Cosa brucia nel cuore
La prima lettura (Sap 6,12-16) afferma che essenziale per ottenere la sapienza è desiderarla: il desiderio della sapienza spinge a cercarla e la sapienza stessa va incontro a chi la cerca. Se la sapienza è luminosa e splendente, essa diffonde la sua luce su chi la desidera e la cerca: è la ricerca stessa della sapienza che rende sapienti. Il brano evangelico (Mt 25,1-13), a sua volta, suggerisce che il credente cristiano non abbisogna solamente di fede, ma anche di sapienza. Sapienza è predisporre tutto per essere trovati “pronti” (Mt 25,10; cf. Mt 24,44) dal Signore che viene e così non fallire l’incontro. Stoltezza – e c’è la possibilità di una fede stolta, insulsa, stupida, non intelligente, non sapida – è negligenza, trascuratezza, superficialità, imprevidenza nel prepararsi all’incontro con il Signore. Ma il Signore va incontro lui stesso a chi lo cerca e lo attende tenendo viva nella notte la lampada del desiderio.
I testi di questa domenica consentono una riflessione sulla sapienza, o almeno, su un aspetto della sapienza stessa. Aspetto sottolineato dal passo veterotestamentario che parla dell’atteggiamento umano ispirato a sapienza con verbi come “amare”, “cercare”, “desiderare” (tutti aventi come oggetto la sapienza stessa). L’analogia con il linguaggio amoroso è evidente: questi verbi ricorrono nel Cantico dei cantici a disegnare l’appassionata e sfibrante storia d’amore dei due protagonisti (Ct 2,3; 3,1.2; 5,6; 6,1).
Ciò che muove il cercatore della sapienza è dunque una motivazione profonda, vitale, passionale, totalizzante, inespugnabile. Da cui è vinto e a cui non vuole rinunciare per niente al mondo. Già queste affermazioni bastano per mostrare che la ricerca della sapienza non si limita alla dimensione intellettuale ma riguarda la sfera emotiva, volitiva, affettiva, insomma, il desiderio della persona. Per essa ci “si alza presto, di buon mattino” (Sap 6,14) e si resta svegli alla notte “vegliando” (Sap 6,15). E anche il “riflettere su di lei” (Sap 6,15) designa l’atteggiamento di chi assume la sapienza come bussola per orientarsi e muoversi nell’esistenza, come proprio costante orientamento. E questo dovrebbe interrogarci oggi: che ne è della sapienza?
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Se ancora sappiamo che esiste e in che consiste. Il nostro rapporto con la realtà non può certo esaurirsi nell’informazione, tra l’altro spesso parziale, tendenziosa, manipolatoria, e che muore nel suo stesso proliferare eccessivo, smodato e smisurato. Così come non può esaurirsi nella conoscenza, che pure costituisce un livello decisamente più alto e profondo dell’informazione e che comporta un lavoro di creazione di nessi e scoperta di relazioni e dunque di significati. Ma che certo è anche molto ardua nel contesto di complessità e molteplice interdipendenza al cui interno ci muoviamo oggi. La sapienza è un sapere amico della vita e si pone sul piano del senso della vita. Dove “senso” racchiude in sé i valori del significato, della direzione e del sapore. Il significato comprende il reale (è il piano filosofico); la direzione riguarda il cammino da compiere e concerne il livello dell’etica se la intendiamo come direzione, o orientamento, nella vita.
Se la intendiamo come direzione, o orientamento, della vita, allora essa riguarda la destinazione della vita, il fine dell’esistenza, ed è dunque il piano della teologia che dice qualcosa sui fini ultimi. Il sapore, poi, il gusto, ha a che fare con la bellezza e investe il piano dell’estetica. La sapienza è “bella”, tanto che, dice il libro della Sapienza, ci si può innamorare della sua bellezza (Sap 8,2). La sapienza è luminosa, splendente (Sap 6,12) e trasmette queste qualità a colui che vive in sua compagnia, rendendolo radioso e capace di illuminare altri, facendone un essere che è “luce per gli uomini retti, misericordioso, pietoso e giusto” (Sal 112,4). Questa luce ricevuta dall’alto e che si riflette su altri, nasce dall’umiltà, vera chiave di accesso alla sapienza. Il sapiente è anzitutto una persona cosciente della propria mancanza: egli cerca, bussa, chiede come un povero, come un pellegrino, come un viandante. Egli prega (cf. Lc 11,9-10).
E nella sua ricerca fa l’esperienza di essere lui stesso cercato. Sicché se arriva a trovare non si inorgoglirà del successo della sua impresa, ma saprà di essere stato lui trovato da chi l’ha prevenuto in questo movimento e dunque gioirà dell’incontro. La sapienza “nel farsi conoscere previene quelli che la desiderano” (Sap 6,13). Il brano del libro della Sapienza presenta una ricerca reciproca tra uomo e sapienza: se la sapienza “si lascia trovare da quelli che la cercano” (Sap 6,12), “essa stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei” (Sap 6,16). La figura umana costruita dalla sapienza, da questo felice incontro dell’uomo con la sapienza, è una persona umile, salda, cosciente dei suoi limiti, mossa dalla beata inquietudine di chi è cosciente che la sapienza non è data se non nella sua incessante ricerca.
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Egli conosce e vive l’antico adagio: quamdiu vivimus, necesse habemus semper quaerere (“finché viviamo dobbiamo sempre cercare”). E se la ricerca è condizione inerente la vita stessa, anzi, è vita, anche la fede è ricerca e dunque anch’essa non potrà che essere umile, non totalitaria, abitata da domande e da dubbi, non autosufficiente, ma aperta, disposta a imparare, a confrontarsi, a dialogare. Umile e inquieto: ecco il sapiente. Dove l’inquietudine è connessa alla coscienza dell’incompletezza e diviene spinta alla ricerca, coraggio di percorrere vie nuove, di osare i confini del pensiero, di affrontare le situazioni limite. E l’inquietudine, la sapiente inquietudine, plasma esseri umani abitati dalla sana curiositas, dall’amore della conoscenza. La parola curiositas contiene la nozione di cura, dunque di sollecitudine, attenzione, applicazione e dice di un atteggiamento di profonda serietà umana: il sapiente rifugge banalità e superficialità, indifferenza e disinteresse.
Secondo poi un’antica etimologia che la fa derivare dal vocabolo cor (cuore), e dal verbo uro (bruciare), la curiosità è ciò per cui un cuore brucia, è passione. E la tradizione sapienziale insegna la bontà della curiosità mossa da philanthropía, da passione per l’umano. Quell’umano che è oggetto dell’attenzione della ricerca amorosa di Dio stesso.
Il duplice movimento osservato nel testo veterotestamentario (l’uomo che cerca la sapienza e la sapienza che va in cerca dell’uomo), lo ritroviamo nella parabola evangelica dove le giovani ragazze (le dieci vergini) escono incontro allo sposo che verrà a sua volta verso di loro. Ritroviamo anche la presenza della sapienza, incarnata nell’atteggiamento delle cinque ragazze “sagge” (phrónimoi: avvedute, accorte, intelligenti, previdenti). La loro saggezza consiste nel fatto che hanno fatto una scorta di olio sufficiente per alimentare le loro lampade non sapendo quando sarebbe arrivato lo sposo. La sapienza, in questa parabola, diventa rapporto intelligente con il tempo e capacità di attesa: ma tale discernimento del tempo è connesso alla qualità della relazione con lo sposo atteso. Il testo contiene elementi allegorici sufficienti per farsi interpretare come allusione alla venuta escatologica del Signore.
In quest’ottica non è particolarmente importante identificare l’olio che manca ad alcune delle ragazze con qualche virtù o atteggiamento: il testo suggerisce che al momento del giudizio ognuno deve rispondere di sé e non può contare, né appoggiarsi su altri, né dipendere da altri, né delegare ad altri la propria responsabilità. È il momento della verità: e della verità personale, di ciascuno. È il momento in cui emerge ciò che ha veramente bruciato nel cuore della persona, qual è stato il suo desiderio profondo. Lì, davanti al Signore veniente, non è più possibile nascondersi, mentire, delegare, sfuggire le responsabilità, come forse ci è stato consentito nei giorni della nostra vita terrena. Le cinque ragazze prudenti e avvedute si rivelano essere pronte (Mt 25,10), mentre per le altre che, non sappiamo se per dimenticanza o pigrizia o imprevidenza o leggerezza o altro ancora, non hanno preso con sé una scorta sufficiente di olio, scatta un inappellabile “troppo tardi” (cf. Mt 25,11-12).
Queste, secondo Matteo, si rivelano “stolte”. Si comprende pertanto che l’imperativo “vegliate” (Mt 25,13) che cerca di far passare l’insegnamento della parabola nelle vite dei suoi lettori e ascoltatori, si riferisce a questo insieme di accortezze che hanno reso pronte alcune ad accogliere lo sposo. Sono le accortezze che nascono dall’amore, e l’amore è intelligente, preveniente e previdente: pur di non mancare l’appuntamento con la persona amata e attesa, la persona che ama pensa ai possibili inciampi che possono frapporsi e ostacolare o ritardare l’incontro e cerca di farvi fronte anticipatamente. Il fatto che i cristiani non conoscano “né il giorno né l’ora” (Mt 25,13) della venuta gloriosa del Signore, deve immetterli nella strada dell’umiltà, della sapienza, dell’attesa. E l’attesa è una soglia: tra oggi e domani, tra presente e futuro, tra storia e Regno. Ma è anche soglia tra me e l’altro, tra amante e amato, è la soglia dell’incontro. Una soglia che solo l’amore e il desiderio possono varcare.
Per gentile concessione del Monastero di Bose