Carlo Miglietta – Commento alle letture di domenica 1 Settembre 2023

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Spesso pensiamo che essere discepoli di Gesù, colui che ha vinto la sofferenza, la malattia, la morte, significhi essere preservati da ogni prova e da ogni dolore. E ci sorprendiamo se la malattia o addirittura la morte toccano i nostri cari o la nostra persona. Talvolta riteniamo che il cercare di seguire fedelmente la volontà di Dio e i suoi comandamenti ci debba mettere al riparo dalle sofferenze degli altri uomini. Ma Gesù invece ci dice che il dolore e la sofferenza fanno parte del nostro limite creaturale, e che anche i discepoli devono accettare di portare la loro croce dietro di lui, come lui stesso l’ha portata.

La croce Parola di Dio

Luciano di Samosata sbeffeggiava i cristiani che “venerano l’uomo che è stato crocifisso in Palestina”, e “adorano quel sofista crocifisso” che li ha persuasi che sono tutti fratelli (Per. mort. 11-13). Giustino affermava che i pagani “in questo credono di dimostrare la nostra follia, dicendo che noi diamo il secondo posto, dopo l’immutabile ed eterno Dio, creatore di tutte le cose, ad un uomo posto in croce” (Apol. 1,13,4). Sempre Giustino fa dire all’ebreo Trifone: “Colui che voi chiamate Cristo fu senza onore né gloria, tanto da incorrere nell’estrema delle maledizioni previste dalle legge: fu infatti crocifisso” (Dial. 32,1). Siamo l’unica religione che ha per emblema un condannato a morte, un torturato, un crocifisso!

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“La stoltezza dell’annunzio cristiano sta proprio nella pretesa che un avvenimento casuale, la crocifissione di Cristo, assuma un valore assoluto e definitivo. La sapienza di Dio si manifesta in questa stoltezza: nella morte in croce di Cristo e nell’annuncio di questo evento fatto con linguaggio non sapiente” (M. Brunini).

Paolo parla addirittura della “parola della Croce” (1 Cor 1,18). “La «parola della croce», «ho lógos toû stauroû», è una locuzione esclusiva di Paolo… Il lógos della croce è l’annuncio di Cristo crocifisso, la concentrazione più densa e maggiormente appropriata del vangelo” (M. Brunini).

È il “kerygma”, ossia la predicazione del Cristo, che ci ha redento per la potenza della sua passione e morte. La parola della croce è, dunque, il vangelo della croce. I Giudei chiedono segni potenti, i pagani la sapienza. Solo la Croce è vera potenza e vera sapienza (1 Cor 1,22). 

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Dio si rivela nella debolezza

Così, è nella nostra debolezza, nel nostro portare la nostra croce che si rivela la potenza di Dio. Paolo esclama: “Gesù fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi, che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei vostri riguardi” (2 Cor 13,4). 

È questa la particolare linea di condotta di Dio: “Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza di questo mondo…? È piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Cor 1,20-21). Dio non si rivela e agisce là dove c’è sapienza, potenza, nobiltà, grandezza umana, ma lo si incontra nella insensatezza, nella debolezza, nella bassezza, nella piccolezza (cfr Dt 7,7-8). 

Elogio dell’“astenia”

In Cristo Gesù c’è un continuo passaggio dalla debolezza di Dio alla nostra debolezza. Così che, se la debolezza di Dio è potenza, anche la nostra debolezza è potenza, e se la stoltezza di Dio è sapienza, anche la nostra follia partecipa della sapienza divina.   

“Il termine «astheneia», «debolezza», nell’epistolario paolino è associato alla precarietà umana dell’Apostolo che comporta malattie, fatiche, privazioni e disagi di vario genere (cfr 4,11-12; 2 Cor 11,23-30; 12,9-10)… Rimanda all’antitesi tra «debole/forte» che si manifesta nell’agire paradossale di Dio (1 Cor 1,25.27)” (R. Fabris).

“Dio considera il terreno dell’«astenia» come il luogo privilegiato per far brillare la potenza della grazia divina” (G. Ravasi). Ecco perché Paolo esclama: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,9-10). “Contro una visione utilitaristica ed efficientista, com’è quella in cui siamo immersi, le parole di Paolo risuonano con tutta la forza provocatrice che esse avevano anche nel mondo greco, ove era la forma perfetta ad essere segno di pienezza, di autenticità, di divinità. Il cristianesimo, che ha nella «stoltezza» e nello «scandalo» della croce – per usare una celebre locuzione paolina – il suo centro vitale, riabilita ed esalta il sofferente” (G. Ravasi). È già la posizione di Gesù, che di fronte ai farisei che gli chiedevano se l’uomo nato cieco fosse così per colpa sua o dei suoi genitori, risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9,3). “La malattia non come segno di reiezione bensì di elezione, non come sede di maledizione ma di benedizione, non come luogo satanico bensì come orizzonte teofanico: «Si manifestano in lui le opere di Dio»” (G. Ravasi).

“Il nostro «nulla» è assunto da Dio per renderci testimoni umili e annunciatori stolti del lógos della croce… In questo stupefacente orizzonte è possibile riconoscere, con occhi nuovi, le nostre ferite per aderire, con fede e umiltà, allo svelamento del Dio Trinità che, nella croce di Cristo, si rivela nella sua debolezza… In compagnia di Cristo crocifisso le mie debolezze, la mia impotenza, le mie passioni, i miei istinti, i miei bisogni e desideri, il mio nulla possono diventare la via che conduce a Dio. Può essere la fatica della malattia, che pone in contatto con la precarietà del corpo; dischiude alla dipendenza dagli altri; toglie quel poco o tanto di potere che credevamo di avere e di esercitare. Può trattarsi dell’apatia. Quel certo tono depresso, che rende scontenti e fa trascinare senza prospettive per il futuro. Anche il passato, con le ferite dell’origine non sempre rimarginate, può alimentare la dolorosa sensazione dell’incomprensione, della scarsa considerazione, della non accoglienza e soprattutto del poco amore da parte degli altri. Infine, le ferite legate agli insuccessi personali, spirituali, professionali o familiari” (M. Brunini).

Marcello Brunini afferma che bisogna cominciare a “considerare le ferite come parte di se stessi, a riconciliarsi con esse accettando questa semplice verità: la ferita che mi abita è parte di me. Essa è il luogo dove l’impotenza mi avvolge, dove il dolore si mostra e si fa sentire; il luogo dove la tristezza mi assale”; occorre quindi “fare spazio al dolore, spesso soffocato e ritenuto insopportabile e anche inutile… In questo modo la ferita si trasforma in feritoia… Anche da risorto il Cristo si è lasciato le ferite come «ornamento». Qualcosa del genere può accadere anche a noi se, avvolti nel suo amore, accogliamo come feritoie le ferite che, da condanna, si aprono a diventare un’opportunità per un cambiamento radicale dell’esistenza”. 

Ogni nostra situazione di sofferenza può diventare luogo di maturazione, di approfondimento spirituale, di conversione, di salvezza, di maggior capacità di comprensione e di condivisione con i fratelli che sono in difficoltà. Davvero ogni nostra “ferita” può trasformarsi in “feritoia” che ci apre ad un’esperienza privilegiata con il Signore.

Carlo Miglietta

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Mt 16, 21-27 | Carlo Miglietta 35 kB 3 downloads

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Il commento alle letture di domenica 3 settembre 2023 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.