Discepoli danzanti
Spesso andiamo dietro a Gesù gridando. Siamo discepoli urlanti, come la cananea.
Seguiamo la via che è il Signore, d’accordo, ma alzando la voce, chiedendo attenzione, manifestando dolore o disagio.
Come fa la donna di oggi che porta nel cuore il cruccio del genitore che assiste, impotente, alla malattia di un figlio.
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Come, probabilmente, faremmo anche noi, dopo averle tentate tutte, dopo avere provato ogni cura, ogni possibilità, spinti da quell’amore assoluto che, spesso, portiamo nel cuore per i nostri figli. Amore che ci spinge, alla fine, a fare i conti con il Dio che reputiamo distratto o, peggio, malvagio.
La cananea ha sentito che è giunto un guaritore da sud, dalla Galilea. Un giudeo che opera miracoli. Perché non fare un tentativo?
Allora sbraita, piange, supplica, cerca di commuovere il Nazareno. Lo chiama figlio di Davide, come lo era Salomone, che secondo il popolo aveva capacità taumaturgiche e veniva invocato per operare le guarigioni.
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Sa bene, la Cananea, che i santoni vanno convinti, allora esagera, sbraita, fa la sceneggiata.
Il suo dolore è autentico, certo.
Ma il modo di manifestarlo è esagerato e fastidioso.
La sua fede c’è, ma va liberata dalla crosta di superstizione e isteria che la tengono prigioniera della sofferenza.
Durezza
Le urla e i pianti della cananea imbarazzano i presenti. E noi.
Davanti al dolore disperato restiamo senza parole. Vogliamo solo fuggire.
Anche gli apostoli sono spiazzati. Gesù, invece, indifferente, tace.
Non le rivolge nemmeno la parola.
I discepoli vorrebbero la ascoltasse, almeno per farla smettere.
La risposta di Gesù è uno schiaffo: non è un’ebrea e lui è venuto per le pecore di Israele.
Ecco: ci mancava un Gesù razzista.
La missione di Israele
Israele si considerava un popolo eletto, scelto da Dio in mezzo agli altri popoli.
Alcuni aggiungevano: per svelare al mondo il vero volto di Dio.
Ma questa particolarità, almeno negli ultimi secoli prima di Cristo, si era trasformata in Israele in una chiusura ossessiva: nessuna alleanza con altri popoli era possibile, nessun matrimonio misto era autorizzato per non contaminare il popolo. Fu l’esilio in Babilonia a cambiare prospettiva: gli ebrei prigionieri in quella terra videro che anche i pagani avevano dei valori morali e che le loro credenze religiose portavano in sé qualcosa di positivo che, addirittura, finì con l’influenzare l’evoluzione della fede ebraica.
Il profeta che incontriamo oggi nella prima lettura, uno dei tre che scrisse il rotolo di Isaia, è uno di coloro che superò la mentalità ristretta del popolo e profetizza: ogni pagano avrà accesso al tempio.
Anche ai tempi di Gesù la situazione era simile: da una parte una società meticcia era dominante in Israele, dall’altra forti spinte conservatrici arroccavano la fede ebraica su posizioni difensive (come accade ancora oggi in alcuni fratelli eccessivamente conservatori).
I primi cristiani dovettero litigare non poco per capire quale fosse la volontà di Gesù: rivolgersi alle sole pecore di Israele, come anch’egli aveva fatto, o aprirsi ai pagani, come sembrava indicare una serie di suoi atteggiamenti?
Il confronto fu aspro ma, grazie allo Spirito, alla cocciutaggine di san Paolo e al buon senso, si capì che il cristianesimo era rivolto all’intera umanità.
Altrimenti io non sarei qui. E nemmeno voi. Uff.
Insulti
Ed è questo il contesto in cui Matteo, ebreo, racconta l’episodio della guarigione della donna cananea.
Non soltanto pagana, quindi, ma figlia di uno dei popoli storicamente nemici di Israele. Riprendendo il racconto dell’evangelista Marco e calcando la mano, Matteo sta per dare una poderosa lezione a quanti, nella sua comunità, guardavano in malo modo quelli che, come san Paolo, stavano portando alla fede proprio i goim, gli stranieri.
È sgradevole Gesù, in Matteo. Non rivolge la parola alla cananea. Afferma di non volerla aiutare. Poi, a causa dell’insistenza dei suoi, accetta di rivolgerle la parola. E le dà della cagna. Non siete in imbarazzo anche voi?
Colpito e affondato
La durezza di Gesù ha una doppia finalità.
Sono due le persone da convertire.
Questa povera donna e chi, fra i suoi discepoli, la considerava veramente una cagna. Nel nome di Dio.
Non è una discepola, la cananea. Non gli importa di chi sia Gesù. Né del suo messaggio.
Le importa solo la guarigione della figlia ed è disposta a tutto pur di vederla guarire.
Ma quando vede che non bastano le urla e i titoli altisonanti (Signore! Figlio di Davide!), quando vede la durezza della reazione di questo guru, vacilla.
Come facciamo noi quando, tiepidi e scostanti, ci troviamo di fronte ad un grave problema e, subito, diventiamo fervorosi: sgraniamo rosari, promettiamo pellegrinaggi, accendiamo ceri votivi per convincere la distratta divinità ad occuparsi di noi. Diventando discepoli urlanti.
Ed è lì, in quel momento, che Dio tace.
E davanti a quel silenzio la donna cede, e si prostra.
Chiede aiuto, ora. Solo aiuto. Non dice come. Non forza la mano.
Gesù, allora, ne prova la fede. Non gli basta quel gesto. Vuole di più.
Perché mai dovrebbe prendere il pane dei figli per darlo ai cani?
Perché mai dovrebbe occuparsi di noi? Deve prima occuparsi dei suoi figli! Dei suoi discepoli!
Verità sgradevole. Sgradevole, impertinente, fastidiosa. Ma verità.
Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene e chi ti dà uno schiaffo ti vuole male…
Colpita nell’orgoglio, messa all’angolo, la cananea esprime la sua vera natura, ora parla il suo cuore di madre.
Hai ragione, sono proprio una cagna, non so chi sei, non so che fai, non mi sono mai fatta vedere e pretendo il pane dei figli. Hai perfettamente ragione. Ma i cani si accontentano delle briciole che cadono dal tavolo.
Bene, risposta esatta. Gesù è stupito, sorride, ne sono certo.
Lezioni
Ecco la lezione. Per noi, per la comunità di Matteo, per quelli che distribuiscono patentini di cattolicità, ancora oggi. Dio non divide il mondo secondo le nostre categorie, ma secondo il suo cuore.
E una cagna cananea può avere molta più fede del più devoto fra i cattolici.
Ai pagani diventati discepoli, nel dolore di vedere che la maggioranza del popolo ebraico non ha riconosciuto in Gesù il Messia, san Paolo ricorda che la chiamata di Dio è irrevocabile, cancellando l’idea antievangelica e antigiudaica che tanti danni ha fatto nella storia, che i giudei siano deicidi e che abbiano tradito la chiamata di Dio.
Discepoli danzanti
Non solo.
Smettiamola di imitare la cananea, smettiamola di andare dietro a Gesù urlando.
O lamentandoci. O borbottando. O immaginando un Dio che deve (dovrebbe) darci retta proprio perché gridiamo e sappiamo bene in che cosa consiste la nostra felicità, il nostro bene. E lui, cortesemente, si adegui.
Imitiamo, piuttosto, la figlia di Israele, Maria la bella che qualche giorno fa abbiamo celebrato nel suo percorso finale e di cui abbiamo ancora ascoltato il canto delle meraviglie che Dio compie in chi si fida di lui.
Un canto vorticosamente danzato insieme a sua cugina Elisabetta, nella polvere dell’aia.
Donne trasformate dallo Spirito.
Bel suggerimento: smettiamola di essere discepoli urlanti.
Diventiamo, infine, discepoli danzanti.
Mt 15, 21-28 | Paolo Curtaz 141 kB 24 downloads
Ventesima domenica durante l’anno Is 56,1-7/Rm 11,13-15.29-32/Mt 15,21-28 …***
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