Parlare della fede: un compito arduo e insieme affascinante. Soprattutto se l’interlocutore appartiene all’universo giovanile, così carico di promesse e di aspettative non sempre chiare.
Cosa significa la parola «credo»? Come definire (nel senso etimologico di delimitare i confini, evitando le facili ambiguità) quella decisione così intima e personale che fa sgorgare dalla coscienza la libera adesione al mistero di Dio?
E, di conseguenza, come descrivere l’origine, il fondamento della fede, e la sua natura di atto pienamente umano e nello stesso tempo soprannaturale, cioè appartenente alla dimensione spirituale dell’esistenza? E che dire della visione tipicamente cristiana della fede?
Nel sentire comune, anche delle giovani generazioni che a volte adottano modelli mutuati da un contesto culturale indifferente o apertamente agnostico, la scelta del credere in Dio sembra affidarsi alla presunta casualità del percorso di vita, e viene percepita come un privilegio riservato misteriosamente a qualcuno, un arbitrio divino che destina alcuni ad essere credenti escludendo altri. «Beato te, che sei credente. Purtroppo io la fede non ce l’ho…»: facile conclusione che omette di considerare l’universale chiamata dell’umanità al rapporto con Dio.
La difficoltà di considerare le esigenze della ragione, strumentalmente utilizzate in contrasto con la decisione della fede, appare come un altro ostacolo per molti giovani: l’opzione in favore della fede viene risolta come deficit della razionalità. Un’obiezione che riduce la fede a banale credulità, o peggio a terapia contro ogni forma di nevrosi e di ansia esistenziale. Fede come rimedio magari efficace, ma destituito di reale fondamento. In ultima analisi una provvidenziale illusione.
Le provocazioni che la cultura pone al credente sono salutari: per chi voglia onestamente scavare alla ricerca di una fede matura non mancano, infatti, gli argomenti per rispondere.
La scelta di assentire alla fede – e, aggiungiamo, alla fede cristiana – deriva infatti da un «argomento» solido, da una oggettività posta dinanzi all’intelligenza e alla libertà dell’uomo: la storica iniziativa divina che noi chiamiamo «rivelazione». La Sacra Scrittura la attesta, la testimonianza di Gesù, chiamato Cristo, la propone alla libertà del soggetto in modo inequivocabile.
Credere in Dio non è solo frutto di una serie di ragionamenti che costringano a trarre deduzioni logiche: la fede non appartiene alla cogenza della dimostrazione, i segni del divino non sono «prove» alla stregua dei fenomeni che l’uomo registra e descrive. Tuttavia la ragione umana coglie nei segni un invito, che alla luce di Dio diventa appello affidabile a favore delle fede. Le ragioni per «dare credito» alla rivelazione non mancano, e donano uno statuto pienamente umano all’atto della fede, che tuttavia trova la sua origine nella previa iniziativa di un Dio che si rivela, che parla, anzi che instaura un dialogo con gli uomini «come si fa con amici» (così si esprime la Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II).
L’atto del credere è quindi un singolare atto umano, in cui si verifica l’incontro tra l’evento di rivelazione di Dio e la sintesi che l’intelligenza ed il cuore dell’uomo producono, provocati dinanzi al mistero s-velato. E nell’incontro con una persona – Gesù di Nazareth – tale velo si squarcia definitivamente, provocatoriamente, chiedendo fiducia.
Sempre la Dei Verbum, al n.5, descrive la risposta della fede come un atto di obbedienza, una sorta di consapevole e amoroso assenso di intelligenza e volontà che coinvolge la totalità dell’essere umano. Si, perché la fede è anche atto di amore, risposta di amore ad un amore che mi precede e che riconosco a fondamento della mia vita.
L’amore può aiutare a conoscere la realtà? È una fonte autorevole cui attingere per conoscere la verità dell’esistenza, e di Dio? È ragionevole dare fiducia all’amore?
Dopo due secoli di netta ideologica contrapposizione sulla eminente dignità della ragione, immersi nell’attuale sfiducia nella forza argomentativa del pensare razionale, i credenti si assumono il compito di riproporre un nuovo e forte modello di ragionevolezza dell’atto di fede, in cui anche sentimenti e affetti siano riconosciuti partners dell’intelligenza.
Un «intelletto relazionale» che apra nuovi orizzonti e impari nuovi linguaggi nel proporre il rischio della fede.
*teologo e parroco
«Stento a crederci» è una serie di trasmissioni web, prodotta da Teleradio Cremona – Cittanova e curata dall’ufficio di Pastorale giovanile e delle Comunicazioni sociali, nella quale sono trattati, in maniera dinamica e accattivante, alcuni tra i temi più scottanti: la fede come dono, il senso dei dogmi, Gesù vero uomo e vero Dio, il significato della sofferenza, il rapporto con la scienza, la necessità della preghiera… Ogni volta un esperto tratta l’argomento in maniera rapida e veloce e successivamente risponde alle domande di alcuni ragazzi presenti in studio. Tutte le puntate sono poi caratterizzate dalla testimonianza di un giovane che cerca di vivere la propria adesione a Cristo nella quotidianità e da alcuni suggerimenti – libri o siti internet – per approfondire quanto esposto nella puntata.