Mons. Giovanni D’Ercole – Commento al Vangelo del 17 Settembre 2023

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  1. Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro”. L’essere umano è un mistero, ospita nel suo animo serpenti addormentati che a ogni momento possono svegliarsi e scagliare il veleno contro chiunque e anche contro Dio. Non ci si può meravigliare se anche oggi, dopo millenni di storia, si continuano a registrare episodi di violenza e reazioni di vendetta intolleranti e incapaci di perdono. Perché si arriva così facilmente ad atti frutto dell’ira con conseguenze tragiche che segnano per sempre la vita di una persona e di intere famiglie? Perché si spegne così facilmente la possibilità di dialogare, di parlarsi senza necessariamente aggredirsi?

Nella prima lettura è interessante a questo proposito quanto afferma il saggio Ben Sira, solitamente chiamato Siracide o Ecclesiastico, vissuto nel secondo secolo prima di Cristo. Dopo un lungo periodo di storia tante cose erano cambiate nella società con una positiva evoluzione della mentalità e del progressivo evolversi del modo di vivere in Israele. L’esperienza della deportazione, le guerre con i popoli vicini e i tanti conflitti intestini avevano fatto comprendere che con la vendetta non si può mai giungere alla pace. Del resto la Bibbia può essere considerata come un paziente tentativo da parte di Dio, attraverso i profeti, di estirpare lo spirito della vendetta nella mentalità del suo popolo.

Da Caino che era stato vendicato sette volte, la spirale della violenza si era talmente diffusa che qualche tempo dopo Lamek amerà vantarsi di vendicare i torti ricevuti ricambiandoli settanta volte sette, cioè senza alcun limite. Con pazienza è stato possibile invertire questa spirale di odio grazie alle leggi e soprattutto alla predicazione dei profeti sino a giungere a criteri più umanizzanti. Ben Sira, in un certo modo, è la codificazione di questo nuovo modo di rapportarsi nella società riconoscendo realisticamente che la vendetta e l’odio non conducono mai alla soluzione dei problemi ma anzi li incancreniscono. Suggerisce allora l’unica strada possibile e cioè il coraggio di perdonare e di accettare il perdono.

Come può infatti Dio ascoltare la preghiera di chi gli chiede aiuto se questi non rispetta la sua legge e non riconoscere nell’altro una persona bisognosa di perdono? La catena delle vendette non si arresterà mai se qualcuno non decide di porvi fine. Ed ecco l’invito di Ben Sira: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”. Pregare e perdonare sono due intuizioni dell’animo che si collegano reciprocamente quando ci si lascia illuminare da quel barlume di saggezza del cuore che il Signore ha seminato in tutti gli esseri umani.

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E se proprio non riesci a perdonare perché non ti senti pronto a gesti concreti di riconciliazione che fare? L’odierna prima lettura si conclude con questo consiglio: “Ricorda l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. “Dimentica!” Un modo più attento di leggere questo versetto porta a dire che se proprio non riesci a perdonare l’offesa ricevuta ispírati alla pazienza di Dio, ma se non riesci a imitarlo nel perdonare allora cerca di dimenticare il torto ricevuto, in altre parole “passaci sopra”, cioè fattene una ragione e non ti rovinare il fegato,  perché un animo avvelenato dall’ira non troverà mai pace. Non siamo però al perdono del cuore! Per giungervi occorre un itinerario umano e spirituale non per nulla semplice né facile.

  1. Quando ti è stata inferta una grave ferita fisica ti resta la cicatrice per sempre e la pelle non tornerà più come prima perché la ferita guarisce ma non si può cancellarne il segno con un colpo di spugna. Quando si tratta di una ferita morale succede esattamente la stessa cosa e non si può far finta che non sia successo nulla perché talora nei casi più dolorosi l’odio dura per tutta la vita.

Quanti esempi possiamo rilevare nelle relazioni tra parenti, tra amici, tra gente che vive insieme da tanto tempo anche all’interno delle comunità parrocchiali e quelle religiose! Come si può dimenticare un gesto di grande disprezzo, una calunnia che ti rovina il buon nome, l’infedeltà coniugale che pone la famiglia in una crisi senza sbocchi, una palese ingiustizia fatta con cattiveria, e ancora le violenze fisiche, morali e religiose imposte qualche volta per lungi periodi? Non è forse vero che l’imprudente nostro modo di parlare e di agire può generare conseguenze irreparabili e rovinare per sempre qualcuno?

Certamente, quando ce se ne rende conto si vorrebbe cancellare il trascorso e riavvolgere tutto il vissuto come in una pellicola per tornare all’inizio, ma questo è impossibile né per la vittima né per chi tutto ciò ha provocato. E se il saggio Ben Sira suggerisce in qualche modo di farsene una ragione e di cercare di costruirsi il futuro senza vivere con il rospo nello stomaco, resta il fatto che il perdono consiste non nel dimenticare o far finta che non sia avvenuto nessun torto, ma nel cercare nonostante tutto di riallacciare con pazienza e coraggio le relazioni frantumante a causa dell’offesa ricevuta.

Il perdono è tendere a diventare nuovamente amici, a tornare fratelli ricreando la reciproca fiducia e accettare che, malgrado tutto quello che è successo, è possibile costruire un avvenire di pacifica intesa. Quando questo riesce si vive realmente un’altra storia. Il perdono infatti è un dono perfetto che da il coraggio di andare oltre l’offesa ricevuta e rinnova un clima di reciproca intesa, ma occorre riconoscere che questo è possibile e avviene solo grazie all’azione dello Spirito Santo. Il perdono è una grazia da invocare incessantemente e da costruire ogni giorno con pazienza e molta umiltà.

  1. Il tema del perdono torna nella pagina del vangelo di Matteo che conclude il quarto discorso dedicato alla vita della Chiesa. Il testo odierno  segue quello di domenica scorsa quando Gesù aveva istruito i discepoli sulla necessità della correzione fraterna quale strada evangelica di riconciliazione nelle comunità cristiane. San Pietro facendo eco forse ad altri che vorrebbero interloquire con Gesù fa notare che perdonare va bene, ma quante volte e precisa: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”.

L’apostolo è convinto di aver detto il massimo possibile ma si sente rispondere: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. In altre parole: sempre!E Gesù accompagna queste suo insegnamento con la parabola del debitore impietoso in tre successivi momenti della storia: Un re condona un debito incredibilmente enorme e impossibile da restituire a un suo subalterno cedendo alle sue supplichevoli implorazioni. Questi però con ingratitudine e senza pietà esige invece da un suo compagno di lavoro, che gli deve molto poco, una restituzione immediata e totale e lo fa addirittura imprigionare insieme a tutta la sua famiglia sino al saldo totale della modesta somma.

Il padrone rimprovera la persona a cui aveva condonato il grande debito con durezza: ”Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. E fortemente adirato consegna il servo avido ed egoista agli aguzzini esigendo la piena restituzione di tutto sino all’ultimo centesimo. ”Così anche il Padre mio celeste – conclude Gesù – farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.

  1. Nel corso della storia della salvezza Dio accompagna con tappe successive l’umanità a liberarsi dalla spirale dell’odio/vendetta: dapprima con la legge del taglione – dente per dente, occhio per occhio – che limita già i danni della violenza e in seguito aiuta pazientemente il suo popolo a entrare nella logica del perdono concesso con cuore sincero. Nel vangelo odierno Gesù invita Pietro, e con lui tutti i discepoli, a compiere il passo decisivo che è quello del perdono illimitato così come il Cristo farà offrendo la sua vita sulla croce perdonando i suoi assassini. Il perdono di Cristo non conosce limiti.

Quando recitiamo il Padre nostro ripetiamo senza troppo pensarci: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Chiediamo a Dio di essere capaci di perdonare gli altri come lui ci perdona, o forse vogliamo domandare il suo perdono perché solo accogliendolo nel nostro cuore possiamo sperare di riuscire offrirlo a chi ci ha offeso. Riconosciamo così che soltanto se Dio ci inonda del suo amore misericordioso possiamo accettare le offese ed essere pronti a perdonare.

Comunque sia il perdono non è mai una conquista puramente umana, ma, se anche richiede il nostro sforzo, è azione gratuita della misericordia divina che cambia il cuore dell’uomo. Quando infatti ci sentiamo amati dal Signore, è più facile che il cuore s’imbeva della stessa pietà divina, un’emozione dello spirito più forte di ogni meschino calcolo umano. Invochiamo insistentemente il dono del “perdono di cuore” che è amore purificato verso il nostro prossimo, e se la misura dell’amore è amare senza misura, ugualmente il perdono è un perdono che va oltre ogni limite umano, imitando quello di Dio.

  1. Resta da chiarire un ultimo dettaglio: se la parabola vuole comunicarci che il perdono deve essere illimitato e gratuito invitandoci a seguire l’esempio di Dio pronto sempre a perdonare, come interpretare il fatto che il padrone non perdona il servo infedele a cui è stato condonato molto e che si è rivelato cattivo con il suo collega che gli doveva molto poco?  Non essendo stato a sua volta misericordioso perde il beneficio del perdono del re?

A ben vedere il problema non è dalla parte di chi perdona ma di chi dovrebbe essere disposto a riceverlo perché il cuore umano diventa talvolta così refrattario da non essere capace nemmeno di accoglierlo, come una terra desertica induritasi come un sasso su cui l’acqua scivola senza riuscire a penetrare e per questo continua a restare arida e senza vegetazione. Avviene la stessa cosa per noi: il perdono di Dio è una sorgente che getta acqua fresca senza interruzione da millenni e a cui tutti possiamo attingere gratuitamente. Per poterne usufruire occorre però servirsi di un recipiente piccolo o grande secondo il bisogno e la decisione di chi vuole bere: questo è il pentimento. Senza pentimento non ci può essere perdono e il pentimento in Dio è l’inizio d’una nuova vita illuminata dalla luce del suo amore.

AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina FacebookSito Web