don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2023

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XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal libro della Sapienza (Sap 12,13.16-19)

Dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,

perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.

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La tua forza infatti è il principio della giustizia,

e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.

Mostri la tua forza

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quando non si crede nella pienezza del tuo potere,

e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.

Padrone della forza, tu giudichi con mitezza

e ci governi con molta indulgenza,

perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.

Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo

che il giusto deve amare gli uomini,

e hai dato ai tuoi figli la buona speranza

che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Il tempo opportuno della riconciliazione

Il Dio d’Israele non è la proiezione delle ambizioni di potere degli uomini. Al contrario, Dio educa l’uomo all’esercizio dell’autorità e del governo mostrando che solo l’amore crea una civiltà nella quale gli uomini possono vivere nella pace e nella prosperità. Non è l’amore al potere che spinge all’azione ma è il potere dell’amore che ristabilisce la giustizia il cui equilibrio l’uomo incrina col suo peccato. Il tratto caratteristico di Dio, governatore e giudice del mondo, è la mitezza e la pazienza. Già i profeti avevano messo in luce la verità per la quale Dio educa il suo popolo alla fedeltà non con strumenti coercitivi ma con la bontà. Più che sulla repressione del male, Dio concentra la sua attenzione sulla promozione del bene. L’autore del Libro della Sapienza, che si rivolge soprattutto a chi è costituito in autorità, offre un esempio della cultura dell’amore che rigetta la violenza della guerra e favorisce la comunione solidale tra fratelli.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,26-27)

Lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili

Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

Lo Spirito della preghiera

Come i bambini infanti che non sanno parlare anche noi, dice s. Paolo, non sappiamo esprimere a parole quello che portiamo nel cuore. Avvertiamo un malessere ma non siamo capaci di supplicare. La debolezza di fondo è la difficoltà a collegare mente e cuore, intelletto e volontà. Sappiamo ciò che è giusto ma non è detto che riusciamo a fare la giustizia. Lo Spirito santo è il Paràclito che ci prende sotto la sua protezione e intercede per noi. I nostri lamenti, fatti di grida e lacrime, diventano, per la potenza dello Spirito, la preghiera di Gesù sulla croce. Egli, mosso dallo Spirito, intercede per i peccatori al fine di riconciliarli col Padre. 

+ Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 13,24-43)

Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura.

In quel tempo, 24Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio””.

31Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami “.

33Disse loro un’altra parabola: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”.

34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:

Aprirò la mia bocca con parabole,

proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

Lectio

Contesto

Dopo la parabola del seminatore e il dialogo con i discepoli, nel quale viene offerta una attualizzazione del suo insegnamento, Gesù prosegue usando tre similitudini per presentare il Regno dei cieli. L’intervento del narratore, che chiosa sul valore pedagogico delle parabole, e la domanda dei discepoli, che chiedono spiegazioni su quella della zizzania, introducono l’approfondimento dell’allegoria nella cui interpretazione l’accento è posto sulla figura del Figlio dell’uomo.

Struttura

13, 24-33 – le tre parabole del Regno dei cieli

            vv. 24-30 – il grano e la zizzania

            vv. 31-32 – il grano di senape

            v. 33 – il lievito

13, 34-43 – riflessione sul genere parabolico

            vv. 34-35 – commento dell’evangelista

vv. 36-43 – interpretazione della parabola della grano e della zizzania

«Il regno dei cieli è simile a…»

Le tre parabole sono accomunate dalla stessa introduzione che le definisce come similitudini. L’oggetto delle tre parabole è il Regno dei cieli di cui non si intende dare una definizione, ma di offrire delle immagini che mettano in luce il suo modo di manifestarsi nella storia. L’espressione «Regno dei cieli» ricorre sette volte nel capitolo 13 e trentadue in tutto il racconto evangelico di Matteo. La frequenza con cui il primo evangelo usa questo sintagma fa comprendere l’importanza che riveste nella teologia dell’evangelista. Il termine «basileia» in greco assume diversi significati oltre che «regno»: regalità, dominio, governo, potestà, reame, signoria. Per la giusta interpretazione del «Regno dei cieli» bisogna tener presente il retroterra antico testamentario per il quale Dio è l’unico sovrano che governa «come» un re. Per cui la parola «Regno» indica la relazione che si instaura tra chi governa e chi viene governato. La specificazione «dei cieli» definisce il rapporto tra il l’azione regale di Dio nel cielo e quella sulla terra. Già nella preghiera del Padre nostro si chiede che la benevolenza divina che governa il mondo celeste trovi spazio nel mondo terrestre. Sicché il Regno dei cieli diventa modello possibile per quello della terra.

24Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio””.

I personaggi protagonisti della parabola sono tre: il seminatore del buon seme, che è anche chiamato «padrone di casa» e «Signore», il nemico che semina la zizzania, i servi che chiedono spiegazioni e le istruzioni. L’incipit della parabola riprende la prima con la quale l’evangelista apre il discorso. Non si tratta solo di una ripetizione. Infatti, entra in scena il «nemico», seminatore anche lui, ma della zizzania gettata in mezzo al grano. Agisce nella notte, di nascosto da tutti. Col tempo nel campo spuntano il grano e la zizzania. I servi si accorgono dell’anomalia chiedendo spiegazioni sull’origine della zizzania. Il padrone di casa attribuisce la presenza della zizzania al nemico. I servi vogliono fare discernimento e si rivolgono al Signore che giudica rivelando la verità dei fatti. Il giudizio è una prima separazione e distinzione tra ciò che viene da Dio e quello che invece ha origine dal nemico. L’avversario non si oppone al campo ma al suo padrone. Il nemico è tale perché vuole competere con il padrone di casa. Seminare è segno di possesso. Sia l’uno che l’altro seminatore intendono rivendicare la proprietà del campo seminando. Il seme indica il modo con cui essi esercitano il possesso. Il primo seminatore semina del buon grano perché il seme fruttifichi, mentre la zizzania non porta frutto ma, piuttosto, con la sua presenza impedisce anche al grano di fruttificare bene. Il seminatore buono con la seminagione del buon seme intende avviare un processo vitale di fruttificazione, mentre il suo avversario agisce per inquinare e rovinare il ciclo del frutto.

I servi vorrebbero intervenire subito purificando il campo dalla zizzania. La sapienza del padrone di casa suggerisce invece di attendere con pazienza il tempo del compimento. Quello che potrebbe apparire come incuria o indifferenza invece è sapienza. Infatti, l’istintiva reazione dei servi potrebbe provocare un danno ancora più grave dell’azione del nemico e della zizzania. La mietitura segna il tempo del compimento ma anche della rivelazione della destinazione finale. Ciò che inquina, limita, ostacola è destinato a finire bruciato, mentre ciò che fruttifica, anche se poco a causa delle difficoltà, rimane. Il padrone di casa sa quale è il tempo della mietitura. I servi diventeranno mietitori solamente quando lo dirà il padrone del campo.

31Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami “.

33Disse loro un’altra parabola: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”.

Dopo la parabola più articolata dei due seminatori in sequenza ne seguono altre due che potrebbero riallacciarsi in qualche modo alla prima. In entrambe le similitudini, l’accento è posto sul seme e sul lievito, piuttosto che sui soggetti che operano, i quali comunque ripropongono un’altra dualità, anche se non c’è una contrapposizione. Nella prima parabola il raffronto riguarda il seme tra il prima e il dopo, tra l’inizio e il compimento. Il seme di senape, a differenza del grano che produce una spiga dallo stelo fine, diventa un arbusto. L’attenzione è dunque posta sul raffronto tra il tempo della semina quando il seme è “più piccolo” e quello del compimento nel quale diventa “più grande”. Potremmo vedere un richiamo al detto di Gesù riferito a Giovanni Battista che tra i nati di donna è il più grande, ma il più piccolo nel regno dei Cieli è più grande di lui (cf. Mt 11,11). Il discepolo del Regno è caratterizzato dalla piccolezza, ovvero dalla mitezza e dall’umiltà, doni partecipati da Dio per diventare grandi. La piccolezza come quella del seme di senape esprime l’identità del discepolo, ovvero il suo modo di vivere, conformemente alla volontà di Dio. La piccolezza è oggetto del giudizio di Dio che gradisce, ma anche del mondo che invece disprezza. Il discepolo deve assumere il punto di osservazione di Dio per credere che Lui guarda la sua umiltà e la benedice trasformandola in grandezza. Non si tratta di una grandezza mondana misurabile con i criteri del potere umano ma della grandezza divina che si manifesta nella magnanimità accogliente. Gesù con questa parabola vuole distrarre lo sguardo del discepolo dai segni del potere per indicare nell’umiltà il vero potere dei segni.

La seconda similitudine riguarda il lievito che nella cultura del tempo non è positiva. Basti pensare alla prassi liturgica d’Israele della festa di Pasqua nella quale bisogna eliminare tutto ciò che ha traccia di lievito (cf. Es 12, 18-20). San Paolo attualizza questa tradizione associando chiaramente il lievito alla malizia e alla perversità (1Cor 5, 7-8). Complessivamente però l’immagine proposta nella parabola è positiva richiamando un’operazione domestica che vede come protagonista una donna. Qualcuno ha visto un richiamo a Sara (Gn 18,6) che impasta del pane per i tre ospiti i quali si riveleranno uomini di Dio. L’ambiguità dell’immagine è data ulteriormente dal fatto che la donna «nasconde» (la traduzione CEI usa «mescola») un po’ di lievito in una grande quantità di farina. Probabilmente come nella prima similitudine, anche la seconda richiama il secondo seminatore, il nemico, che di notte, mentre tutti dormono, «nasconde» la zizzania. Il lievito è il simbolo dell’orgoglio, dell’avidità che crea ingiustizia e competizione («il lievito degli scribi e dei farisei). Gesù sembrerebbe dire ai suoi discepoli di essere sapienti nella loro azione missionaria mettendoci passione, un sano orgoglio di appartenere a Dio e di servire la Chiesa. Si fa appello allo spirito imprenditoriale che è proprio della donna, affinché il regno dei Cielo possa crescere e aumentare anche di dimensione.

34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:

Aprirò la mia bocca con parabole,

proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

Il commento dell’evangelista è una prima conclusione del discorso mentre Gesù insegna dalla barca. La precedente citazione di compimento del profeta Isaia era posta sulle labbra di Gesù rispondendo alla domanda dei discepoli circa l’uso delle parabole. Ora è Matteo a riprendere il discorso aggiungendo un’altra citazione. È attribuita la profeta ma in realtà non appartiene agli scritti profetici ma è tratta dal Salmo 77,2 che già appariva come allusione nell’incipit del primo grande discorso di Gesù (Mt 5, 1-2). Matteo considera anche i Salmi come profezia similmente ai rabbini che attribuiscono ad essi lo stesso valore della Torà.

Il testo biblico citato serve a confermare la missione profetica di Gesù che funge da base e modello per quella dei discepoli. Nel discorso missionario Gesù esorta i discepoli a non aver paura dei nemici che ostacolano la loro missione perché il soggetto primo è Dio che «parla» nei discepoli. Infatti, aggiunge il Maestro, non c’è «nulla di nascosto che non sarà svelato»; ciò che egli dice «agli orecchi» dei discepoli (con parabole) loro sono chiamati a proclamarlo apertamente. «Le cose nascoste fin dalla fondazione (del mondo)» indica l’atto iniziale del processo di crescita del nuovo mondo che è il Regno dei Cieli. Il sostantivo, tradotto con «fondazione» alludendo all’inizio della creazione, è usato anche per indicare la «piantagione». In questo senso la fondazione del mondo sarebbe «il primo annuncio» del Vangelo che, piantato nella nel terreno della storia, ma soprattutto nel cuore dell’uomo, produce i frutti della giustizia, secondo il “mistero” (pensiero nascosto e rivelato) di Dio.

36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

Cambia lo scenario e si passa dalla riva del mare alla casa. Anche qui, come avevano fatto mentre Gesù insegnava dalla barca, i discepoli si avvicinano per chiedere qualcosa. La richiesta riguarda l’interpretazione della parabola della zizzania. Notiamo un parallelismo tra i servi che si rivolgono al padrone di casa e i discepoli di Gesù. L’attenzione è spostata dai seminatori al seme, in particolare quello della zizzania. Gesù nella risposta riprende ogni elemento della parabola dandone un’interpretazione allegorica con una chiara accentuazione ecclesiologica e cristologica. I personaggi diventano quattro a formare due coppie contrapposte: i figli del Regno, i figli del Maligno, il diavolo e il Figlio dell’uomo. Il Figlio dell’uomo è posto all’inizio e alla fine del tempo perché è lui a stabilire il tempo della semina e della mietitura. Diversamente dalla prima parabola il seme non si identifica con la parola di Dio ma con i figli del Regno. Essi sono coloro che appartengono al nuovo Israele che con la loro vita annunciano la Parola. Sono «disseminati» come gli apostoli che il Signore risorto invia in tutto il mondo (il campo). Similmente, i figli del Maligno sono coloro che con le loro azioni “inquinanti” distorcono la Parola e ne ostacolano la crescita. Essi nei fatti appartengono al diavolo e compiono la sua opera.

La figura del Figlio dell’uomo, descritto come Signore della messe che invia i mietitori a mietere, risente della tradizione della letteratura apocalittica sulla quale si poggia la speranza della visita di Dio come giudice e salvatore. Il giudizio è apocalittico perché rivela la natura della “missione” dei figli, del Regno o del Maligno e il loro destino finale. I figli del Maligno sono destinati a perire con i loro scandali, mente i figli del Regno partecipano della gloria di Dio. Lo splendore del sole è un’immagine che evoca la gloria di Dio. Non è un caso che Matteo la usi anche per descrivere il volto di Gesù nella trasfigurazione. La conclusione della spiegazione della parabola, dal tono escatologico, indica nel giudizio finale il compimento della speranza cristiana. I discepoli che appartengono al Figlio dell’uomo sono i figli del Regno perché partecipano con Cristo alla sua missione regale. I frutti sono il criterio del discernimento circa la scelta di vita: di chi essere discepolo? Anche i discepoli di Gesù devono sempre verificarsi e confrontare il proprio comportamento con quello di Gesù.

Il tempo, il dono di Dio più prezioso

La parabola è un racconto che aiuta colui che ascolta ad accostare la storia alla propria vita. Nelle parabole raccontate da Gesù l’ascoltatore è chiamato ad entrare in contatto con Dio che, agendo nella storia degli uomini, la fa diventare storia di salvezza. Questo passaggio spesso sfugge all’uomo che, soprattutto nelle situazioni più dolorose, s’interroga sul senso degli eventi, sul ruolo che Dio ha nel loro svolgersi e come intervenga per aiutare la sua creatura. Fondamentalmente la domanda di sempre è questa: se Dio è buono perché il male? Nella parabola la drammatica questione è formulata nel duplice interrogativo che i servi rivolgono al padrone: «Non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?».

All’origine della storia c’è qualcosa di nascosto alla coscienza dell’uomo che è possibile conoscere solo per rivelazione. Si tratta del mistero e del silenzio che avvolge l’origine del bene e quello del male, l’azione di Dio e quella del maligno che a Lui si oppone. La domanda dei servi rivela la conoscenza imperfetta del loro padrone: sono consapevoli della sua azione e della sua prerogativa ma sono dubbiosi sulla sua bontà. Così, di fronte alle prove della vita, la nostra fede è insidiata dal dubbio sul suo modo di agire di Dio e, in definitiva, sulla sua giustizia. Il male insidia la tenuta della relazione. Questo vale anche nel rapporto tra di noi. Quando in una relazione spuntano i difetti sorgono spontanee anche le domande. Dunque, la questione fondamentale è come affrontare i problemi nella vita, soprattutto quando nella relazione emergono ostacoli naturali o quelli causati da una mano esterna. Bisogna reagire e non subire, ma ci si domanda: quali soluzioni individuare e attuare? I servi hanno una loro visione delle cose e una conseguente soluzione che però appare nettamente diversa da quella del padrone. I servi vorrebbero subito intervenire per sradicare la zizzania mentre il padrone del campo sceglie l’attesa. Quella dei servi è la mentalità di quei radicali che si ergono a giudici come se loro stessi fossero i padroni. In realtà il radicalismo è una forma di orgoglio che rivela più l’attaccamento al proprio io che amore per la giustizia, cura e premura verso gli altri. L’orgoglioso agisce d’impulso arrogandosi diritti che non gli appartengono e funzioni che non gli competono con l’effetto disastroso di eliminare zizzania e grano. L’aggressività è l’atteggiamento sbagliato di chi si erge a giustiziere che distrugge proprio quello che vorrebbe custodire e proteggere.

Dio indica un’altra soluzione: dare tempo. Questo si traduce nell’attesa che da una parte è inattività, cioè limitazione della propria istintività e aggressività, dall’altro è attenzione ai processi di crescita che non sono stati attivati da noi ma da altri più grandi di noi. Dio e il Maligno hanno seminato il bene o il male, cioè hanno avviato processi con finalità diverse. I servi ricevono dal padrone una consegna: lasciar crescere insieme e poi mietere per bruciare la zizzania e raccogliere il grano. Fuor di metafora l’indicazione data da Dio è riassumibile nei verbi dell’attesa paziente: osservare, accompagnare, lasciare e conservare.

Osservare è un atteggiamento diverso del semplice stare a guardare, perché chi osserva fa discernimento, coglie la verità più profonda delle cose. L’elasticità mentale gli consente di assumere altri punti di vista, vedere gli eventi in maniera differente e mutare il proprio giudizio senza rinnegare se stesso, mentre chi è spettatore rimane sulla superficie delle cose e non è capace di cambiare opinione, ma orgogliosamente piega e deforma la realtà per giustificare se stesso. In fondo è proprio questo il fine dell’azione del nemico: deformare la verità, sclerotizzare il cuore, schematizzare la realtà, mortificare la creatività, irrigidire le relazioni rendendole motivo continuo di conflitto e contrapposizione.

Lasciar crescere insieme grano e zizzania significa accettare dentro di sé e negli altri anche ciò che non ci piace. Lasciar crescere insieme indica l’atteggiamento della inclusione che si oppone alla tendenza contraria della esclusione o emarginazione. L’esercizio della pazienza avviene ogni qualvolta accettiamo non con rassegnazione, ma con fiducia, il limite, l’imperfezione, l’ostacolo, la prova, la contraddizione, ma l’integriamo in un progetto più grande e più bello.

La rabbia, la paura, il rancore, il senso di colpa, il pregiudizio generato dal male seminato dal nemico, dentro di noi e nel cuore dei nostri fratelli, non ci rende lucidi e razionali per prendere decisioni opportune e attuare scelte adeguate.

Il peccato, di cui parla il Libro della Sapienza, è ciò che spunta nel cuore di ogni uomo. Dio, amante di ogni sua creatura che non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva, offre il tempo del pentimento, cioè tempo opportuno nel quale crescere nella pazienza, nell’umiltà e nella speranza. Il pentimento è una costante verifica su se stessi, per lasciare ciò che va affidato al giudizio di Dio e conservare ciò che serve per seminare ancora o per nutrirci di pane. La mietitura sarebbe l’esame di coscienza e l’atto finale del discernimento in situazioni critiche. Il male va affidato al giudizio insindacabile di Dio, mentre il bene che conserviamo e raccogliamo serve per continuare a spargere il seme dell’amore e preparare il pane da spezzare per fare comunione con i fratelli. In questo senso comprendiamo il significato delle altre due allegorie, quella del piccolo seme che diventa un grande arbusto e del lievito che fa crescere la massa. La pazienza con la quale affrontiamo i problemi della vita si coniuga con l’umiltà con cui si inizia ogni processo di crescita e la speranza che fa crescere ciò che si è iniziato. La pazienza è dunque l’umiltà di iniziare sempre di nuovo, anche se non è mai come prima, e la speranza che è la forza dello Spirito che porta a compimento quello che Dio ha iniziato.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna