Carlo Miglietta – Commento alle letture di domenica 5 Novembre 2023

✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 22,34-40

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Un monito per tutti noi

“Nel vangelo secondo Matteo, dopo diversi scontri e controversie tra Gesù e scribi, sacerdoti, farisei (cfr Mt 21,23-22,46), durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, egli pronuncia un lungo discorso, il penultimo, prima di quello escatologico. Si tratta di una raccolta di invettive e di ammonizioni indirizzate da Gesù proprio a quei suoi avversari che tante volte lo avevano contraddetto, gli avevano teso tranelli, lo avevano messo alla prova, lo avevano calunniato e insidiato con giudizi e complotti. Questo discorso, registrato al capitolo 23, è duro, e può meravigliarci di trovarlo sulla bocca di chi con misericordia perdonava i peccatori, mangiava con loro e li faceva sentire amati da Dio, anche se non meritavano tale amore. Gesù – possiamo dire – attacca i legittimi pastori del suo popolo, i dirigenti, quelli che erano riconosciuti esperti delle sante Scritture, che erano ritenuti maestri e modelli esemplari per i credenti. Sia però chiaro che queste sue parole vanno a colpire vizi religiosi non solo giudaici ma anche cristiani!” (E. Bianchi).

Un esame di coscienza su come siamo Chiesa

Oggi la Parola di Dio ci invita a un forte esame di coscienza su come siamo Chiesa. Il Vangelo ci presenta un magistero farisaico che predica bene ma poi non opera coerentemente (“dicono e non fanno”: Mt 23,3), spietato nella sua legislazione spesso oppressiva e non a misura d’uomo (“legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente”: Mt 23,4), ambizioso e di potere (“essere ammirati…, amano i posti d’onore…, i primi seggi”: Mt 23,5-7), incapace di servizio. Ma il discorso è rivolto a tutta la Chiesa: “le folle” (Mt 23,1) a cui Gesù si rivolge hanno spesso in Matteo valenza ecclesiale.

Innanzitutto Gesù ci dice che dobbiamo sempre seguire il magistero della Chiesa anche quando chi lo proclama non è coerente con l’Evangelo (Mt 23,3): non dobbiamo trovare scusa nell’incoerenza dei pastori per non convertirci personalmente. La chiamata alla sequela di Gesù è primariamente individuale, interpella ciascuno di noi. 

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Ma guai a una Chiesa priva di misericordia e di tenerezza, che impone agli altri pesanti fardelli etici che gli stessi ministri ecclesiali non sono in grado di sopportare (Mt 23,4). 

Guai a una Chiesa fatta di esteriorità, che segue lo spirito del mondo, i cui ministri si compiacciono di paludarsi di vesti sontuose, di strani paramenti, con anelli preziosi e pastorali d’oro, cercando di “abbigliarsi come quelli che stanno nei palazzi del potere (cfr Mt 11,8; Lc 7,25), e magari affermando di comportarsi così solo per dare gloria a Dio e prestigio alla Chiesa, professando una falsa umiltà” (E. Bianchi). 

Una Chiesa che non si fa problema che i suoi pastori si facciano chiamare “Padre”, quando “uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli” (Mt 23,9). Il cristiano è chiamato a riconoscere che c’è un solo padre che è il Padre celeste, che c’è un solo Maestro e una sola Guida che è il Signore Gesù Cristo.

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E non parliamo dei vari titoli di Reverendo, Monsignore, Eccellenza, Eminenza, Santità, certamente mai esistiti nella prima Chiesa, ma derivati dai potentati di questo mondo in tempi medioevali o posteriori. “Si pensi per esempio a «eccellenza», titolo estraneo nella Chiesa fino al secolo scorso e poi mutuato dal fascismo, che chiamava «eccellenza» i prefetti” (E. Bianchi).

Sappiamo che tanti Monsignori ed Eccellenze sono persone povere, miti, distaccate dal potere, ma dovremmo prendere sul serio l’Evangelo, e davvero porre segni di autenticità e di radicalità abolendo questi titoli onorifici e tante manifestazioni esteriori di potenza e di ricchezza. 

Questo discorso non è però solo rivolto alla Gerarchia ecclesiale. Sì, essa è chiamata a conversione, e anche noi laici dobbiamo aiutarla ad essere più fedele alla Parola del Signore. Ma San Girolamo ammoniva: “Guai a noi, miserabili, che abbiamo ereditato i vizi degli uomini religiosi!”.

In questi giorni sto leggendo la traduzione di un antico manoscritto, inviatami da un amico, sulla vita del monaco egiziano Aphu, vissuto alle fine del IV secolo. Egli visse sempre mischiato a una mandria di bufali, “con un abito sdruscito”, finché non lo catturarono per farlo Vescovo della città di Pemge, obbligandolo per obbedienza ad accettare la carica. Ed egli continuò a vivere una vita così povera e austera che tutti si sentivano obbligati ad imitarlo: “Nessuna delle donne osava avvicinarsi a lui per ricevere la comunione con qualche oggetto d’oro. Egli infatti aveva ordinato che nessuna donna si avvicinasse a lui per ricevere il corpo ed il sangue del Cristo con dell’oro indosso che si vedesse, o anche delle vesti colorate. E i diaconi lo temevano e stavano in piedi ordinatamente presso la porta e non lasciavano entrare nessuno che non fosse vestito seriamente, e (badavano) che i vestiti che portavano non provenissero da una tintoria, ed il loro colore non fosse troppo vivace… Tutto ciò che cresceva dalle rendite della Chiesa lo distribuiva ai poveri della città e dei dintorni, in modo che dimenticassero la condizione della loro povertà… Egli distribuiva fra tutti a seconda delle necessità di ognuno. Ed il sabato lo trascorreva fra coloro che erano bisognosi e che avevano ricevuto ingiuria, e provvedeva alle loro necessità”.

Una Chiesa umile e serva

Gesù vuole una Chiesa umile e povera, serva dei poveri e degli ultimi. E propone a modello il suo stile di vita: farsi servo, umiliarsi (Fil 2,7), fino a lavare i piedi ai suoi discepoli, facendo per loro il gesto dello schiavo (Gv 13), senza nulla pretendere, ma solo donando, fino ad immolare la propria vita per i suoi amici (Gv 15,13), fino allo scandalo di morire crocifisso (1 Cor 1,18; Gal 5,11). Icona di questa sua dimensione è il suo ingresso a Gerusalemme su un umile asino, realizzando l’oracolo di Zaccaria: “Dite alla figlia di Sion: «Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma»” (Mt 21,5; cfr Zc 9,9).

Lo stile di Gesù mette quindi in crisi ogni ideologia, anche nella Chiesa, di far conto sui beni economici, anche a fin di bene; di accettare compromessi o concordati con i vari potentati, anche se per nobili scopi; di cercare la piazza, le manifestazioni grandiose, le prove di forza, gli strumenti di potere di ogni tipo, fosse anche per annunciare il Regno. La povertà di Gesù è segno della potenza divina, e che la salvezza viene da Dio e non da mezzi umani; inoltre è annuncio ai poveri che Dio capisce la loro condizione, perché nel Figlio l’ha provata, l’ha condivisa, l’ha presa su di sé. 

Tutti siamo quindi chiamati al servizio umile dei fratelli. “Ci sono nella vita tre verbi mortiferi, maledetti: avere, salire, comandare. Ad essi Gesù oppone tre verbi benedetti: dare, scendere, servire. Se fai così sei felice” (E. Ronchi).

Carlo Miglietta

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Mt 23, 1-12 | Carlo Miglietta 37 kB 1 downloads

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Il commento alle letture della domenica a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.