p. Gaetano Piccolo S.I. – Commento al Vangelo di domenica 28 Maggio 2023

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La discordia guastafeste

La discordia è una cifra dell’esistenza umana. Siamo portati a dividerci, a farci guerra, a guardarci con diffidenza. Contribuiamo alacremente a costruire un mondo di male.

Lo avevano capito anche gli antichi greci che avevano immaginato una dea specificamente dedita alla discordia. Si tratta di Eris che Omero definisce “signora del dolore”. Eris è particolarmente attiva durante le guerre, accanto al fratello Ares, con lo scopo di rendere combattivi i cuori dei soldati in guerra. Uno degli episodi celebri che la vede protagonista è quello avvenuto durante il banchetto per le nozze di Peleo e Teti, a cui Eris non era stata invitata (tutti vorremmo evitare la discordia nei momenti di festa). Per vendicarsi, Eris lancia una mela tra gli invitati su cui era scritto “alla più bella”. Da qui la lite tra Era, Afrodite e Atena per contendersi il titolo onorifico. Da una banale discordia, come questa, possono derivare conseguenze nefaste: da quella lite si arriverà infatti alla guerra di Troia!

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A partire dalla superbia

La discordia e la divisione, come quella avvenuta a Babele (cf Gen 11,1-9), dove non ci si capisce più, sono il segno dell’assenza dello Spirito. La divisione è tra noi, ma molte volte è anche in noi, quando voci contrastanti si agitano e lottano nel nostro cuore.

Di solito l’origine della divisione è la superbia, la pretesa di sembrare migliori degli altri: le tre dee greche si contendono un titolo persino illusorio. Andiamo spesso dietro a gratificazioni che non esistono, si chiamano infatti vanità, cose vuote e inconsistenti, che però muovono il nostro animo a schierarsi a battaglia. Quando abbiamo la pretesa di essere i primi o i migliori, l’altro diventa un avversario da abbattere: Eris, la discordia, rende il nostro cuore ardimentoso, acceca la nostra vista, ci impedisce di vedere chi ci sta davanti, vogliamo solo eliminare l’altro nell’illusione che così avremo finalmente il nostro meritato spazio. L’altro con la sua presenza ci rimanda l’immagine della nostra sconfitta e del nostro limite.

Creare le condizioni

Paradossalmente, sebbene sia questa la condizione ordinaria del cuore umano, tutti siamo pronti a riconoscere che non vorremmo vivere nella divisione, ma affermiamo di desiderare l’armonia, la pace e la tranquillità.

Il testo degli Atti degli Apostoli porta la nostra attenzione su quelle condizioni che permettono di accogliere la comunione come segno dello Spirito. Prima di tutto ci viene detto che i discepoli si trovavano nello stesso luogo (cf At 2,1): non sono dispersi, non stanno lavorando ciascuno per se stesso, ma si ritrovano, forse per condividere coraggiosamente quello che stanno vivendo. Non si difendono e non si separano. Stare nello stesso luogo significa smettere di farsi guerra, abitando insieme quello che ci sta a cuore. Sono nello stesso progetto, nello stesso desiderio, nello stesso sogno.

Condividere

L’immagine dello Spirito descritta in questo testo è quella di uno stesso fuoco che si divide, una stessa sorgente, da cui ciascuno riceve. Lo Spirito è là dove noi desideriamo condividere, dove nessuno trattiene per sé, dove ci riconosciamo figli di uno stesso padre, dove mettiamo insieme quello che abbiamo, le nostre risorse, le nostre conoscenze, i nostri doni. Mettere insieme e condividere è un atto coraggioso e proprio per questo non così frequente. Di solito tendiamo a cercare il nostro personale interesse.

Comunicare

L’effetto dello Spirito è la comunione perché i discepoli riescono a farsi capire pur parlando lingue diverse. Non a caso comunicare e comunione hanno la stessa radice: cummunus, portare insieme un munus, che è al contempo dono e responsabilità.

Il segno della comunione è il successo della comunicazione: parliamo la stessa lingua, cioè riusciamo a capirci, perché abbiamo nel cuore lo stesso desiderio. Quando la comunione si spezza, non ci si capisce più, si diventa estranei. Se ci pensiamo, quello che rompe la comunione è tutto quello che non viene dallo Spirito: non riusciamo più a capirci quando ciascuno cerca solo le proprie ragioni, quando tentiamo di ingannare l’altro, quando ci trinceriamo dietro i nostri pregiudizi.

Il perdono frutto dello Spirito

Al contrario, il testo del Vangelo di Giovanni ci ricorda che laddove c’è l’amore, come diceva Sant’Agostino, non ci può essere timore (cf Confessiones I,14): quando Gesù sta in mezzo alla comunità e dona lo Spirito, le porte del cenacolo cominciano ad aprirsi, non subito, certo, ma è l’inizio di un cammino.

E il frutto dello Spirito, ci dice il Vangelo di Giovanni, è la capacità di perdonare: lo Spirito è pace. Se non perdoniamo, tratteniamo presso di noi il male, il rancore, la rabbia. Perdonare vuol dire lasciar andare. È una liberazione non solo per chi è perdonato, ma anche per chi perdona. Lo Spirito è là dove c’è perdono.

L’inafferrabile

Lo Spirito è come vento (At 2,2) e come soffio (Gv 20,22), è inafferrabile. Ne sentiamo gli effetti, ma non possiamo né afferrarlo, né trattenerlo. Lo Spirito soffia dove vuole, possiamo invocarlo, attenderlo, creare le condizioni per accoglierlo, ma ci sorprende sempre con la sua presenza.

Nella nostra vita possiamo scegliere se invocare la presenza dello Spirito o se vogliamo continuare a lanciare mele nei banchetti altrui solo perché non siamo stati invitati!

Leggersi dentro

  • Sono una persona che crea comunione o che porta discordia?
  • Dove posso riconoscere in me e intorno a me l’azione dello Spirito santo?

per gentile concessione di P. Gaetano Piccolo S.I.
Fonte