La separazione tra Gesù e i suoi “amici” (cf. Gv 15,13-15) è vicina. Il momento è drammatico, eppure Gesù invita i discepoli e invita noi oggi a non far prevalere il turbamento, che Egli ha già sperimentato di fronte alla tomba di Lazzaro (Gv 11,33), di fronte al pensiero della propria morte imminente (Gv12,27), di fronte al tradimento di un amico (Gv13,21), rivelandoci un aspetto inedito della vita divina, così come ce l’hanno raccontata i filosofi nell’antichità, che evidenziavano l’impassibilità di Dio. Gesù, invece, ha scelto di raggiungerci in tutti gli aspetti della vita interiore, anche quelli più bui e così si fa carico della debolezza del nostro turbamento per comunicarci la sua forza che può trasfigurare, non quindi annullare o censurare, ciò che proviamo. Non dobbiamo fuggire dalle nostre debolezze, ma orientarle secondo una direzione diversa, una via che proprio in questo brano si rivela essere Gesù Cristo stesso.
Affinché i discepoli non si rattristino di fronte alla separazione, Gesù si rivolge loro con grande tenerezza e li invita alla fede: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (v.1). Il verbo ebraico “credere” ha infatti una radice che significa “essere stabile” (mantenuta in Amen, ripetuto due volte nel v. 12) e mostra come la fede possa diventare per i discepoli la roccia su cui fondare tutto il resto, l’antidoto al turbamento.
Gesù sa bene che i discepoli si sentiranno sradicati e precari senza la sua presenza e allora li rassicura perché ognuno di loro avrà una casa comune, un posto che Egli preparerà con cura e in cui si ritroveranno nuovamente insieme. Il nostro Dio non è un dio solitario, Egli ama vivere in compagnia di ogni uomo e di ogni donna, si fa dimora accogliente.
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Ricordiamo che i primi due discepoli, per conoscere Gesù vogliono vedere dove abita: “Rabbi, dove abiti?” (Gv1,38b), perché la casa è rivelativa dell’identità della persona che la abita. La loro scelta vocazionale passa per la casa. Gesù da una parte dona a Filippo la risposta definitiva alla domanda che in quel giorno gli posero i primi due, e dall’altra ci indica prima di tutto qual è la sua vera casa: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre in me?” (v.14,10a). Senza indugiare in dettagli, Egli spiega che quella casa non è un luogo, ma una relazione col Padre. La partenza di Gesù, perciò, non deve rattristare i discepoli, ma rallegrarli, perché viene loro offerta la consolante possibilità dell’intima comunione con il Padre attraverso il Figlio (v.6).
Gesù è la casa del Padre nella quale ognuno di noi trova posto, perché l’amore che lo muove e che in Lui trova piena e definitiva manifestazione, non esclude nessuno. Egli ci prepara a dimorare in Lui, ma ci prepara anche ad essere sua dimora. Tale reciproca inabitazione pone le sue fondamenta nell’ascolto della Parola che diventa fatto nel sacramento e nell’amore per i fratelli (Gv15,10; Gv14,34b). Ognuno di noi è chiamato quindi a diventare dimora accogliente dell’altro in nome di un Altro che è fonte inesauribile d’amore.
Il desiderio della casa diventa allora il desiderio di una vita nuova: una vita che inizia oggi, nell’incontro con Gesù; una vita che sa custodire tutti i doni preziosi in essa nascosti; ma anche una vita che guarda avanti, alla casa promessa del Padre. Con una sola certezza: “l’occhio del Signore veglia su chi lo teme, su chi spera nella sua grazia” (Sal 33,18).
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Nel brano vi è anche una delle più belle forme di autorivelazione di Gesù (“Io–sono”), quella in cui dice di sé di essere via verità e vita, la strada, cioè, per poter finalmente vedere il Padre.
La verità è una persona, Gesù Cristo: è Lui che con la sua vita ci ha mostrato la via per andare al Padre, dunque la via è il modo di vivere di Gesù, e vivendo come Lui noi possiamo partecipare alla sua vita, che è vita vera in pienezza, “vita eterna”!
Vedere Dio è il più grande desiderio dell’uomo. La richiesta che ascoltiamo rivolgere da Filippo a Gesù altro non è che l’esplicitazione della domanda profonda presente in ogni cuore. “Mostraci il Padre”: una volta fatto questo, “ci basta”; come a dire, che cos’altro dobbiamo attenderci dalla vita? Le parole di Filippo ci riportano alla mente un altro episodio, un’altra richiesta, quella di Mosè che desiderava vedere il volto di Dio.
Nel libro dell’Esodo, al cap. 33, si racconta di Mosè che chiede al Dio di Israele: “Mostrami la tua Gloria!” (Es 33,18). Il Signore risponde al suo profeta, ma senza soddisfare quanto gli chiede: “Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia. Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. […] Il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,19-23).
La novità di Gesù, la risposta inaspettata data a Filippo, il punto capitale che distingue la nostra fede da quella di Abramo, ma che ad essa non manca di ricondursi, sta in queste parole: “Chi vede me vede il padre” (Gv 14,9). E lo stesso concetto si ritrova in modo simile in uno scritto paolino: Gesù Cristo è icona (eikon: “immagine”) del Dio invisibile (cf. Col 1,15).
Alla stessa maniera, noi, per il nostro modo di vivere, dobbiamo essere una rivelazione di Gesù. Chi ci vede, deve poter vedere e riconoscere in noi qualcosa di Gesù. Su questo sarà costruita la futura comunità cristiana, che comincerà a muovere i primi passi dopo la morte e resurrezione di Gesù: la fede in Lui, accompagnata e arricchita dal dono dello Spirito Santo di cui si parlerà nel capitolo successivo, darà ai discepoli la forza di compiere le stesse opere del Signore “…e anche di più grandi”, (v. 12). Queste opere non saranno in effetti compiute dai discepoli, prendendo Gesù a modello, ma da Gesù stesso: “quello che chiederete in nome mio, io lo farò” (Gv14,13), affinché il Padre sia glorificato.
Le opere di cui qui si parla non sono tanto i miracoli (come potrebbero essere “più grandi” di quelli fatti da Gesù?), ma piuttosto l’annunzio della salvezza e la testimonianza dell’amore, dentro e fuori le comunità cristiane, che rende presente l’azione dello Spirito e compie il miracolo più grande: trasformare i cuori induriti degli uomini in cuori di carne, capaci di riconoscere nella ricerca di Dio il loro bisogno più profondo. Le opere più grandi sono quindi il frutto sovrabbondante che i discepoli, uniti a Cristo, porteranno (Gv 15,5.8.16).
A cura di Annalisa Greco per la Comunità Kairos.
Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay