“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me… nella Casa del Padre mio vi sono molte dimore….quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”.
Gesù parla così durante l’ultima cena nel cenacolo di Gerusalemme; un discorso non facile per i suoi discepoli, sorpresi già per i gesti che il Maestro aveva compiuto. Avevano partecipato a una insolita cena pasquale con l’istituzione dell’eucaristia, erano stati colpiti dall’inusuale gesto di lavare loro i piedi e dagli insegnamenti che aveva impartito sul servizio, e su chi avendo autorità deve farsi umile servo di tutti. Avevano poi visto fuggire nel buio il loro compagno Giuda e si erano domandati perché e dove andava a quell’ora. Li meravigliava e inquietava adesso quel parlare del Signore intriso di tristezza che ribadiva di non avere paura e di mantenere sempre fede nelle sue parole. Che stava succedendo – si saranno chiesti l’un l’altro -, che vuol dirci il nostro Rabbi con questo linguaggio simbolico e misterioso? E’ in questo clima che si situa la domanda dell’apostolo Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la replica di Gesù li sorprende ancor più: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Leggendo questa pagina del vangelo di Giovanni nella quinta domenica di Pasqua, mi è venuta in mente quel che annota lo scrittore convertito Gilbert Keith Chesterton: “la più alta forma dell’amore è il desiderio della conoscenza”, cioè se tu ami qualcuno vuoi conoscere chi è, cosa gli succede, dove sta e che fa, cosa dice e perché e per chi lo dice. Come l’apostolo Tommaso pure noi possiamo metterci in ascolto della risposta di Gesù: “Io sono la via, la verità, la vita”. In effetti, solo quando si è mossi dall’amore, arde in noi il desiderio di conoscere Gesù e di penetrare i misteri della sua vita. E Lui spiega che “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Gesù cioè è l’unica sicura via, possibile a tutti, per incontrare Dio come Padre, un Padre tenero e misericordioso. Gesù è la Porta, che apre al mistero dell’Amore trinitario, come abbiamo ascoltato domenica scorsa contemplandolo nel simbolo del buon Pastore, pronto a sacrificarsi per le proprie pecore e a difenderle da lupi rapaci. Gesù è la Via, la Porta mistica attraverso la quale viene a noi e noi a Lui; è la Vita che sconfigge la morte; è la Verità che illumina mente e cuore dell’essere umano e lo rende realmente libero. Ma come incontrare questo Dio?
All’apostolo Filippo che gli dice: “Signore mostraci il Padre e ci basta”, Gesù risponde: “Chi ha visto me, ha visto il Padre…. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me”. Come allora nel cenacolo, anche ora le parole del divino Maestro sono invito, stimolo, presenza che si fa compagnia per chi vuole conoscere e incontrare il vero volto di Dio. A questo riguardo, per ogni autentico ricercatore della verità restano vere alcune osservazioni di sant’Anselmo d’Aosta, noto come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (1033- 1109), monaco, filosofo, arcivescovo, che è considerato tra i massimi esponenti del pensiero cristiano medievale. Sant’Anselmo mirava a spiegare come l’intelligenza possa percepire la verità, e perciò diventare capace di aprirsi all’evidenza delle «ragioni necessarie», intimamente sottese al mistero. Egli scrive: “Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino a un certo punto, la tua verità che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire».
Credere per capire! Conoscere, vedere, sentire la presenza di Dio! Malgrado ogni tentativo di negarne l’esistenza, è insistente nell’animo umano un senso di innata inquietudine che non risparmia nessuno. Ci si pone domande esistenziali che non sempre trovano risposte, ed anche chi si proclama ateo o agnostico in fondo non può negare di essere alla ricerca di qualcosa d’altro che non può essere il prodotto di noi stessi. Già sant’Agostino osservava che questo senso di innata inquietudine è la prova che il cuore umano non è fatto solo per realtà, desideri e aspirazioni terreni e materiali. La paura spesso ci accompagna; la curiosità di possedere la verità e la ricerca di significato davanti a realtà che ci fanno soffrire o gioire ci inquietano; il desiderio di felicità e il bisogno di amare e essere amati sono i sintomi di una sete di vita che va oltre l’umanamente possibile. L’arcivescovo americano Fulton Sheen (1895-1979) grande evangelizzatore attraverso la televisione, annotava in un suo celebre discorso sulla fede che non saremmo in cerca di Dio se non lo avessimo già trovato in qualche misura perché, aggiungeva, siamo come dei re in esilio, ma abbiamo un regno.
E’ a quest’anelito vitale d’infinito che fa riferimento Gesù nel suo lungo discorso di addio ai discepoli durante l’ultima cena.. Il vangelo di Giovanni di questa quinta domenica di Pasqua ci immette come compartecipanti in tale intimo colloquio perché Gesù si rivolge ai suoi apostoli, ma oggi anche a noi. Ci esorta ancora una volta a non avere paura e a mantenere salda la nostra fiducia in Lui. Di quanta chiarezza ha bisogno l’essere umano contemporaneo assetato di vita autentica, ma troppo spesso impantanato nelle sabbie mobili dell’incertezza e del dubbio.! Quante volte nella storia e nella vita s’incontrano persone che vogliono prima vedere per poi capire, vogliono capire per credere, uomini e donne in cerca di risposte umane soddisfacenti alle questioni fondamentali dell’io assetato di vita.
E quanti anche senza saperlo, mentre vagano come profughi nel mare della solitudine e della confusione, sono raggiunti dall’amore di un Dio capace di percepire e soddisfare la sete del nostro cuore. Tentazione forte è sempre quella di voler vedere per credere mentre l’esperienza degli uomini che incontrano Dio è esattamente il contrario: solo nell’umiltà della filiale fiducia sta il segreto per poter vedere con gli occhi del cuore il mistero della vita divina.
Il vangelo oggi ci ripropone come modello di inquieto ricercatore della verità, l’apostolo Tommaso che abbiamo già incontrato nella seconda domenica dopo Pasqua quando agli apostoli che gli raccontano di aver visto il Cristo risorto, replica che se non costata con i propri occhi le sue piaghe nelle mani e nel costato, e non tocca con le sue mani non crederà. Siamo nel cenacolo una settimana dopo la risurrezione di Cristo di cui nessuno è stato testimone oculare, ma sia gli apostoli, come alcune donne e altre persone lo hanno però incontrato, toccato risorto e persino hanno mangiato con Lui.
Tommaso appare dunque l’apostolo incredulo che non presta fede ai suoi colleghi, ma quando Gesù, apparso a sorpresa, lo inviterà a mettere il dito nel foro delle mani e la mano nel costato ammonendolo a “non essere più incredulo ma credente”, egli proclamerà la più bella , breve e completa professione della fede cristiana: “Mio Signore e mio Dio”, E a quel punto Gesù concluderà con un saggio ammonimento: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv.20,27-28). Se un uomo crede di sapere tutto, allora nemmeno Dio potrà insegnargli qualcosa. La scoperta di una qualsiasi verità richiede sempre la docilità dell’ascolto e la capacità di voler imparare, ma chi crede di conoscere già tutto raramente è disposto a essere ammaestrato.
“Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo”. Con il salmo responsoriale facciamo nostra l’invocazione del salmista a sperimentare l’amore divino. Nella pagina del vangelo, che stiamo meditando, troviamo una delle più belle forme di autorivelazione di Gesù («Io–sono»), quella in cui egli dice di sé di essere via verità e vita, la strada, cioè, per poter finalmente incontrare il Padre e in Lui fare permanente dimora. Nel libro dell’Esodo si racconta di Mosè che chiede a Jaweh: «Mostrami la tua Gloria!» (Es 33,18). Il Signore non sembra soddisfare quanto gli chiede: “Il mio volto non lo si può vedere” (Es cf.33,19-23). La novità di Gesù, nella risposta a Filippo, sta in quest’affermazione: “Chi vede me vede il padre”. Quindi ci è data la possibilità di vedere il volto del nostro Dio,, come anche Paolo scrive nella lettera ai Colossesi: Gesù Cristo è icona (eikon: “immagine”) del Dio invisibile (cf. Col 1,15). E’ vero, il Padre al momento ci è invisibile, ma giungerà il momento quando, resi simili a lui, lo vedremo come egli è (cfr. 1Gv 3,2), Gesù invece si è già «fatto vedere» (cf. 1Cor 15,5) dagli uomini e resta presente nella Chiesa in tanti modi, ma soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia. E questa è la confortante notizia che in ogni santa messa possiamo sperimentare.
Possiamo oggi pregare con questa stupenda invocazione eucaristica composta da san Tommaso d’Aquino:
“Adoro Te devotamente, oh Dio nascosto,
Sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoti, tutto vien meno.
La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano,
Ma solo con l’udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità.
Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l’umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.
Le piaghe, come Tommaso, non vedo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami”.
AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina Facebook – Sito Web
✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Gv 14, 1-12