, non era eterno. Per cui il Signore aveva promesso un discendente il cui regno sarebbe stato eterno, senza fine. Con tale promessa Dio si impegnava ad una alleanza nuova ed eterna con Israele. Ecco il cuore dell’annuncio cristiano rivolto al popolo d’Israele: Gesù è il Cristo! La testimonianza del Battista raccoglie tutte le profezie che invitavano tutti ad alzare lo sguardo per contemplare la salvezza ormai vicina. Tanti nel passato hanno preteso di presentarsi come i salvatori del mondo. Nessuno può intitolarsi questa autorità, ma solamente Dio che opera meraviglie attraverso il suo servo e figlio Gesù Cristo.
+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 1,1-25
Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide.
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.
Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asaf, Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozìa, Ozìa generò Ioatàm, Ioatàm generò Àcaz, Àcaz generò Ezechìa, Ezechìa generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosìa, Giosìa generò Ieconìa e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconìa generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa «Dio con noi».
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù.
LECTIO
Il Vangelo di Matteo si apre con la «genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (1,1). Si tratta di una lunga lista di uomini che va dal primo patriarca a Giuseppe, figlio di Giacobbe, presentato come lo sposo di Maria (1,16). L’evangelista traccia una sorta di sentiero nella storia d’Israele suddivisa in tre grandi fasi, ciascuna composta da quattordici generazioni. La prima va da Abramo a Davide, la seconda da Davide fino all’esilio in Babilonia e, in fine, la terza da Babilonia a Cristo. La strategia narrativa mira a ripercorrere tutta la storia d’Israele sottolineando l’intreccio tra l’opera di Dio e quella dell’uomo. Le vicende storiche narrate dai libri biblici, e riassunte nella genealogia, rivelano quanto sia importante per la vita del popolo il dialogo con il Signore. L’obbedienza è condizione di crescita, mentre la disobbedienza è causa di fallimento. Infatti, quando la parola di Dio viene accolta e messa in pratica, soprattutto dai suoi capi, il popolo cresce e si fortifica. La storia registra una parabola ascendente che fa di un piccolo clan nomade, guidato da Abramo, un regno governato dal re Davide. Come accade a tutti i regni, anche quello d’Israele entra in crisi. La supera nella misura in cui riconosce che solo Dio è il Signore e che il suo regno non avrà fine perché sarà dato in mano al suo consacrato. Dopo la fase crescente e quella decrescente fino quasi a sparire, viene quella del compimento della promessa che Dio aveva fatto ad Abramo e confermata a Davide. L’evangelista vuole dimostrare che Gesù è il Cristo atteso, che porta a compimento l’impegno preso da Dio con le generazioni precedenti. La fedeltà di Dio diventa evento grazie all’obbedienza dell’uomo. La catena generativa biologica è attraversata dal flusso generativo dello Spirito che guida la storia verso il suo compimento.
Scorrendo la genealogia scopriamo che tutti i personaggi nominati sono soggetti del verbo generare. Tutti tranne Giuseppe, lo sposo di Maria dalla quale fu generato Gesù Cristo. Al contrario di quello che accade per Tamar, Racab, Rut e Betsabea, dalle quali nacquero figli generati rispettivamente da Giuda, Salmon, Booz e Davide, Giuseppe non generò Gesù da Maria. Il v. 16 usa due passivi teologici per indicare l’azione divina: Gesù «fu generato» e «chiamato». Matteo diventa esplicito nel v. 18 dove lo Spirito Santo è indicato come l’artefice della gravidanza di Maria, attribuendo così la paternità direttamente a Dio. Per eliminare ogni dubbio viene specificato che questo avvenne prima che Giuseppe l’avesse accolta nella sua casa e avesse avuto un rapporto sessuale con lei. Sembra che Giuseppe sia vittima di una ingiustizia perché viene bypassato. La scoperta della gravidanza di Maria non deve essere stato un momento facile per Giuseppe. L’evangelista lo chiama uomo giusto. Egli era consapevole di essere legalmente lo sposo di Maria ma anche che i legami affettivi con lei erano profondi e sinceri. Cosa intende Matteo con l’aggettivo giusto riferito a Giuseppe? Nella tradizione sapienziale, espressa nel Sal 1, il giusto è colui che fa aderire la sua volontà alla Legge del Signore perché la medita giorno e notte (cf. Sal 1,2). Le sue opere sono buone non perché sono una pedissequa esecuzione della lettera ma perché, mediante la preghiera, lo Spirito dell’uomo è in comunione con quello di Dio. L’uomo giusto non è privo di coscienza e di volontà. Giuseppe, infatti, proprio perché giusto è un uomo che ragiona confrontandosi con la parola di Dio ricercando il senso degli eventi storici e il segno della volontà divina. La giustizia di Giuseppe non consiste nella fedeltà alla Legge ma, prima di essa, impone la fedeltà a Maria. Il rispetto nei suoi confronti gli suggerisce innanzitutto di non umiliarla accusandola pubblicamente e di conseguenza di lasciarla andare in modo segreto. Matteo rimane volutamente sul vago circa i propositi di Giuseppe perché i pensieri si accavallavano in maniera tumultuosa incapace di prendere una decisione netta.
Nel bel mezzo di una crisi di coscienza interviene la voce di Dio che rivela a Giuseppe la verità. Nell’Antico Testamento i sogni sono un mezzo attraverso il quale Dio comunica. Il sogno evoca lo stato di torpore o di sonno nel quale, trovandosi in una condizione di totale incoscienza e vulnerabilità, l’uomo è paradossalmente meglio disposto ad accogliere la rivelazione. Il sonno richiama la morte con la quale cessa ogni attività umana per lasciare spazio all’azione di Dio e alla forza della sua Parola che ha il primato su tutto. Il contenuto della rivelazione riguarda l’intervento di Dio su Maria. Prima di Giuseppe è arrivato lo Spirito Santo che ha fecondato Maria rendendola madre. La paternità di Giuseppe non viene esclusa ma integrata nel progetto di Dio. La Legge imponeva al marito tradito di ripudiare la propria moglie motivando la sua scelta con l’evidenza della gravidanza. Con quel gesto più che liberare la sposa dai vincoli matrimoniali era un modo per sbarazzarsi di lei. La norma sul ripudio, pur essendo sbilanciata decisamente dalla parte dell’uomo, era un modo per tutelare la donna dalla possibile ritorsione violenta del marito. In teoria, il tradimento consumato prima della coabitazione degli sposi comportava la lapidazione della donna. S’intendeva così lavare nel sangue l’onta subita dall’uomo. Il ricorso al ripudio da parte di Giuseppe aveva l’intento di non mettere in pericolo la vita di Maria. Con queste intenzioni Giuseppe dimostra che pur nella rabbia e nella confusione egli è giusto perché pone avanti al proprio onore la dignità della vita della sua sposa. La decisione di ripudiarla in segreto potrebbe anche significare che Giuseppe abbia fatto la scelta di non avere con Maria alcun rapporto coniugale pur abitando sotto lo stesso tetto. In altri termini, voleva salvare la forma, vivendo da sposi, pur mantenendo nella sostanza la distanza che si era venuta a creare a causa della gravidanza.
L’intervento dell’angelo corregge il tiro dei ragionamenti di Giuseppe. Lo invita ad abbandonare i dubbi e gli indugi per accogliere la sua sposa Maria perché il figlio che porta in grembo, pur essendo stato concepito dallo Spirito Santo, è suo. Giuseppe è chiamato ad accogliere Maria non come la donna da cui avere il proprio figlio ma come la sposa con la quale accogliere il dono del figlio dalle mani di Dio. Dunque, quell’evento sconvolgente mette in crisi i principi di giustizia dati per scontati fino a quel momento. Giusto non è solamente l’uomo fedele alla lettera della legge che si sente meritevole di ricevere quello che il suo cuore desidera. Con Giuseppe si ridisegna la figura del giusto e si anticipano i lineamenti della figura messianica del Servo giusto che giustificherà molti. L’angelo è latore del messaggio divino nel quale si propone a Giuseppe la sua missione di sposo e di padre. Dopo essere diventato sposo accogliendo Maria nella sua casa, Giuseppe è chiamato a diventare padre dando al figliolo il nome indicato da Dio: Gesù. Imponendo quel nome, non scelto da lui, Giuseppe avrebbe confermato il suo essere pienamente a servizio della volontà di Dio. Il nome indica la missione salvifica universale affidata a Gesù. Egli viene per rigenerare l’umanità riconciliandola con il Signore. Il cammino indicato a Giuseppe dall’angelo è un itinerario di riconciliazione, passaggio dal ripudio all’accoglienza, dalla sanzione alla riconciliazione, dall’essere giusti di fronte alla Legge all’essere santi davanti a Dio. Il titolo «figlio di Davide» accomuna Gesù (1,1) e Giuseppe (1,20) perché entrambi coinvolti nell’unico progetto di Dio anche se con ruoli diversi. Infatti, con la venuta di Gesù si compie la parola di Dio ed è grazie a Giuseppe che il compimento della volontà divina inizia a realizzarsi. Il ministero di Giuseppe è propedeutico e preparatorio affinché la promessa di Dio diventi realtà e la missione di Gesù possa essere evento di salvezza.
La citazione del profeta Isaia richiama la vocazione dell’intero popolo. La condizione di verginità sta ad indicare l’integrità e la purezza che caratterizza il giusto. Essa è dono di Dio che l’accoglienza della Parola non fa perdere ma esalta ancora di più perché la rende feconda. Vergine non è più sinonimo di rinuncia per conservare la propria purezza, ma è la condizione di rigenerazione operata da Dio, per essere fecondi e generativi. Nella verginità generativa di Maria Giuseppe, alla luce della Scrittura comprende anche il valore della sua paternità verginale che esercita e conserva, insieme alla sua sposa, mediante l’obbedienza fiduciosa alla parola di Dio.
MEDITATIO
Paternità frustrata
Giuseppe ci guida all’imminente festa del Natale nella quale anche noi accoglieremo il bambino generato dallo Spirito Santo in Maria. Il patriarca raccoglie l’eredità della promessa fatta ad Abramo e a Davide, attraverso la lunga catena delle generazioni che attraversa tutta la storia d’Israele. Tuttavia, questa concatenazione sembra spezzarsi nel momento in cui Giuseppe constata amaramente che la sua sposa porta in grembo un figlio che non è suo.
Facile immaginare la rabbia nel sentirsi defraudato del primato sulla sua sposa e la paura, mista a vergogna, per i giudizi degli uomini. La gravidanza inaspettata di Maria gli impone di reagire e di prendere una decisione. È combattuto su quale scelta orientarsi perché l’amore rispettoso per Maria mitiga l’istintività della rabbia che certamente lo avrebbe portato a usufruire della possibilità offertagli dalla legge di accusarla pubblicamente per difendere il suo onore. Giuseppe non è un freddo e cinico calcolatore ma è un uomo giusto che usa misericordia. Perciò, prendendo atto del matrimonio fallito, vorrebbe sciogliere il contratto sponsale senza clamore e senza creare polemiche scandalose.
Dalla paura della novità alla fiducia nella Parola
Giuseppe è molto diverso dal suo antenato, il re Acaz, il quale è pure in difficoltà perché teme di essere aggredito dalla congiura ordita dai due re vicini, quello del regno fratello d’Israele e quello di Damasco. Il re trema come una foglia e il suo cuore è scosso e agitato perché qualsiasi ragionamento che fa, basato su calcoli squisitamente umani e materialistici, lo portano a vedere scenari futuri di sconfitta e distruzione. Dio gli invia il profeta Isaia che lo invita a credere in Dio per avere pace e per vedere il realizzarsi della Sua volontà. Credere significa aggrapparsi alla solida roccia dell’amore di Dio nei momenti in cui perversa la tempesta. Solo in Dio possiamo trovare non le risposte a tutte le nostre domande, ma la forza di rispondere alla Sua domanda con la quale ci invita a collaborare nella sua opera per realizzare il suo sogno.
Il sogno è saper leggere il presente alla luce del futuro di Dio. I due discendenti del re Davide, Acaz e Giuseppe, sono in crisi perché ciò che vedono nel loro presente è letto come segno premonitore di un disastro oramai decretato. Davanti a loro si presenta un futuro nebuloso e incerto che proietta nel presente ombre minacciose che incutono paura e suscitano agitazione e smarrimento.
La parola di Dio ci raggiunge nelle nostre paure e nei rifugi che ci costruiamo nel tentativo di difenderci. Non temere, ripete ancora una volta l’angelo. La Parola di Dio offre una luce per uscire dai labirinti mentali, dai calcoli i cui conti non tornano mai, dalle interpretazioni negative dei segni dei tempi che alimentano paura e rancore. L’angelo annuncia il Vangelo che apre gli occhi e permette di vedere oltre la paura per riconoscere l’operato di Dio. Il bambino custodito nel grembo di Maria è il segno della presenza di Dio nella nostra vita. Non ci abbandona in balia degli eventi che sembrano travolgerci, ma ci precede nel dono che è frutto del suo amore gratuito.
Discernere significa leggere i segni dei tempi riconoscendo in essi la presenza di Dio che opera a nostro favore perché il suo amore è gratuito in quanto è da sempre e per sempre, è eterno.
Il discernimento non è una semplice analisi della realtà che ci lascia così come ci trova, ma ci spinge ad una determinazione, ci induce a fare una scelta e ad assumere una decisione, anzi, a deciderci per qualcuno.
Di Giuseppe non è registrata alcuna parola, ma solo i suoi gesti i quali sono il vangelo più eloquente dell’obbedienza. Come Abramo obbedì silenziosamente al comando di Dio di prendere suo figlio per offrirlo in sacrificio, così Giuseppe, uomo giusto, perché uomo di fede, fa come l’angelo gli aveva ordinato. A Giuseppe non viene chiesto di rinunciare al suo progetto di sposo e di padre, ma di realizzarlo insieme con Dio. L’accusa pubblica o il ripudio segreto avrebbero interrotto quella storia di amore che Giuseppe e Maria avevano iniziato a scrivere insieme.
Il ministero generativo
L’episodio si conclude con la ratifica del matrimonio nel momento in cui Giuseppe, accogliendo Maria in casa sua, iniziano a vivere insieme. Non li unisce la parola datasi reciprocamente, ma la scelta, fatta insieme, di darsi a quel figlio che loro stessi ricevono dalle mani di Dio. Giuseppe pronuncia il suo amen a Dio e diventa custode della santa Famiglia di Nazaret, prima Chiesa domestica.
NATALE DEL SIGNORE
MESSA DELLA NOTTE
O Dio, che hai illuminato questa santissima notte
con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo,
concedi a noi, che sulla terra contempliamo i suoi misteri,
di partecipare alla sua gloria nel cielo.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 9,1-6
Ci è stato dato un figlio.
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Màdian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Ci è nato un figlio
In questo oracolo è un inno di gioia per il compimento dell’annuncio dato ad Acaz della nascita del figlio al quale sarebbe stato dato il nome di Emmanuele, Dio con noi (Is 7, 14s.). La nascita del bambino non è solo una gioia per il re, suo padre, ma per tutto il popolo che, guidato da capi acciecati dall’avidità e dall’orgoglio, brancola nel buio dell’incertezza e della precarietà. Il profeta indica nel figlio del re il segno della presenza potente di Dio che opera la giustizia e costruisce la pace. La guerra e i conflitti fratricidi, generati dal peccato, cedono il posto alla pace e alla libertà. L’immagine del bambino con la sua innocenza, vulnerabilità, insufficienza, povertà, debolezza, contrasta con l’imponenza della macchina militare di un esercito, con la portentosa struttura economica e sociale di uno stato, con il solenne e complicato cerimoniale di corte. Dio sorprende l’uomo capovolgendo le sue attese e le logiche del mondo.
Salmo responsoriale Sal 95
Oggi è nato per noi il Salvatore.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta.
Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli.
Dalla lettera di san Paolo Apostolo a Tito Tt 2,11-14
È apparsa la grazia di Dio per tutti gli uomini.
Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
In Gesù Dio dona la salvezza
La liturgia di Natale propone due brani tratti dalla lettera Tito nei quali Paolo ricorda l’evento capitale per la fede e la vita degli uomini. A Dio è piaciuto rivelarsi a tutti gli uomini, mediante suo Figlio Gesù Cristo, mostrandosi come Salvatore. Offrendosi liberamente alla morte di croce, Egli ha dato sé stesso per noi affinché potessimo essere liberati dalla schiavitù del peccato e formare una comunità che testimonia con la propria vita la bellezza dell’amore di Dio. Il modo con il quale Dio viene incontro all’uomo per amarlo diventa per tutti modello di vita. Egli, che ha rigettato le lusinghe delle tentazioni e ci ha amati fino al “colmo” è luce che traccia la strada attraverso la quale compiere il pellegrinaggio spirituale che ci conduce alla piena conformazione a Cristo e, conseguentemente, alla totale manifestazione in noi dell’amore di Dio.
+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 2,1-14
Oggi è nato per voi il Salvatore.
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
LECTIO
L’episodio della nascita di Gesù è narrato in tre scene. Nella prima (vv. 1-7) viene presentato il contesto storico e geografico e i personaggi di Giuseppe, Maria e il bambino. La seconda scena (vv. 8-14) racconta l’annuncio dell’angelo ai pastori e, infine, nella terza (vv. 15-20) avviene l’incontro tra i due gruppi di personaggi presentati.
I personaggi della prima scena sono nell’ordine: Cesare Augusto, la cui autorità si estende a tutto il mondo abitato, Quirinio che governa per conto dell’imperatore la regione della Siria, Giuseppe, appartenente ad un ramo cadetto del casato di Davide, Maria, sposa di Giuseppe e, infine, il loro bambino che, appena nato, viene avvolto nelle fasce e deposto nella mangiatoia. Lo stesso movimento discendente che caratterizza l’entrata in scena dei personaggi lo si riscontra nelle annotazioni geografiche. Si passa, infatti, dall’intero mondo abitato alla grotta di solito occupata dagli animali che erano a servizio della sussistenza della famiglia.
L’evangelista Luca insiste sul censimento. L’imperatore lo ordina mediante un editto (letteralmente: dogma) che viene eseguito da tutti i sudditi, tra cui c’è anche Giuseppe, abitante di Nazaret di Galilea, ma originario di Betlemme. Giuseppe, in obbedienza all’editto dell’imperatore, si mette in viaggio verso la città di Davide. Di solito con questo nome si intende Gerusalemme, ma Luca vuole sottolineare l’origine. Davide era nato a Betlemme e lì, nella sua casa paterna, era stato unto re dal profeta Samuele. Nel pellegrinaggio di Giuseppe e della sua famiglia si allude al ritorno alle origini, alle sorgenti. Anche se non ne è consapevole Giuseppe, mediante l’obbedienza al comando dell’imperatore, sta compiendo il progetto di Dio. L’insistenza sul censimento e la sottolineatura che Giuseppe era della discendenza davidica pongono sullo sfondo la vicenda narrata in 2Sam 24 e in 1Cr 21 dove si racconta il censimento organizzato da Davide. Il re, dopo averlo indetto, fu preso dal rimorso e chiese perdono a Dio. Il censimento era considerato un peccato perché conoscere il numero della popolazione significava esercitare nei suoi confronti l’autorità di dominio e possesso. In tal modo si pretendeva di sostituirsi a Dio misconoscendone la sua signoria. Il censimento era un modo per riscuotere una tassa e monetizzare. Il peccato sta nel ridurre il popolo a oggetto di speculazione piuttosto che destinatario del proprio servizio. Il peccato fu punito con una pestilenza, contenuta grazie al sacrificio che Davide offrì sull’altare in una aerea sulla quale Salomone avrebbe in seguito edificato il tempio. L’intervento di Dio salva il popolo dalla pestilenza che avrebbe distrutto tutto. Questo avviene pagando un prezzo. Davide sale sull’altare per offrire il sacrificio nello stesso luogo nel quale la tradizione indentifica il sacrificio di Isacco offerto da Abramo. Si instaura così un parallelo tra Gerusalemme, in cui si consumerà il sacrificio pasquale di Cristo col quale verrà consacrato Signore, e Betlemme, scenario dell’unzione regale di Davide e luogo nel quale un bambino sarà deposto in una mangiatoia, profezia del Golgota.
Con Giuseppe c’è anche Maria, la sua sposa promessa, che è incinta. Mentre erano a Betlemme giunse per lei il tempo del parto dando alla luce un bambino. Di lui non si dice nulla se non che fu destinatario di cure amorevoli da parte di sua madre, la quale lo depose nella mangiatoia dopo averlo avvolto in fasce. Con la mangiatoia si identifica l’ambiente più interno della casa nella quale Giuseppe e Maria erano stati ospitati con la nascita del bambino. Probabilmente la famiglia di Nazaret era stata accolta da parenti nella propria dimora, la quale, oltre all’ambiente più domestico, aveva una grotta dotata di mangiatoia per alloggiare anche gli animali.
Dopo la descrizione dell’evento della nascita del bambino, l’evangelista introduce la seconda scena (vv. 8-14) del suo racconto spostando l’attenzione dalla grotta di Betlemme alle campagne circostanti dove all’aperto i pastori vegliavano di notte le loro greggi. Essi sono i destinatari del primo annuncio. La descrizione dell’apparizione angelica e la reazione dei pastori sono una chiara indicazione del fatto che il racconto appartiene al genere letterario dell’esperienze teofaniche. L’angelo si presenta come l’evangelizzatore, colui che porta l’annuncio gioioso della nascita di un figlio. Nelle parole del messaggero divino ritroviamo l’eco degli annunci evangelici attestati nella letteratura greco-romana e nelle Scritture ebraiche. Infatti, nell’antichità l’evangelizzatore è colui che porta l’annuncio gioioso della nascita dell’erede al trono e della vittoria militare del re. Nelle profezie, soprattutto quella di Isaia, il messaggero di buone notizie evangelizza annunciando la venuta del Signore (Cf Is 40, 9-11). Il cuore della seconda scena è l’annuncio angelico che comunica la nascita del Salvatore, il Cristo Signore. Il titolo «Salvatore» era uno di quelli attribuiti a Cesare Augusto, mentre «Cristo Signore» è un chiaro richiamo alla tradizione ebraica e alla promessa di Dio. L’angelo ha la funzione di narrare l’evento il cui segno è il bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia. Il segno indicato dall’angelo accentua la paradossalità già accennata nella prima scena. La deposizione nella mangiatoia era stata spiegata precedentemente col fatto che la piccola famiglia di Nazaret dovette adattarsi perché non c’era posto per tutti nell’alloggio domestico. Dunque, il segno legge alla luce di Dio una scelta dettata da un’esigenza pratica. Come il viaggio di Giuseppe insieme a Maria verso Betlemme era dovuto al censimento indetto dall’imperatore, così la povertà dei mezzi aveva imposto la scelta di usare la mangiatoia come primo giaciglio per il bambino. Le vicende storiche, che sembrano essere guidate dall’autorità dei potenti o influenzate dalle condizioni economiche e dalle contingenze storiche, sono invece il luogo nel quale Dio manifesta la sua gloria e porta a compimento il suo disegno di salvezza. Il bambino nato nella città di Davide e che, avvolto in fasce, giace in una mangiatoia è la chiave di lettura di tutta la storia che tra le sue pieghe custodisce l’opera di Dio. La visita dell’angelo ai pastori era iniziata con la manifestazione della gloria divina che li aveva avvolti con il suo splendore. Si conclude con il coinvolgimento dei pastori nell’inno di lode intonato da tutta la corte celeste. Alla rivelazione, che mira a suscitare la gioia in chi ascolta e accoglie il vangelo, segue la lode che, come un turbine, solleva in alto per partecipare alla liturgia del cielo. In essa si confessa la gloria di Dio che, manifestandosi in mezzo agli uomini, dona loro la pace. La gloria di Dio è il suo amore per gli uomini che ricevono la pace dalle mani del Signore. L’uomo che glorifica Dio con la sua vita è in pace e diventa costruttore di pace. La pace che Augusto aveva imposto sui territori occupati era precaria. Infatti, fu proprio il censimento della Giudea, organizzato da Quirinio per sancire il definitivo passaggio di questa regione sotto la diretta dipendenza dell’amministrazione romana, a determinare l’insurrezione di Giuda il Galileo, (Cf. At 5, 37). La pace è il dono di Dio che gli uomini ricevono quando scoprono di essere amati da Dio. Il bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia è il segno dell’amore di Dio verso gli uomini. Egli viene incontro a noi nelle vicende della storia, soprattutto quelle che appaiono come ingiustizie perpetrate da chi detiene il potere. Giuseppe e Maria si adattano alla realtà trovando il modo, nell’obbedienza, di compiere il bene. I pastori sono coloro che vegliano di notte all’aperto vigilando sul gregge. Essi richiamano la funzione dei profeti che, come sentinelle, sono attenti ai pericoli che possono minacciare il gregge ma che scrutano l’orizzonte per cogliere i segni del sorgere nel nuovo giorno (Is 21,8). I pastori richiamano alla mente uno di loro, il piccolo Davide, chiamato da Dio non solo a pascere il proprio gregge ma il popolo d’Israele.
MEDITATIO
Il Bambino si è fatto Pane per noi
Siamo un popolo che spesso sente di camminare alla cieca avvolto nelle tenebre. Oggi splende per noi la luce di Dio che, dandoci speranza ci riempie di gioia. Assaporiamo il gusto della vittoria, non quella sugli altri, ma sul male che ci separa dagli altri. Il bambino che nasce è il Principe della pace perché ne è la sorgente.
La luce è visibile a chi accoglie l’annuncio degli angeli: «oggi è nato per voi il Salvatore, Cristo Signore»; non è un annuncio freddo e distaccato, ma dato cantando. Siamo chiamati anche noi a far risuonare il Vangelo attraverso il canto della nostra vita. Il giubilo contenuto nella melodia è eco del canto celeste con il quale i santi magnificano la misericordia di Dio. Questo annuncio ci raggiunge nelle nostre notti trascorse non al sicuro delle nostre case ma esposti alle varie intemperie di emozioni e sentimenti contrastanti. Questo annuncio è per me, per te, per tutti perché Gesù è il «bambino nato per noi», «egli ha dato sé stesso per noi», per essere per noi Salvatore. Venendo nel mondo Gesù ci porta la salvezza. Da una parte Egli ci libera dal peccato, bruciando nel fuoco dello Spirito Santo ogni arma usata per fare il male, e dall’altro ci educa alla sobrietà e alla giustizia per essere un popolo libero perché obbediente alla volontà di Dio.
Può riconoscere la luce chi è consapevole di essere nelle tenebre, può aprirsi al perdono chi confessa di essere peccatore, può ricevere il nutrimento chi sente la fame, può accettare il dono chi si fa piccolo.
Quanta povertà nella stalla dove in una mangiatoia viene adagiato il Figlio di Dio. Egli non esige nulla ma chiede solo di essere accolto con umiltà e semplicità. In un cuore affollato di pensieri lamentosi e di paure non c’è posto per Gesù. Non c’è spazio neanche in quelle case dove si bada alla forma e all’apparenza a discapito dell’amore fraterno e della carità che invece ci unisce nella concordia. Il bambino nella sua disarmante innocenza ci lancia un appello a non gonfiarci di orgoglio, a non ingolfarci di pensieri cattivi, a non cercare l’acqua che disseta in pozzi vuoti o inquinati. Il Bambino ci invita a contemplarlo e a gustarlo con gli occhi perché il sapore della tenerezza e dell’amabilità faccia nascere nel cuore il desiderio di diventare come Gesù, mite e umile di cuore. Il Dio bambino accolto è fattore moltiplicatore della gioia in modo tale che essa sia per noi l’unico motivo per amare e dare noi stessi per gli altri.
NATALE DEL SIGNORE
MESSA DELL’AURORA
Signore, Dio onnipotente,
che ci avvolgi della nuova luce del tuo Verbo fatto uomo,
fa’ che risplenda nelle nostre opere
il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 62,11-12
Ecco, arriva il tuo Salvatore.
Ecco ciò che il Signore fa sentire
all’estremità della terra:
«Dite alla figlia di Sion:
Ecco, arriva il tuo salvatore;
ecco, egli ha con sé il premio
e la sua ricompensa lo precede.
Li chiameranno Popolo santo,
Redenti del Signore.
E tu sarai chiamata Ricercata,
Città non abbandonata».
È nato il nostro Salvatore
Un piccolo poema (Is 62, 10-12) conclude i capitoli 60-62 che riprendono il tema della consolazione operata da Dio nei confronti del popolo duramente provato dalle guerre e dall’esilio. È Lui stesso che si rivolge al popolo presentandosi come il salvatore. Egli non ha in mano le armi della punizione ma porta con sé il dono di un nome nuovo. Il nome indica l’identità. Chi pretende di farsi un nome presume di essere lui l’unico artefice della sua vita. Al contrario, chi si lascia chiamare per nome e lo accetta, aderisce anche alla missione che quel nome rivela. Dio ci fa figli suoi dandoci il suo nome. In tal modo ciò che di più profondo appartiene alla sua identità viene partecipata all’uomo. I riscattati del Signore passano dalla dipendenza dal male, che spersonalizza e riduce a numero, all’appartenenza a Dio come figli che condividono con Lui la ricchezza del suo amore paterno e materno. Essi non subiscono l’umiliazione dei potenti di questo mondo ma godono dell’amorevolezza del loro Sposo e Padre.
Salmo responsoriale Sal 96
Oggi la luce risplende su di noi.
Il Signore regna: esulti la terra,
gioiscano le isole tutte.
Annunciano i cieli la sua giustizia
e tutti i popoli vedono la sua gloria.
Una luce è spuntata per il giusto,
una gioia per i retti di cuore.
Gioite, giusti, nel Signore,
della sua santità celebrate il ricordo.
Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito Tt 3,4-7
Ci ha salvati per la sua misericordia.
Figlio mio,
quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro,
e il suo amore per gli uomini,
egli ci ha salvati,
non per opere giuste da noi compiute,
ma per la sua misericordia,
con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo,
che Dio ha effuso su di noi in abbondanza
per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro,
affinché, giustificati per la sua grazia,
diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.
Salvati per grazia
Per Paolo la salvezza è sinonimo di giustificazione, ovvero di santificazione. Fine della nostra vita è diventare santi, raggiungere, cioè la pienezza dell’amore in Dio. Egli sin dall’origine ci offre vocazione di essere suoi figli, eredi della vita eterna, ovvero, la vita stessa di Dio che ama totalmente, fedelmente, gratuitamente ed eternamente. Non diventiamo santi mediante le nostre opere ma esse diventano le opere di Dio nella misura in cui, lasciandoci riconciliare e rigenerare dallo Spirito Santo, gli permettiamo di agire in noi per diventare riflesso e trasparenza del suo amore misericordioso.
+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 2,15-20
I pastori trovarono Maria e Giuseppe e il bambino.
Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».
Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
LECTIO
La terza scena (vv. 15-20) racconta l’incontro tra i pastori e la famiglia di Nazaret. Il ritorno in cielo degli angeli sancisce la conclusione della loro missione nella quale era stata annunciata la nascita del Salvatore, era stato dato il segno e, infine, era stato intonato un inno di lode. Nell’indicazione del segno era implicito l’invito ad andare a Betlemme per cercare il bambino. Il messaggio angelico suscita nei pastori la gioia, comunicata dal Vangelo, che li spinge a fare un pellegrinaggio verso la città di Davide con desiderio di ri-conoscere ciò che il Signore ha fatto conoscere per mezzo degli angeli. L’evento (letteralmente: la parola-azione accaduta) appreso va compreso mediante una esperienza diretta. La visione angelica induce i pastori a mettersi in cammino seguendo le indicazioni offerte dal segno. La ricerca li conduce alla mangiatoia intorno alla quale ci sono Maria e Giuseppe che vegliano il bambino neonato. I pastori si rendono conto che il vangelo ricevuto è qualcosa di estremamente concreto come lo sono le persone nella cui vita prende forma la salvezza. La parola di Dio non è una teoria immaginifica o la proiezione onirica delle umane aspirazioni ma è un fatto storico visibile e udibile come lo può essere un bambino che dorme in braccio alla sua mamma. I pastori diventano testimoni della credibilità del vangelo che getta luce sull’opera della salvezza condotta da Dio. L’annuncio del Vangelo apre gli occhi della mente e li illumina con la fede per vedere in maniera intelligente la realtà e cogliere Dio all’opera. Il dono della gioia apre il cuore per tradurre la speranza in cammino di ricerca, per fare esperienza della Parola, per realizzare l’incontro con il Mistero. Gli occhi dei pastori vedono un bambino nella mangiatoia, il loro cuore crede che sia il Salvatore, la loro bocca narra riecheggiando la parola del Vangelo che hanno ascoltato e contemplato. Catechizzando coloro che incontrano attraverso il racconto della loro esperienza, i pastori diventano testimoni di fede ed evangelizzatori. Il Vangelo proclamato dai pastori non è una favola artificiosamente inventata che alimenta attese illusorie ma è una parola vera che suscita meraviglia perché in essa c’è la fede, ovvero la voce di Dio. Per molti le parole dei pastori suonano come una novità assoluta. Per Maria, che già era stata evangelizzata dall’angelo Gabriele, le parole dei pastori le giungono come una conferma. Ella ascolta la Parola, la custodisce e la medita. Come i pastori che all’aperto vegliavano sul gregge, anche Maria custodisce con fare protettivo la Parola di Dio che diventa evento. La sua maternità non si è compiuta nel momento del parto, ma richiede di essere ancora maturata. Non è tutto chiaro nel cuore di Maria nel quale rimangono aperti tanti interrogativi: che sarà di questo figlio? Come si realizzerà la promessa messianica di Dio ribadita dagli angeli? La Pasqua di Gesù sarà la risposta definitiva alle domande degli uomini che, ponendosi con fede a servizio di Dio, ricercano la sua volontà e la attuano nella carità fraterna. La fede non può ridursi a conoscenza di cronaca o a speculazione mentale, ma essa matura nell’esperienza diretta dell’amore che si fa realtà nella carne delle persone. Solo la fede incarnata nelle relazioni diviene esperienza di gioia intima e profonda che fa sgorgare dal cuore canti di benedizione e di lode. I pastori, gente umile e semplice, che conoscono la fatica della vita e del lavoro, diventano come gli angeli che intonano l’inno di gloria a Dio. Essi non ritornano semplicemente alla vita di prima ma partono dalla mangiatoia di Betlemme portando negli occhi e nel cuore il segno dell’amore di Dio, seme e luce di speranza per tutti gli uomini.
MEDITATIO
La mangiatoia del cuore
Ogni nascita è una festa perché alle grida di dolore per le doglie del parto segue il pianto liberatorio del neonato che canta la vittoria della vita sulla morte. Nel bambino Gesù è annunciata l’iniziativa di Dio che viene per riscattarci dalla schiavitù del peccato e renderci figli suoi. Al di là delle luci che rendono allegre le strade centrali delle città, brulicanti di gente alla ricerca dei regali da fare o degli acquisti per le cene e i pranzi festivi, appena fuori dal recinto commerciale, c’è un mondo in cui l’ansia e la paura la fanno da padroni. Spesso siamo abbagliati dalle lusinghe pubblicitarie e da modelli che ci suggeriscono stili di vita in dissonanza e in distonia con il desiderio di amore che portiamo nel cuore. La cultura dominante ci induce a credere che si può diventare adulti, liberi ed emancipati, nello stesso modo con cui si allevano gli animali per renderli pronti alla macellazione nel più breve tempo possibile per soddisfare la richiesta sempre crescente della fame insaziabile di pochi. Mentre siamo distratti da mille preoccupazioni mondane e dai nostri sogni di grandezza, Dio ci mostra un bambino che giace inerme nella mangiatoia. È lui il segno che offre alla nostra contemplazione. Non si tratta di fissare lo sguardo perso nel vuoto di verità astratte, ma di guardare innanzitutto dentro di noi, lì dove il Signore ha posto la sua dimora. La mangiatoia, luogo più interno della dimora umana, altro non è che il nostro cuore, lì dove risuona la voce dello Spirito che, come i vagiti di bambino, chiede un po’ di attenzione nei suoi confronti. Ha da dirci una cosa tanto importante, quanto essenziale, per la nostra vita: Io ti amo. Non sono parole di circostanza, né rituali, o vuote di senso. Non c’è nulla di più semplice e di più vero delle parole che nascono da un cuore che ama liberamente e gratuitamente, come è appunto quello di Dio. Gesù, Parola di Dio, è la voce del Dio Bambino, che si è fatto debole con i deboli, povero tra i poveri, ha condiviso la fragilità e la precarietà della condizione umana caricandosi delle nostre infermità. La parola dell’amore che crea sgorga dal cuore amante di Dio. Solo l’amore crea. Egli, che fa sua la nostra debolezza perché sia nostra la sua forza, condivide con noi la nostra povertà per parteciparci l’infinita ricchezza della sua misericordia, ci chiede di accoglierlo. La creazione non è la produzione del mondo esistente ma è l’opera di Dio che sapientemente intesse la relazione familiare con tutte le sue creature. Egli non solo è il costruttore della Casa comune ma è Colui che vuole abitarla con noi. Facendosi figlio dell’uomo, Dio si fa servo dell’umanità perché coloro che si pongono al servizio di Dio siano rigenerati come suoi figli ed eredi della vita eterna. Nel Natale del Signore appare chiaramente lo stile con il quale Dio dialoga con l’uomo: non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non cerca il suo interesse… (1Cor 12). In un mondo in cui si gareggia ad ostentare la propria forza aggressiva, con tutto il carico delle conseguenze disastrose, e si invoca addirittura il favore divino per legittimare l’istinto di dominio che semina morte e sofferenza, Dio sceglie un’altra via per farsi vicino ed esercitare la sua sovranità. Scegli la via della povertà, della mitezza, della narrazione di sé mediante le parole silenziose dei suoi atti di misericordia. Non di rado la Parola di Dio cade nel vuoto o le lasciamo scivolare addosso. Maria, invece, è per noi modello di credente che custodisce nel cuore la parola di Dio e la medita permettendo ad essa di fruttificare in parole di lode, supplica e ringraziamento in gesti di solidarietà fraterna. A Dio che chiede di essere ascoltato e accolto, l’uomo risponde con la richiesta di ricevere il pane quotidiano della Parola che lo nutre, lo sazia e lo rende fratello e amico di tutti. Tanto più frequentemente ci accostiamo alla mangiatoia dell’altare per ricevere il nutrimento dello Spirito, tanto più gli occhi del cuore si apriranno per riconoscere e contemplare Dio lì dove eravamo abituati a vedere solamente il male e ad aprire la nostra bocca, non solo per nutrirsi dei beni della terra, ma anche per far uscire parole di lode, ringraziamento, perdono, consolazione, incoraggiamento e di speranza per tutti.
NATALE DEL SIGNORE
MESSA DEL GIORNO
O Dio, che in modo mirabile
ci hai creati a tua immagine e in modo più mirabile
ci hai rinnovati e redenti,
fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio,
che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 52,7-10
Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
L’evangelizzatore e i testimoni
L’oracolo del capitolo 52, col quale si apre la seconda parte del libro di Isaia, funge da inclusione con quello del capitolo 40, che invece lo inaugura. Entrambi i testi sono una proclamazione e hanno in comune l’immagine del messaggero che deve annunciare la venuta prossima del Signore. Ciò che viene preannunciato nel cap. 40 viene proclamato realizzato nel 52. Le sentinelle della città santa, appostate sulle mura, scorgono sulle montagne vicine il messaggero che corre per annunciare la pace, la liberazione, il lieto messaggio. Le sentinelle si rivolgono allora alla città stessa, ancora in rovina, e alzano la voce per annunciare l’arrivo del Signore. Il profeta predilige termini che si riferiscono al corpo per far passare il messaggio che l’evento della salvezza coinvolge tutta la persona perché non è una realtà astratta ma è un fatto che tocca la vita: i piedi umani sono gli strumenti affinché si manifesti il braccio divino. Particolarmente importante è il valore attribuito al messaggero e alla sua testimonianza. Vi è una mediazione molteplice, quella del messaggero che porta la bona notizia alle rovine di Gerusalemme, «Regna il tuo Dio», e quella delle sentinelle che ricevono il suo messaggio e lo ritrasmettono a tutte le nazioni e a tutti i confini della terra. La figura dell’evangelizzatore trova compimento in Gesù che fa conoscere il Padre e quella delle sentinelle corrisponde a Giovanni e ai testimoni che fungono da mediatori affinché la fede dei credenti possa maturare fino a giungere ad essere l’opzione fondamentale della propria vita.
Salmo responsoriale Sal 97
Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!
Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 1,1-6
Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio.
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
Gesù Cristo, Parola di Dio che crea e salva
L’autore della lettera agli Ebrei introduce la sua meditazione su Gesù, presentato come il Cristo nelle vesti del Sommo Sacerdote fedele e misericordioso, mettendo in risalto la Parola quale caratteristica del Dio d’Israele. Dio parla continuamente al suo popolo invitandolo ad amarlo e ad unirsi a Lui. Molti sono stati i modi con i quali Dio ha voluto allacciare relazioni d’amore con Israele manifestandogli il suo affetto e la sua volontà. Gesù, pur apparendo al mondo quale figlio di Maria e di Giuseppe, è Figlio di Dio, parola prima, per mezzo del quale tutto è stato creato, ed è parola ultima perché tutto il creato sia salvato e diventi Regno di Dio nel quale tutti gli uomini sono adoratori di Dio in «Spirito e Verità». Riecheggiano le parole dei Sapienti d’Israele che rintracciano nella creazione e nella storia la Sapienza di Dio che risplende del suo amore misericordioso. Questa luce sfolgora definitivamente nell’evento della Pasqua quando Gesù è «intronizzato». Nella risurrezione dai morti si manifesta nel Crocifisso risorto la gloria di Dio e Gesù è riconosciuto come il Figlio di Dio. Gesù Cristo, quale Figlio di Dio, è «Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». In questo senso egli è «irradiazione della sua gloria»; ed è «impronta della sua sostanza» perché vedendo Gesù si vede il Padre e chi accetta l’amicizia di Gesù diventa anche lui figlio di Dio, erede della vita eterna.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 1,1-18
Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
LECTIO
Contesto
Il capitolo 1 del vangelo è composto di due parti: la prima (1, 1-18) il prologo in forma poetica presenta il Lògos e la sua vicenda, la seconda (1, 19-51) è l’inizio del racconto evangelico. Nel prologo l’evangelista informa il lettore circa l’identità e la missione di Gesù. Infatti, esso ha la stessa funzione dei «vangeli dell’infanzia» perché vuole offrire la chiave di lettura teologica della figura di Gesù, collegando la sua vicenda e la sua missione direttamente alla volontà di Dio. Il prologo è una sorta di ouverture che intende guidare il lettore alla comprensione del tema e dello sviluppo narrativo della vicenda che ha come culmine la Pasqua di Cristo Gesù.
Struttura
Nei vv. 1-18 c’è una cesura tra il v. 13 e il v. 14. Prima i soggetti sono alla terza persona per poi passare alla prima persona plurale. Nella prima parte si parla di Giovanni Battista legando la sua venuta e la sua missione alla fede dei destinatari della sua opera evangelizzatrice (vv. 6-8) e al v. 15 è introdotto un locutore che rende la sua testimonianza unendosi alla confessione della comunità credente (v. 16). Dunque, il prologo si divide in due parti: nei vv. 1-13 il soggetto è il Lògos di cui si mette in evidenza la sua preesistenza e la sua venuta nel tempo; nella seconda parte (vv. 14-18) si dà voce alla confessione di fede dei credenti. La preesistenza del Lògos lo colloca nell’eternità di Dio (vv. 1-4) e la sua venuta nel mondo come luce lo rende partecipe della storia dell’uomo (vv. 5-8). Il mondo degli uomini, ovvero gli uomini del mondo, rifiuta il Lògos (vv. 9-11), mentre chi lo accoglie diventa figlio di Dio perché da Lui si viene generato (vv. 12-13). La seconda parte del prologo contiene la confessione di fede di quanti hanno accolto la venuta del Lògos. La voce di Giovanni si unisce a quella dei testimoni che identificano il Lògos, chiamato «Figlio unigenito del Padre», con la persona storica di Gesù Cristo (vv.16-18).
Spiegazione
L’inizio del prologo richiama chiaramente quello della Genesi con i temi della creazione, della luce e delle tenebre e della vita. Il «principio» di cui si parla è un “tempo” che potremmo definire kairos, che precede il kronos. Il termine Lògos non è facile da tradurre perché ogni termine ridurrebbe la ricchezza del suo significato. Certamente l’evangelista Giovanni conosce la riflessione sul concetto di «parola di Dio» come potenza creatrice e sostenitrice del mondo esistente. Il Logòs è «parola di Dio», come lo è la Sapienza nella letteratura sapienziale (Pr 8; GB 28; Sir 24; Sap 7-9), perché coopera nella creazione dell’universo fungendo da archetipo/modello e da architetto (Pr 8,22-23-27-31). Tuttavia, il Lògos non è «sophia» (sapienza intesa come idea progettuale») né è una creatura (partorita dalla mente di Dio), anche se fosse stata la prima. Il Lògos lo potremmo accostare all’immagine del «sogno» di Dio per il mondo: avere figli in un mondo di pace e di giustizia perché vivano in comunione tra loro e con il creato e partecipino alla vita stessa di Dio e alla comunione con Lui. Il kairos di Dio genera il kronos dell’uomo che, per mezzo di Gesù, giunge alla sua pienezza nel momento in cui il sogno di Dio si compie. La redenzione segna il compimento del sogno di Dio.
La ripetizione del verbo essere all’imperfetto, riferita al Lògos, suggerisce l’idea di una condizione perdurante in un tempo che precede (kairos) quello dell’uomo (kronos). I tre verbi «era» assumono significati diversi perché il primo indica l’esistenza (dal principio, ovvero da sempre), il secondo la relazione (con Dio) e il terzo è un predicato che ribadisce la natura divina del Lògos. Tra il Lògos e Dio non c’è identificazione intesa come sovrapposizione o fusione, ma un’unità che risulta dalla relazione di amore, la quale non annulla la distinzione ma la colloca in un rapporto ordinato l’uno all’altro. In altri termini, si potrebbe dire che all’origine (pre-esistenza/kairos) c’è l’amore (la pro-esistenza). L’amore è il progetto di vita di Dio, per cui «ciò che era di Dio lo era anche del Lògos».
I primi due versetti si concentrano sull’identità del Lògos in relazione con Dio. Dal v.3 si passa alla sua missione in relazione al mondo creato e agli uomini che lo abitano. Riprendendo il racconto della Genesi, l’evangelista ricorda che Dio ha creato parlando e che tutto ha avuto inizio dal Lògos del Padre mediante il quale Egli si rivela e comunica. L’intera creazione è rivelazione perché è effetto del «dire di Dio» che diventa opera la cui bellezza si contempla nel grande libro del creato. Il v. 4 introduce il tema della vita e della luce. Mediante il Lògos il creato riceve l’esistenza biologica; all’uomo, che non ne è solo una parte ma anche il suo vertice, viene offerta insieme alla vita fisica anche quella di Dio (la vita eterna). La luce e la vita da elementi della natura diventano simboli che rimandano alla vita di Dio partecipata agli uomini. Il Lògos, parola di Dio, è luce che illumina il cammino della fede che porta a vivere con Dio, in Dio e per Dio. Nel racconto evangelico «luce» e «vita» sono i nomi che rivelano la vocazione e la missione di Gesù. La funzione della luce è quella di brillare e illuminare. A Dio, che «viene nel mondo» come luce per «illuminare» ogni uomo e farsi conoscere da lui, fa riscontro l’uomo che deve scegliere se respingere la luce e abitare nelle tenebre dell’ignoranza o accoglierla lasciandosi illuminare per essere a sua volta segno luminoso di speranza. Il Lògos è sorgente della luce e della vita, mentre Giovanni è il testimone della luce. La sua missione consiste nell’annunciare la venuta della luce, come una sentinella o come l’aurora. Testimoniare significa essere corpo illuminante che esiste e illumina solo se riflette la luce che riceve. Similmente la testimonianza di Giovanni è funzionale all’annuncio del vangelo: Cristo, luce del mondo, ha sconfitto le tenebre del peccato e della morte. Di questa vittoria possono godere coloro che credono.
Il Lògos viene nel mondo perché tra lui e «i suoi» si crei la stessa familiarità che caratterizza il suo rapporto con Dio. Tuttavia, questo non è automatico perché la realizzazione sogno di Dio deve passare attraverso la libertà dell’uomo che ha la possibilità di rifiutare o accogliere la Luce. Il Lògos è luce e vita perché vive la relazione con Dio in un rapporto dialogico. La sua missione è aprire all’uomo, ed estendere a tutti, la possibilità di partecipare alla vita divina, alla pro-esistenza.
Dal mondo creato l’attenzione passa alla comunità degli uomini che è caratterizzata da legami di appartenenza con Dio. Gli uomini, dice l’evangelista, sono tutti membri della famiglia di Dio perché creati tali. Tuttavia, lo status di familiari di Dio diventa effettivo nella misura in cui si accoglie il Lògos credendo in lui. La fede è una libera scelta degli uomini con cui esprimono la loro responsabilità nei confronti di Dio. Essere figli di Dio vuol dire scegliere di vivere per Dio rispondendo di sì all’impegno di amore che Lui ha preso con gli uomini di «vivere per loro come Padre». Come il Padre per mezzo del Lògos sceglie di amare il mondo, creandolo, e gli uomini, chiamandoli a far parte della sua famiglia, così, per mezzo dello stesso Lògos, Gesù Cristo, gli uomini scelgono di amare Dio consacrando (credere in) la propria vita per Lui, come ha fatto Gesù. Il fatto che venga usato il verbo «diventare» vuol dire che la figliolanza di Dio è un progetto sempre da realizzare. La grazia costituisce la persona nel suo status di figlio di Dio ma il credente diventa adulto nella fede vivendo continuamente da figlio di Dio. «Credere nel nome di» significa «affidarsi completamente», «avere fiducia di». Nel processo di maturazione spirituale si coniugano la grazia che accompagna e l’impegno a rimanere fedele alla scelta iniziale di fidarsi di Gesù e unirsi a lui.
La seconda parte del prologo inizia con l’affermazione dell’evento dell’incarnazione. Si tratta anche in questo caso di un passaggio. L’assunzione della condizione umana è tradotta con l’immagine di «diventare carne». Il passaggio del Lògos dalla dimensione divina, caratterizzata dall’eternità, a quella temporale, che è invece contraddistinta dalla precarietà, è specificato con l’immagine del «attendarsi» o «porre la dimora» in mezzo a quelle degli uomini. La tenda richiama immediatamente l’esperienza dell’esodo e la «presenza» di Dio che si fa pellegrino in mezzo al popolo che per tanti anni e forestiero in terra straniera. La letteratura sapienziale identifica la Sapienza con la presenza di Dio che abita insieme al suo popolo. Proprio questa coabitazione fa del cammino esistenziale un pellegrinaggio, e non un vagabondare. La comunità, abitata dal Lògos, diventa casa aperta ad accogliere chiunque sia desideroso di attingere alle sorgenti della Sapienza.
Il racconto dell’esodo parla della gloria di Dio che avvolgeva come una nube la tenda. L’evangelista, testimone degli eventi nei quali Gesù si è reso protagonista, testimonia che la gloria descritta nei racconti dell’Antico testamento egli l’ha contemplata in Gesù che chiama «Figlio unigenito». In lui, infatti, risiede la pienezza della grazia e della fedeltà di Dio. In altri termini, Gesù rivela agli uomini la ricchezza inesauribile dell’amore del Padre. Gesù Cristo è il rivelatore del Padre perché per mezzo suo si riversa su l’umanità tutta la ricchezza della misericordia divina. Gesù non è in contrapposizione con Mosè ma in continuità anche se rappresenta la novità e il compimento. Mosè è stato scelto tra gli uomini per essere il mediatore attraverso cui donare la Legge. Gesù è l’unico e vero mediatore perché tramite lui, non solo si riversa l’abbondanza della grazia, ma l’uomo può corrispondere a Dio con la sua vita. Gesù è l’unica via che introduce nella intimità familiare di Dio, che è la vita vera.
MEDITATIO
Il cammino della Parola, dal cuore di Dio all’abbraccio del Padre
Il prologo del vangelo di Giovanni ci porta col cuore alla prima parola, o meglio alla parola prima, quella che sgorga dalla relazione tra il Padre e il Figlio. Giovanni, quasi a conclusione della sua vita, redige il vangelo, che ha il sapore di una testimonianza e di un testamento della propria vita. Quando la narrazione è terminata, sente il bisogno di ricapitolarla facendo precedere il racconto da un inno attraverso il quale si compie un viaggio dal principio all’oggi. Il principio non è un inizio lontano nel tempo, ma è la sorgente del presente. In quel principio fuori del tempo e dello spazio risiede la chiave di lettura di tutto ciò che esiste.
All’origine c’è il dialogo, una parola donata reciprocamente, meglio diremmo che nel dialogo ci si dona reciprocamente l’uno all’altro. La relazione che unisce le persone che compongono la Trinità è caratterizzata dal fatto che esse comunicano e si comunicano l’amore, non informazioni o idee, ma ciò che fa di esse una autentica comunità.
Il cosmo è il riflesso di questa comunione tra realtà diverse che, armonizzandosi, fanno vivere. L’ecosistema e ogni forma di società autenticamente umana sono espressioni di vita paragonabile ad una sinfonia o meglio ancora ad un corpo nel quale ogni membro ha la sua specificità a servizio del bene comune.
Se lo sguardo sapiente sulla creazione fa comprendere il posto che è stato assegnato a ciascuno e l’ascolto della Legge rende coscienti delle proprie responsabilità nei confronti degli altri, l’adesione a Gesù Cristo rivela il senso finale della vita. Essa è un dono che educa a farsi dono a Dio e ai fratelli. Gesù, narrando con la vita il Padre, condivide con chi lo ascolta il suo stesso sguardo di figlio di Dio e lo coinvolge nel dialogo intimo e sublime tra Lui e il Padre.
La preghiera è il modo con il quale entrare in questo circolo in cui tutti sono avvolti dal vincolo della carità, che colma le valli del pessimismo e abbassa le montagne dell’orgoglio.
Gesù ci richiama al principio di tutto e da qui ripartire per raggiungere il fine della vita che è vivere pienamente con Gesù da figli di Dio.
Dall’umiliazione della schiavitù all’umiltà del servizio
Il Natale del Signore è la prima delle grandi feste che ritmano l’anno liturgico che ruota attorno all’ evento della Pasqua. Non è un caso che la liturgia riserva a queste due solennità la veglia notturna in cui gioca un ruolo importante il segno della luce che splende e rischiara le tenebre.
Siamo un popolo in cammino ma immerso nel buio dell’incertezza e della paura. Per quanto possano darci speranza le tecniche scientifiche, che sono pure a servizio del bene dell’uomo, sentiamo di essere ancora tra le nebbie della precarietà e della debolezza che vela di tristezza anche i momenti di festa che vorremmo vivere nella pace e nella serenità.
Il vangelo parla di un decreto dell’imperatore che ordinava un censimento. Per questo Giuseppe, in obbedienza al comando imperiale compie il viaggio verso Betlemme, la città in cui era nato Davide. Si tratta in un certo senso di un ritorno a casa, alle proprie origini. Lì a Betlemme un giorno il profeta Samuele era stato inviato da Dio a casa di Iesse per consacrare re uno dei suoi figli. Samuele giungendo in quella casa aveva iniziato a cercare tra gli uomini più grandi e più forti, ma Dio riorienta la ricerca tra i più piccoli perché il Signore non guarda l’apparenza ma il cuore. Fu dunque chiamato il più piccolo dei figli di Iesse, Davide, che era con i pastori a pascolare il gregge. Davide da pastore di pecore divenne pastore di un popolo. Dall’umiliazione all’umiltà. Facile immaginare che davanti ai primi segni di gravidanza di Maria si siano scatenate le critiche e i pettegolezzi degli abitanti di Nazaret. Forse anche questo avrà spinto i novelli sposi a lasciare il villaggio e andare a Betlemme. S’intrecciano esigenze che potremmo definire sociali con quelle più strettamente personali.
L’imposizione delle regole, siano esse finalizzate a prevenire il contagio, oppure quelle che regolano il vivere sociale, anche se possono apparire ingiuste, sono l’occasione ieri come oggi per fare del nostro cammino un pellegrinaggio dell’umiltà. Anche noi possiamo sentire tutto il peso delle frustrazioni, dei limiti, delle attese deluse che, se assolutizzate, ci portano a vagare confusi e disorientati. L’attaccamento alle cose e uno stile di vita possessivo e controllistico fanno della paura la nostra guida. Il risultato è l’aggressività verbale, fisica e psichica. Stiamo male perché viviamo male l’umiliazione e affidiamo la gestione del nostro malessere ai pensieri negativi che generano giudizio e pessimismo.
Nella notte del dolore e dell’incertezza ci viene incontro la luce del vangelo che splende al di sopra dei nostri ragionamenti arzigogolati. È necessario distrarre lo sguardo dal nostro io che piange e si lamenta contro gli altri per rivolgerlo verso l’alto e verso l’altro. L’obbedienza non sarà mera esecuzione di ordini ma un cammino nuovo guidato dalla parola di Dio che dà la direzione giusta ai nostri passi.
La meta è Betlemme, la casa del pane. Giuseppe e Maria non obbediscono solo ad un comando imperiale, ma realizzano il volere di Dio, quello di fare casa con noi. Loro non sono pienamente consapevoli, come non lo siamo neanche noi dei progetti divini, ma nell’obbedienza agli uomini si concretizza anche la volontà di Dio. La ribellione, la mormorazione, anche se sono giustificate da una motivazione di giustizia non portano alla pace, anzi, alimentano la guerra. Invece di concentrarci su ciò che non va negli altri e nei loro modi di comportarsi, rimanendo ripiegati su noi stessi, dovremmo alzare gli occhi al cielo e domandarci cosa fare per non replicare e alimentare il male subito.
Maria e Giuseppe pur essendo di casa a Betlemme non vi trovano posto in un alloggio familiare. Non si perdono d’animo e fanno di una grotta adibita a stalla per gli animali la loro dimora familiare. Il centro di questa casa diventa la mangiatoia perché in essa è deposto il bambino appena nato e avvolto in fasce. Maria e Giuseppe ci insegnano a celebrare il Natale con atteggiamenti di docile obbedienza, concreta attenzione al più piccolo. Essi, infatti non cercano la comodità per sé stessi, ma creano uno spazio per accogliere e far nascere il loro bambino. Non perdono tempo a giudicare, a lamentarsi, a rimbrottare o rinfacciare, ma accolgono la disponibilità di chi, rimanendo nell’anonimato, offre loro uno spazio della propria casa, il luogo meno nobile ma che è reso umano dalla loro presenza e soprattutto da quella di Gesù, dalla loro premurosa delicatezza e dalla tenera debolezza del bambino. I gesti ordinari e silenziosi di Maria e Giuseppe rendono umano ciò che è bestiale. Adattarsi non significa rinunciare ai propri sogni o ai desideri più belli ma iniziare a realizzarli partendo dall’essenziale e accettando di fare a meno del superfluo.
Ecco, dunque, la meta del cammino di Giuseppe e Maria, non solo Betlemme, non solo un alloggio, ma una mangiatoia. Il richiamo insistente della mangiatoia ci porta a pensare al mangiare che da preoccupazione diventa occasione, da tempo atteso a tempo vissuto. In tempo di crisi quello che diamo per scontato non lo è più. Nell’abbondanza non ci preoccupiamo di cosa mangiare e cosa dare da mangiare ai figli; nella società dell’opulenza, in cui si confonde il benessere con il benavere, l’attesa e l’attenzione è sui beni di consumo, su oggetti che ci danno solo l’illusione di essere al passo dei tempi quando invece rincorriamo miraggi inconsistenti. In molte case questa domanda è ora drammaticamente urgente. Essa potrà essere accolta nella misura in cui facendoci solidali con i fratelli, sentiremo nostro il loro bisogno, senza giudicarli. Così la domanda che germoglia da un cuore misericordioso è: cosa posso preparare per loro, come posso prepararmi per dare loro da mangiare. In molti casi il nutrimento essenziale è la comprensione benevola con cui mi approccio ai fratelli e alle sorelle proprio perchè cosciente dei loro limiti e anche delle loro colpe.
È la tenerezza che ci porta ad adattarci e ad abitare anche gli spazi che a noi appaiono inospitali perché i nostri occhi cercano quella perfezione che non troveremo mai fuori di noi ma solamente in Dio. Questi luoghi sono le relazioni fraterne che rimarranno inaccessibili senza che la grazia di Dio le illumini. La luce della Parola di Dio permette di vedere nell’umiliazione l’Umiltà, nel niente il Tutto, nel dramma la Salvezza, nella mancanza di beni la pienezza del Bene.
Il Bambino nella mangiatoia è la risposta di Dio all’uomo che spesso si riempie di aria ma non è mai sazio. Dio scende verso l’uomo non per dargli il pane materiale ma per dare sé stesso da mangiare; alimentati dal Suo Spirito siamo riempiti di Lui, del Suo Amore. Chi si sazia veramente al banchetto di Dio non se ne sta comodo a fare la siesta esulandosi dagli altri o chiudendosi in piccoli circoli, ma si sente spinto a donare a tutti con gioia quello che lui stesso ha ricevuto gratuitamente. Strada facendo s’impara alla scuola di Gesù e in compagnia dei santi, come Maria e Giuseppe, non solo a condividere quello che si ha ma a darsi all’altro per amore in tutto ciò che si fa.
Natale sia per noi il tempo del cammino verso Betlemme, ma ancor di più verso la mangiatoia, la mensa della Parola e dell’Eucaristia sulla quale Dio si fa gustare e vedere quanto è buono e da lì partire per farsi pane da spezzare con tutti.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“