Prima lettura: Atti 2,1-11
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei?E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
- Il celebre racconto lucano della Pentecoste ha una certa “drammaticità”, con la quale s’intende conferire il giusto rilievo all’importanza del fatto. In primo luogo, occorre notare che, ormai, la festa di Pentecoste stava volgendo al termine, essendo iniziata, com’era prassi nella liturgia ebraica, nel pomeriggio del giorno precedente. L’accaduto, dunque, si è verificato al mattino, come dirà poi Pietro, per giustificare il fatto che, quelli che sembravano ubriachi, non lo erano affatto perché non avevano bevuto, essendo le nove (cf. la diceria dell’ubriachezza degli apostoli al v. 13 e la risposta di Pietro al v. 15), quando mancavano ancora poche ore per la conclusione della festa. I discepoli, raccolti in un unico luogo, furono testimoni e destinatari di un evento teofanico, i cui elementi letterari sono facilmente riconoscibili: il rumore forte, che viene dall’alto, e il fuoco, in forma di lingue: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (vv. 2-3).
L’effetto della discesa dello Spirito fu subito avvertibile dai pellegrini presenti alla festa, come testimonia il v. 4: «e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Il lungo elenco di nazionalità riportato dall’autore degli Atti fa capire l’ampiezza della partecipazione a feste come Pentecoste (in ebraico Shavuot), Pasqua (Pesach) e Capanne (Sukkot). Bisogna, però, ricordare che si trattava di Giudei, provenienti dalla diaspora o che, vissuti in diaspora, erano ritornati a vivere a Gerusalemme (v. 5: «Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo»). Sono essi i primi popoli destinatari dell’annuncio della novità di Cristo risorto. A costoro i discepoli propongono un annuncio nella loro propria lingua, come il testo stesso afferma più volte, sia nel già citato v. 5, nel v. 6 («A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua »), nell’8 («E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?») e nell’11 («li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio »).
Il particolare ora messo in rilievo non è da trascurare: l’evento della discesa dello Spirito sui discepoli significa che questi ultimi vengono spinti a proseguire la missione di Gesù, rivolgendola a tutte le nazioni, poiché la comunità dei credenti dovrà imparare ad annunciare il Vangelo nelle lingue di ogni popolo che si trova sulla faccia della terra.
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Seconda lettura: 1 Corinzi 12,3b-7.12-13
Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
- Lo Spirito, con la sua azione, invade ogni aspetto della vita del credente in Cristo e della Chiesa. Com’è possibile, infatti, professare la fede e avvicinarsi al sublime mistero della conoscenza di Cristo se manca lo Spirito? D’altronde, l’apostolo con chiarezza lo afferma: «nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (12,3b). Alla stessa stregua, com’è possibile immaginare la vita della Chiesa senza lo Spirito, il quale ne anima l’esistenza e la missione nel mondo con la molteplicità dei carismi e delle operazioni? La solennità di Pentecoste, dunque, impone una riflessione, oltre che sull’opera dello Spirito Santo nel mondo, anche sulla sua presenza discreta, efficace e sorprendente.
Abituati come siamo a considerare quasi esclusivamente gli aspetti organizzativi, con programmazioni e piani pastorali di breve, medio e lungo periodo, probabilmente dimentichiamo che, da parte sua, lo Spirito Santo, nella propria sovrana libertà, ha già tracciato delle linee di progettualità, elargendo doni e suscitando ministeri per il bene del popolo di Dio. Tali doni e carismi, però, hanno come prima finalità quella di creare l’unità del popolo che Dio si è acquistato con il sangue di suo Figlio: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (12,12-13). Il progetto dello Spirito, dunque, è formare e consolidare il corpo di Cristo che è la Chiesa, alla quale apparteniamo in virtù del Battesimo. E quel Dio, presso il quale non ci sono preferenze, desidera che in quest’unico corpo vi sia radunata l’intera umanità, senza distinzioni di razza e nazionalità, lingua o cultura. In quell’unico corpo, inoltre, è consentito ai credenti di abbeverarsi allo Spirito attraverso la vita sacramentale, la quale ne irrobustisce e rinvigorisce le forze, cosicché essi possano affrontare le quotidiane insidie del maligno e far vincere la concordia, la misericordia e l’unità.
Giovanni 20,19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
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Esegesi
Nel capitolo 20, come sappiamo, il Vangelo di Giovanni racconta gli avvenimenti del giorno della Pasqua. Chi vide il Signore risorto per prima e parlò con lui fu Maria Maddalena presso il sepolcro (vv. 14-17), la quale, poi, andò a riferire agli altri discepoli quanto le era accaduto (v. 18). Soltanto a sera Gesù apparve ai discepoli riuniti, come concordemente afferma, oltre a Giovanni, anche Luca (cf. 24,36-43). Infatti, i due racconti presentano diversi punti in comune: a sera Gesù appare in mezzo ai discepoli; egli saluta dicendo: «Pace a voi!»; Gesù mostra le ferite sul suo corpo per facilitare il riconoscimento da parte dei discepoli. Giovanni, inoltre, in poche battute riferisce il mandato missionario e l’effusione dello Spirito, mentre Luca parla più ampiamente della missione (cf. 24,44-48) e fa soltanto annunciare a Gesù il prossimo invio dello Spirito (cf. 24,49).
Dopo questo raffronto, che conferma una certa e ben nota vicinanza tra gli evangelisti Giovanni e Luca, ritorniamo all’esame del brano. Dobbiamo subito notare la situazione di “miseria” in cui versavano i discepoli. Costoro erano in un luogo (non specificato dal racconto evangelico), con le porte sbarrate per paura dei Giudei: ciò fa pensare che essi, oltre a motivi di prudenza (temevano di essere arrestati o di essere accusati di aver rubato il corpo di Gesù?), non si attendevano altro da quella giornata, in cui non era ancora certo se dovessero nutrire speranze o, al contrario, aspettare il momento opportuno per fuggire da Gerusalemme. Ci possiamo chiedere che effetto abbiano avuto le visite al sepolcro vuoto da parte di Pietro e del discepolo prediletto e la testimonianza di Maria Maddalena, tuttavia la sorpresa di vedersi apparire Gesù dovette essere grande.
L’apparizione di Gesù è indicata dal verbo «venne», molto probabilmente per sottolineare che, nonostante le porte ben chiuse, egli era nella possibilità di entrare in quel luogo. Il saluto «Pace a voi!», inoltre, va considerato non quale semplice augurio, o addirittura come normale saluto, poiché esprime una realtà di fatto: davvero la pace è con loro, dal momento che, con la presenza di Gesù, ormai risorto, ciò che costituiva una semplice promessa diventa ora una concreta realtà. Il «Pace a voi!» viene ripetuto al v. 21, forse perché Gesù vuole ulteriormente rassicurare i discepoli, dopo aver mostrato loro le mani e il costato.
Subito dopo, segue il comando missionario: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». In Giovanni si segnala molto esplicitamente che il motivo fondante della missione nasce dall’iniziativa del Padre, il quale ha mandato sulla terra il Figlio, che a sua volta invia i discepoli, proseguendo questa catena. A tal proposito, si deve confrontare questa frase con il testo di Gv 17,18: «Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io mando loro nel mondo».
Infine, l’ultimo momento del racconto è rappresentato dalla cosiddetta insufflazione. In Gv 20,22-23 troviamo scritto che Gesù, «Detto questo, soffiò(in greco enefásesen) e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». L’unico motivo per cui ci siamo permessi di segnalare l’espressione «soffiò» in greco è dovuto al fatto che anche nella versione greca dell’Antico Testamento (che gli scrittori del NT generalmente usano), in Gn 2,7, leggiamo lo stesso verbo: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò (enefásesen) nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». L’evangelista intenzionalmente adopera il medesimo verbo, perché stabilisce una relazione tra lo spirito, che diede la vita all’uomo creato da Dio traendolo dalla polvere, e lo Spirito Santo, che conferisce ai discepoli la potestà di “restituire la vita” con l’eccezionale dono della remissione dei peccati a vantaggio della comunità dei credenti. Il passaggio dalla morte alla vita rappresenta una vera specialità dello Spirito. Un altro testo di riferimento si trova in Ez 37,9, nella versione greca, dove, usando lo stesso verbo dei brani precedenti (benché in una forma grammaticale diversa), pure è scritto che lo Spirito soffia, affinché venga restituita la vita ai morti: «Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia (emfáseson) su questi morti, perché rivivano”». E che lo Spirito dia la vita e la risurrezione ben lo esprime Paolo, che rapporta la risurrezione di Cristo alla nostra: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Meditazione
Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’«utilità comune» (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).
Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intraecclesiali, interecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.
Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subito l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?
Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subito e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subito; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subito da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.
Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, da una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.
Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.
Commento a cura di don Jesús Manuel García