La sera del primo giorno della settimana i discepoli, benché avessero avuto serie conferme della risurrezione di Gesù, si ritrovano insieme a porte chiuse “per timore dei Giudei”; tale timore ne richiama un altro, quello di Adamo il quale, dopo aver mangiato il frutto proibito, dice a Dio che lo cerca: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. Tutta la Scrittura è racchiusa fra questi due timori, che rivelano il vissuto dell’uomo schiacciato dalla sua fragilità quando non è in comunione con Dio.
Ed è proprio verso di noi, creature deboli e ferite, che Gesù viene e sta. Viene come aveva promesso nei discorsi d’addio, ma soprattutto come era venuto “fra i suoi” al momento dell’incarnazione. Egli sta, nella posizione stabile, eretta che esprime il suo trionfo sulla morte. Le sue prime parole – “Pace a voi” – non costituiscono un semplice saluto o un augurio, ma un dono. Colui che non è soggetto ai limiti della natura, ed entra nel luogo in cui si trovavano i suoi a porte chiuse, è il Risorto che, come Dio Padre nel giardino dell’Eden, cerca i suoi; li cerca per ripristinare la comunione che si era spezzata e il primo passo per ricreare in pienezza il legame con Dio consiste proprio nel dono della pace, che libera da ogni paura e permette di vivere uniti a Lui.
Subito dopo Gesù mostra loro mani e fianco ed essi ne gioiscono; con gli occhi della fede, infatti, hanno potuto vedere in quelle ferite non solo i segni identificativi del Crocifisso-Risorto ma la potenza di vita da lì sgorgata: Colui che aveva consegnato lo spirito sulla croce ora è presente in mezzo a loro, pronto a condividere – con loro e con tutti – la nuova vita ricevuta dal Padre. Si tratta, infatti, di un dono da spartire e non riservato unicamente ai suoi; per questo Gesù li invia, invitandoli a partecipare ai fratelli la sua stessa missione, proprio quella che il Padre gli aveva affidato.
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Affinché questo possa realizzarsi, il Risorto soffia sui suoi offrendo loro il dono dello Spirito: un atto creatore, che richiama il testo della Genesi quando Dio soffia nelle narici dell’uomo che ha plasmato un alito di vita ed egli diviene un essere vivente. Il creatore riserva una cura speciale alla sua creatura; la Scrittura lo esprime attraverso delle immagini antropomorfe che rivelano l’attenzione particolare riservata a ogni uomo e, di conseguenza, a ognuno di noi: sono state le sue stesse mani a plasmarci e solo in noi Egli ha soffiato il suo alito di vita. Questo amore unico ha raggiunto il suo apice sempre nel dono di un soffio: quello di Gesù nel momento della morte. Un soffio, lo Spirito Santo, che il Padre ha ridonato al Figlio, il quale ha voluto condividerlo con noi.
Ed è proprio questo mistero inaudito ciò che celebriamo il giorno di Pentecoste: l’incredibile insistenza di Dio nel voler partecipare il suo dono, la Vita che egli condivide con il Figlio, l’Amore che li lega in una comunione a cui anche noi possiamo avere accesso; Vita e Amore che sono altri nomi dello Spirito Santo. Ciò di cui l’uomo, ascoltando la tentazione del serpente, aveva voluto appropriarsi – l’essere “come dio” -, ora diventa possibilità reale poiché, come scrive San Basilio Magno, dallo Spirito riceviamo “la gioia eterna, … l’unione costante e la somiglianza con Dio e, cosa più sublime di ogni altra, da lui la possibilità di divenire Dio”, lasciandoci riempire dal suo amore e comunicandolo.
Commento a cura dalla Fraternità della Trasfigurazione.
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Fonte – Arcidiocesi di Vercelli