Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 27 Agosto 2023

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Una domanda aperta

Nella prima lettura della XXI domenica del tempo Ordinario dell’annata A, il profeta Isaia parla di un oscuro avvicendamento al potere nel regno di Giuda (Is 22,19-23). Il visir, il sovrintendente del palazzo, Sebnà, viene rimosso e al suo posto Dio pone Eliakìm, “servo del Signore” (Is 22,20), insignendolo dei simboli dell’autorità: le chiavi del palazzo reale, il potere di aprire e chiudere, il compito e la responsabilità di vigilare sulla vita del palazzo del re. Nel vangelo (Mt 16,13-20) queste immagini sono applicate a Pietro, che Gesù investe del compito di esercitare un’autorità decisiva all’interno della chiesa. Il tema dell’autorità è centrale nelle letture. Un’autorità che è dono dall’alto e dunque non motivo di vanto, ma di umiltà, non di pretesa, ma di ringraziamento, non di potere e di abuso, ma di servizio.

Il testo evangelico si apre annotando l’arrivo di Gesù nella regione più settentrionale della terra d’Israele, “dalle parti di Cesarea di Filippo” (Mt 16,13). Matteo colloca qui la confessione messianica di Pietro, nella zona più distante da Gerusalemme e confinante con la terra pagana. Siamo al termine di un cammino in cui Gesù ha toccato Genesaret (Mt 14,34), si è recato verso Tiro e Sidone (Mt 15,21), è giunto presso il mare di Galilea (Mt 15,29), quindi a Magadan (Mt 15,39) e infine a Cesarea di Filippo, la città il cui nome è memoria della sua nobiltà imperiale. Fu il tetrarca Filippo a chiamarla così in onore dell’imperatore.

Da lì il cammino di Gesù prenderà la direzione di Gerusalemme (Mt 16,21). E proprio a Cesarea di Filippo Gesù interroga i discepoli sulla sua identità, su ciò che gente e poi loro stessi hanno compreso della sua persona. Il vangelo raggiunge così un vertice che determina una svolta nel cammino esistenziale di Gesù. Ora trovano una risposta le domande disseminate nella prima parte del vangelo circa la persona di Gesù: “Chi è mai costui?” (8,27); “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3); “Che non sia costui il figlio di Davide?” (Mt 12,23).

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La prima domanda di Gesù riguarda ciò che la gente dice di lui. O meglio, del Figlio dell’uomo, espressione che Gesù usa per parlare di sé indicando la sua dimensione di debolezza umana, ma in cui si manifesta la sua piena comunione con Dio, il suo potere di rimettere i peccati, il suo cammino di morte e resurrezione, il suo essere giudice che verrà nella gloria: “Chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo?” (16,13). Gli uomini lo vedono come un profeta (16,14). Colpisce che, si tratti di Giovanni Battista, di Elia, di Geremia o di uno dei profeti, sempre si tratta di figure del passato. Gesù è letto sulla scorta del passato, del già noto. Come fosse la figura di un ritornante: già Erode pensava che Gesù fosse Giovanni Battista redivivo (Mt 14,2) e il testo parallelo di Lc 9,19 riferisce l’opinione di chi pensa che Gesù sia “uno degli antichi profeti che è risorto”.

Rispetto a Marco e Luca, Matteo aggiunge la menzione di Geremia. Forse perché il profeta di Anatot ha vissuto una vicenda particolarmente tragica e piena di sofferenze e in questo prefigura la vicenda di Gesù, oppure forse perché Geremia ha denunciato con estremo vigore l’irresponsabilità, la menzogna e la doppiezza della classe sacerdotale e dei capi d’Israele e Gesù analogamente si è scagliato contro scribi, farisei e sadducei (cf. Mt 15,1-9; 16,6,11-12; 23,13-32).

Ma dopo aver ascoltato le opinioni della gente sulla sua identità, Gesù rivolge la medesima domanda direttamente ai discepoli introducendola con una leggera avversativa, quasi a sottolineare

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che si aspetta una comprensione altra, più profonda, della sua identità: “Ma voi, chi dite che io sia?” (16,15). Questa domanda sollecita una risposta che nasca dal coinvolgimento personale che i discepoli hanno vissuto con Gesù, dalla vicinanza che hanno conosciuto, dalla quotidianità condivisa. Da lì può e deve emergere una risposta decisamente più consistente circa la sua identità. La domanda “chi è Gesù?” diventa anche per noi oggi una domanda sul nostro coinvolgimento con lui, sulla qualità della nostra relazione con lui, sulla nostra fede. Gesù non è semplicemente colui che fornisce risposte al vivere, ma è e resta anzitutto una domanda per il credente come per la chiesa nel suo insieme. Nella nostra pagina evangelica Gesù diventa improvvisamente domanda per coloro che pure sono già impegnati nella sua sequela, ne hanno ascoltato le parole e gli insegnamenti, ne hanno visto le azioni di guarigione e di perdono, ne hanno osservato da vicino la vita di preghiera e la capacità di comunione.

Eppure, anche per loro la risposta non è affatto facile né scontata. Tanto che se alla prima domanda che non li riguardava direttamente, tutti hanno risposto coralmente, sovrapponendo le loro voci (“essi risposero”: 16,14), ora nel silenzio comunitario si sente la voce del solo Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16). Pietro coglie il novum: Gesù non è solo un profeta, un preparatore della strada del Messia, ma lo è lui stesso. Pietro vede ciò che non è umanamente possibile vedere e cogliere se non per rivelazione dall’alto: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,27). “Non la carne e il sangue”, dirà Gesù, “te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (16,17). L’espressione “carne e sangue” rinvia all’umano nella sua debolezza e fragilità ma anche nella sua forza vitale, nei suoi doni e nelle sue capacità, nelle componenti che rendono vivo un uomo: intelligenza, intuizione, sapienza, creatività.

Il testo ci pone il problema del discernimento di ciò che viene da Dio e di ciò che viene da noi, che non necessariamente è discernimento tra bene e male, ma tra ciò che è un parto, per quanto nobile, della nostra umanità, e ciò che proviene dal mistero divino e di cui noi ci facciamo accogliente ricettacolo. Per accogliere il dono del discernimento non occorre far ricorso a tecniche spirituali, ma perseguire un’educazione del cuore per divenire piccoli, per semplificarsi; per entrare nel movimento di conversione che conduce a riconoscersi figli in rapporto all’abbà; per penetrare sempre più a fondo nella conoscenza di Gesù. La tensione espressa dalla polarità “carne e sangue” e “Padre che è nei cieli”, diventa dinamica trasformativa riguardante lo stesso Pietro: Simone, figlio di Giona, diviene Pietro, roccia di fondamento. Il testo parla di Simone Bariona (Símon Barionâ), interpretato da alcuni come patronimico e abbreviazione di Simone “figlio (in aramaico: bar) di Giovanni” (Yochanan; cf. Gv 1,42; 21,15.16.17), oppure come termine (bariona, attestato nel Talmud) che indicava dei fuorilegge, dei rivoltosi antiromani, degli zeloti. Ciò che importa è che all’affermazione ispirata di Pietro rivolta a Gesù (“Tu sei il Cristo”) risponde la parola di Gesù al discepolo: “Tu sei Pietro” e la promessa e il mandato che seguono. Queste parole (16,18-19) che lo costituiscono nell’autorità di chi svolge un ministero decisivo per l’unità e la comunione della chiesa, non tolgono la debolezza e la fragilità dello stesso Pietro, come appare dal prosieguo del testo evangelico (cf. Mt 16,21-23). La pietra di fondamento può divenire scandalo, pietra d’inciampo. Per quanto edificata sulla roccia, la chiesa è affidata alla fragilità e all’instabilità degli uomini. L’autorità di Pietro non ne viene sminuita, ma essa si accompagnerà sempre alla sua costitutiva fragilità, sicché “il destino della chiesa è come quello del Cristo: un cammino nella contraddizione” (Bruno Maggioni). Del resto, proprio l’esperienza della fragilità vissuta in prima persona può liberare l’autorità dal rischio di deviare in potere, può essere salvifico memoriale della fragilità degli altri uomini e può fare dell’esercizio dell’autorità la narrazione della misericordia di Dio. L’immagine della pietra (“su questa pietra edificherò la mia chiesa”: 16,18) rinvia al saldo fondamento su cui si può costruire un edificio. In particolare il rinvio è alla pietra di fondamento del tempio (cf. Is 28,14-18). Se il fondamento ecclesiale è Cristo, Pietro partecipa a questo compito: la sua confessione di fede è elemento basilare dell’edificio ecclesiale. Suo compito è “rafforzare” e “confermare” nella fede i fratelli (cf. Lc 22,32).

L’immagine delle porte rinvia alle porte delle città, che erano il luogo in cui si svolgevano i combattimenti decisivi. La chiesa di Cristo si oppone alla potenza del male e della morte (“le porte dell’Ade”: Mt 16,18) e la combatte con le sue forze che sono l’annuncio del vangelo, i sacramenti, la prassi della carità. La potenza della morte non sarà più forte della potenza di vita annunciata e testimoniata nella chiesa fondata sul Cristo risorto, colui che è “il Figlio del Dio vivente” (16,16),

cioè il datore della vita, colui che ha potere sulle forze della corruzione (At 14,15; 1Ts 1,9; Eb 9,14; 1Tm 3,15; 4,10; 1Pt 1,23).

Infine, se le chiavi indicano un’autorità dottrinale (cf. Lc 11,52: “la chiave della scienza”) e di governo (cf. Is 22,22), l’espressione sciogliere e legare implica un’autorità disciplinare: vietare e permettere, escludere e riammettere. Il prosieguo del vangelo secondo Matteo specificherà che questo potere non è riservato esclusivamente a Pietro, ma esteso anche agli altri discepoli (cf. Mt 18,18), dunque è collegiale.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose