Il cuore non mente mai!
XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)
Dal libro del profeta Isaìa Is 22,19-23
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide.
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo:
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«Ti toglierò la carica,
ti rovescerò dal tuo posto.
In quel giorno avverrà
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che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
lo rivestirò con la tua tunica,
lo cingerò della tua cintura
e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Lo conficcherò come un piolo in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».
L’autorità a servizio del bene comune
La destituzione di Sebna e la costituzione di Eliakìm al suo posto, quale maggiordomo del palazzo del re, è letta dal profeta Isaia alla luce della parola di Dio che «rovescia i potenti dai troni, rimanda a mani vuote i ricchi, esalta gli umili e li ricolma di beni» (Lc 1). Sebna ha sfruttato la sua posizione sociale e ha abusato la sua autorità favorendo clientelismo e ingiustizie. Ha così logorato la sua veste sporcandola con il peccato.
Per questo egli viene spogliato del potere che viene affidato ad un uomo con un cuore più puro e docile. Eliakìm non ha brigato per ricoprire quella carica importante ma è stato scelto e si è lasciato rivestire di ogni virtù di governo dal Signore che lo ha cinto con la sua forza e potenza. L’autorità di Eliakìm non è imposta come un peso che grava sulle spalle degli altri, ma lui stesso si fa carico della responsabilità di garantire giustizia ed equità proteggendo le persone più fragili e indifese. La rettitudine morale e la fermezza nel perseguire sempre il bene del popolo sono ispirati dalla Parola di Dio che illumina con la sua sapienza la mente di coloro che l’ascoltano e a Lei aderiscono con la vita.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 11,33-36
Da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti,
chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
O chi gli ha dato qualcosa per primo
tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.
Inesauribile ricchezza dell’amore di Dio
Paolo contemplando l’opera di Dio non può che perdersi e arrendersi alla profondità e alla ricchezza della sapienza di Dio che tutto dispone secondo la logica dell’amore. Questa pagina della Lettera ai Romani ispira una confessione di s. Agostino che narra del bambino trovato sulla spiaggia il quale cerca di riempire la piccola buca con l’acqua del mare. È certamente un’impresa impossibile, come lo era anche la pretesa di comprendere il mistero della Trinità, ovvero l’amore increato e creatore di ogni cosa. Giobbe non riesce a cogliere con le sue categorie mentali, per le quali la giustizia consiste nel dare e ricevere il premio o la condanna, il senso del suo dolore innocente.
Chiama in giudizio Dio perché gli dia conto del so operato e risponda al suo grido e al suo drammatico dubbio. Infine, giunge alla determinazione di fermarsi davanti al mistero, della salvezza o della iniquità che sia. Compito del credente non è capire per agire consapevolmente, ma agire liberamente per amore per essere parte della storia della salvezza, condotta da Dio, che attraversa i meandri oscuri delle vicende umane, anche le più contorte, e le orienta verso un maggior bene.
+ Dal Vangelo secondo Mt 16, 13-20
Tu sei Pietro, e a te darò le chiavi del regno dei cieli.
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
La forte debolezza della misericordia
Tutto il racconto è attraversato da una tensione tra la debolezza, stigma dell’umanità fragile, e la forza, propria di Dio che si manifesta nella sua fedeltà. La domanda che Gesù rivolge ai discepoli riguardo al Figlio dell’uomo rivela particolarmente il suo aspetto umano. Infatti, egli, sebbene sia stato riconosciuto come il Figlio di Dio dopo che aveva camminato sulle acque, umanamente avverte il bisogno di conferme che lo aiutino a conoscere meglio se stesso. Gesù sta maturando la consapevolezza della sua identità e della sua missione ma sente la necessità di confrontarsi con gli altri e il loro punto di vista. Il popolo, pur evocando più personaggi, tuttavia riconosce che la sofferenza sia il tratto che accomuna i profeti e che necessariamente caratterizza anche il Figlio dell’uomo. Giovanni Battista, Elia, Geremia e tutti i profeti hanno sperimentato fino alle estreme conseguenze il valore della sofferenza e della debolezza. Si tratta del sensus fidei del popolo, della gente comune che avverte la vicinanza di Dio proprio sul piano della debolezza, anche se non si rassegna alla sofferenza ma crede che la Sua mano interverrà per liberare. Ciò che ci appare chiaro come segno di credibilità per gli altri non sempre è facile accettare per sé. La sofferenza ci fa paura e dubitiamo di avere la forza necessaria per affrontarla.
I discepoli sono interpellati in prima persona e costretti ad uscire allo scoperto senza nascondersi dietro i «si dice». A nome di tutti risponde Pietro. L’apostolo confessa che Gesù è il Messia perché Figlio di Dio. Pietro parla per ispirazione e non ancora per esperienza. L’ispirazione è l’azione dello Spirito Santo che rivela la verità; essa è tale prima che venga sperimentata. La fede è una luce interiore che fa vedere la verità, cioè le cose come le vede Dio. Con la luce dello Spirito di Dio possiamo vedere anche tra le nebbie delle prove.
La parola di Gesù diventa per Pietro, e per ogni discepolo insieme a lui, annunciazione: «Simone, figlio di Giovanni, io dico a te …». Anche quella di Gesù è una dichiarazione importante perché svela a Pietro la sua vocazione. L’ispirazione è qualcosa di estremamente diverso dall’immaginazione. La prima è la parola di Dio che sempre si realizza mentre la seconda è la proiezione delle nostre aspettative che spesso vanno deluse perché basate sull’orgoglio e l’ambizione.
È il Padre la fonte della rivelazione che conferma a Gesù, tramite la gente e Pietro, la sua missione di Messia, e che rivela a Pietro, tramite suo Figlio, la sua vocazione nella Chiesa. Ciò che confessa Pietro non è l’espressione delle aspettative politiche e sociali, ma è il progetto di Dio. Questo Pietro non lo sa, mentre conosce molto bene l’oppressione e la stanchezza della gente e il loro desiderio di riscatto. La professione di fede di Pietro lascia aperta la domanda sul modo col quale il Cristo eserciterà la sua potestà e per quali fini. A questo interrogativo risponde Gesù che, svelando a Pietro la sua identità, lo fa partecipe della Sua vocazione e della Sua missione.
Nelle parole di Gesù si nasconde un sottile gioco di parole apprezzabile nella lingua aramaica. Infatti, il termine «eben», che indica la «pietra rocciosa», è collegato con la parola «ben» che significa «figlio». Come Gesù sarà riconosciuto nella sua autorità di Figlio di Dio nel drammatico momento della morte, comune eredità di tutti gli uomini, così i discepoli sono la pietra rocciosa sulla quale può poggiare solida la Chiesa di Dio. Sulla croce Gesù, offrendo la sua vita per amore, diviene il più debole tra i deboli, ma proprio in quel momento la potenza di Dio lo costituisce re dell’universo. L’uomo più povero del mondo riceve l’autorità più alta.
I discepoli di Gesù non sono guidati dallo Spirito solamente per conoscere qualcosa di Gesù, ma per entrare nel regno di Dio, cioè sperimentare nel massimo della propria debolezza il grado più alto della potenza dell’amore di Dio. Dal dono dell’ispirazione, che ci raggiunge attraverso la Sacra Scrittura e l’insegnamento della Chiesa, bisogna passare all’esperienza della misericordia e dalla conoscenza ideale o concettuale di Gesù si deve transitare verso il riconoscimento reale della Sua persona soprattutto nei più deboli ai quali farsi prossimi per sostenerli. Allora si scopre che si è forti proprio nella debolezza se la si vive in unione con Cristo. Nel momento in cui si sperimenta la forza dell’amore di Dio che si piega per partecipare alle sofferenze prendendosi cura delle nostre ferite, allora si diventa testimoni credibili della misericordia divina.
La forza partecipata e l’autorità conferita ai discepoli da Gesù non si traduce in una forma d’imposizione dall’alto ma, al contrario in uno stile di sottomissione e servizio al fine di supportare e confermare i fratelli nella fede. Dio non è un concetto astratto, avulso dalle trame, spesso imbrogliate, della nostra vita, ma è l’Emmanuele il Dio-con- noi, il Dio per noi.
Gesù, come a Pietro, non predice il futuro ma illumina il presente per poter costruire insieme con lui il nostro avvenire. Ad un occhio orgoglioso il futuro appare da una parte circonfuso della gloria mondana, della fama, della ricchezza e del successo, e dall’altra minacciata dagli imprevisti capovolgimenti di sorte che decreterebbero la fine dei propri sogni. Agli occhi di Dio, invece, le potenze del male, sebbene cerchino di avere la meglio, non avranno l’ultima parola. Gesù invita Pietro a non aver paura delle forze ostili che, pur insidiando la Chiesa, fino quasi a ridurla allo stato catacombale, non avrà mai il controllo della storia che invece rimane saldamente nelle mani di Dio. Non sono tanto le parole che illuminano di senso la vita, quanto invece sono le opere di carità che danno senso credibile alle parole che pronunciamo. Ciò che ci salva non sono parole simili a formule magiche, ma la Parola di Dio che va ascoltata e messa in pratica, prima ancora che venga proclamata e insegnata. La prima forma di evangelizzazione è la narrazione della fede a partire dal dono delle proprie debolezze trasformate in punti di forza dall’amore di Dio.
La conoscenza di sé e l’espressione delle proprie virtù è possibile solo se si rimane in dialogo con Gesù che ci accompagna nel viaggio della vita.
Il cuore non mente mai!
Dio parla sempre attraverso una relazione personale nella quale Egli si fa conoscere. Non di rado siamo come la gente che esprime la sua idea su Gesù senza conoscerlo, ma per sentito dire. Capita anche che l’opinione che ci facciamo di una persona e la conoscenza che crediamo di avere di lei non si basi tanto su una qualche esperienza diretta ma sul giudizio che altri hanno espresso o sull’impressione avvertita a pelle. Dio non lo puoi conoscere se non lo incontri faccia a faccia, se non ti lasci coinvolgere in una relazione che non può prescindere dal contatto fisico, dal dialogo a tutto tondo.
Solo quando permetto a chi ho di fronte d’interpellarmi profondamente e di interrogare il mio cuore, con tutti i pensieri e le emozioni che quel contatto suscita, posso esprimermi secondo verità. Il cuore non mente mai! Pietro parla a Gesù col cuore anche se non sa fino in fondo cosa sta dicendo perché la verità supera la mente e la sua capacità di comprendere. L’apostolo, come ogni uomo, rimarrà sempre incapace di contenere e possedere la verità dell’amore di Dio. Proprio per questo gli viene affidato il potere non di conoscere tutto ma di far conoscere a tutti l’amore di Dio. La parola di Gesù è la chiave di accesso al mistero insondabile della croce, scaturigine sempre attiva della misericordia.
Annunciando la sua Pasqua, che avrebbe celebrato vivendo la sofferenza e attraversando la morte per giungere alla risurrezione, Gesù offre ai discepoli la chiave per comprendere il senso profondo degli eventi, la sua vera identità e la sua missione. Pietro non vuol sentir parlare di dolore, umiliazioni e morte e si rifiuta di accettare quella realtà, così drammatica e priva di fascino, nella quale stenta a vedere la volontà di Dio. Quando Pietro parla con il cuore non sbaglia perché il suo pensiero è ispirato da Dio mentre quando è accecato dalla paura egli ragiona di pancia e reagisce in maniera scomposta. Come in Pietro anche in ciascuno di noi convive la luce della sapienza di Dio ma anche le tenebre dei ragionamenti contorti di Satana.
I pensieri giudicanti fanno da schermo alla Parola di Dio che non può fecondare il nostro cuore e neanche quello dei nostri fratelli ai quali, invece di porgere la luce della verità per farlo conoscere, offriamo loro una contro testimonianza che ostacola l’incontro con Lui e l’esperienza sanante del suo amore. Le parole di Gesù a Pietro sono dure come la pietra per far comprendere che il modo di pensare del demonio ci fa inciampare nel cammino della santità, ci atterrisce e ci impedisce di rialzarci. Pur nella severità del rimprovero Gesù richiama Pietro, cioè lo chiama nuovamente a seguirlo. Infatti, quello di Gesù non è un giudizio che inchioda ma un appello forte a non lasciarci dominare dal peccato ma di dominarlo con la forza della sapienza della croce, la logica dell’amore.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“