Carlo Miglietta – Commento alle letture di domenica 11 Giugno 2023

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L’IMPORTANZA DEL CIBO NELL’EBRAISMO

Nell’ebraismo, chi mangia diventa tutt’uno con il cibo assunto: noi diventiamo ciò che mangiamo. Così Adamo ed Eva non si limitano a cogliere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: lo “mangiano” (Gen 3,1-7), per indicare che davvero vogliono essere eticamente autonomi, diventare arbitri assoluti nella scelta di ciò che è bene e di ciò che è male. 

Ezechiele è invitato da Dio a mangiare il rotolo del libro della Parola di Dio, cioè a farla intimamente propria prima di predicarla (Ez 3,1-4). Anche Giovanni, nell’Apocalisse, è invitato a divorare il libro della Parola di Dio (Ap 10,8-11). 

I “BANCHETTI DI COMUNIONE” CON DIO

Il banchetto è anche mezzo per entrare in comunione con Dio. Tutte le religioni orientali presentavano, tra i loro riti, banchetti sacri, in cui il mangiare la vittima permetteva in qualche modo di partecipare alla vita della stessa divinità invocata. Anche l’ebraismo prevedeva pasti sacri: basti pensare ai “sacrifici di comunione” previsti dalla Torah (Lv 3,1-17), come sul Sinai, come conclusione dell’Alleanza (Es 24,4-11, come all’ingresso nella Terra Promessa (Dt 27,1-7).

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In questi banchetti sacri Dio non mangia: Israele rifiuta l’idea che Dio possa nutrirsi di sacrifici (Gdc 6,18.22; 13,15-20): Dio dice: “Se avessi fame, a te non lo direi: mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri?” (Sl 50,12-13). Il banchetto non avviene “con” Dio, ma “davanti” a Dio, che però è presente con il suo popolo. L’unica eccezione è il pasto imbandito da Abramo e Sara sotto la quercia di Mamre, quando il Signore promette un figlio agli anziani coniugi: “Così, mentre Abramo stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli (ndr: i tre personaggi divini) mangiarono” (Gen 18,1-15).

I primi cristiani dicevano di sé, presentandosi ai pagani: “Aras non habemus”, “Noi non abbiamo altari”, sottolineando la mancanza nel cristianesimo del sacrificio tradizionale, sostituito dal banchetto eucaristico. Non c’era all’inizio l’altare, c’era solo la tavola. L’aspetto conviviale è primario per la comprensione dell’Eucarestia.

L’EUCARESTIA “MIMO” PROFETICO

Per capire i testi neotestamentari di istituzione dell’Eucarestia bisogna avere ben presente quel genere letterario, così frequentemente adoperato soprattutto nei libri profetici (1 Re 11,29-32; 22,10-12; Ger 1,13-15; 13,1-14; 32¸ Ez 3,24-5,17…) ma anche nel Nuovo Testamento (Mc 11,1-11.12-19…), che è il “mimo”. Nella Bibbia, infatti, un posto particolarissimo occupano le azioni simboliche: sono più di trenta, e precedono o accompagnano le esposizioni orali. Proprio per significare che la Parola di Dio non è puro “afflatus vocis”, ma fatto che si compie, storia concreta, il profeta, su ordine divino, la incarna in gesti simbolici – rivelativi. Talora sono vere pantomime, piccole “scenette”, brevi “spot pubblicitari” che devono servire a imprimere bene, nella mente degli astanti, un determinato concetto o una particolare rivelazione. 

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Farsi mangiare dagli uomini

Quando Gesù istituisce l’Eucarestia, opera anzitutto un mimo profetico. Quanto compie nell’ultima cena è “l’ultima parabola di Gesù” (J. Jeremias). Porgendo il pane, dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”; offrendo il calice: “Questo è il mio sangue, versato per voi” (Lc 22,19-20): il primo significato di questa azione è che egli si è donato totalmente agli uomini, che la sua vita è stata oblazione piena per la vita dei fratelli, che si è interamente consumato per essi, e che egli è diventato, offrendosi per loro come il pane e il vino, il loro sostegno e la loro sopravvivenza. “Distribuendo il pane, Gesù manifesta con le parole che «si dà per». Facendo circolare il calice, dichiara che «versa il suo sangue». I due gesti di Gesù ne ricevono un valore simbolico: il dono della propria persona a vantaggio dei discepoli, che giunge fino allo spargimento del sangue” (X. Léon-Dufour). “Davanti ai suoi discepoli Gesù fa un mimo della sua morte, rappresentandola davanti a loro; è l’atteggiamento di un profeta e di un martire che porta la missione fino al suo compimento, dando alla sua propria morte un significato di amore e di servizio” (A. Marchadour).

Il comando di imitare Gesù

Due comandi accompagnano l’azione profetica: il primo è: “Prendete, mangiate…; bevete” (Mc 14,22; Mt 26,26.28): i discepoli non sono solo oggetto passivo di questa autodonazione del Cristo, ma sono invitati a prenderne parte attiva, a partecipare al suo amore, ad accettare la sua vita come dono, a riempirsi consapevolmente e responsabilmente di lui. Da questo nasce il secondo comando: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24): Gesù ordina che anche i suoi discepoli si facciano pane e bevanda per gli altri, divengano cibo per tutti, si lascino “mangiare” dai fratelli. 

“Farsi mangiare” come Gesù

Quando Gesù comanda ai suoi: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25), vuole innanzitutto dire che anche i suoi dovranno farsi dono totale agli altri, sacrificarsi “fino alla fine” (Gv 13,1), svuotarsi totalmente per gli altri, diventare come lui solo amore, agape, carità, comunione, condivisione, servizio. “Gesù non ha dato un pezzo di pane agli uomini ma tutto se stesso, la sua vita (corpo e sangue), e chiede ai discepoli di fare altrettanto. Il pane (spezzato), e il vino (versato) simboleggiano quanto egli ha compiuto; ma per essere in linea con lui, per rispettare il suo volere non basta rinnovare i simboli senza ripetere sul piano storico ciò che essi significano” (O. da Spinetoli). 

Questo è “l’aspetto fondamentale e proprio della logica cristiana: io devo essere pane… È forse la conseguenza più armonica con la pratica eucaristica, certamente la più difficile… Amore sino alla fine: non dare del pane, ma essere io pane che nutre, questa è l’estrema e semplice istanza del mistero del pane” (S. Maggioni). 

Celebrare l’Eucarestia allora non deve essere una pia abitudine, ma un gesto che mi coinvolge a fondo, che cambia la mia vita sul modello di quella del Cristo: è l’atto del mio proposito di diventare, come Gesù, dono totale, servizio disinteressato, comunione vivente con i fratelli. “E’ troppo comodo ridurre il proprio impegno allo spezzamento del pane (invece che del proprio corpo) e al versamento del vino, o assistere a tale rito senza fare nulla di quello che Cristo ha fatto prima di ritualizzare il suo operato. Appellarsi alla sua «presenza» e alla sua azione (magica) attraverso i simboli è dimenticare volutamente le sue precise intenzioni. Gesù ha parlato di donazione, di spargimento, di spezzamento, non di presenza… La partecipazione eucaristica non è un atto devozionale, ma una prova di coraggio, una decisione presa davanti a tutti di «darsi» e «spargersi» per la moltitudine, come Cristo” (O. da Spinetoli).

Nella lettura biblica del mimo eucaristico il primo significato è quindi l’invito al dono totale agli altri, sull’esempio del Maestro. Gli altri significati (la presenza reale di Cristo, il sacrificio della Nuova Alleanza, un segno escatologico…), ci sono certamente e sono importantissimi, ma sono a questo secondari e da questo traggono luce e comprensione. 

Carlo Miglietta


Il commento alle letture di domenica 11 giugno 2023 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.