Il recinto del gregge
Penso, per una volta, di averlo dentro di me, nel cuore profondo della mia storia, e mi metto a camminargli incontro. Il recinto delle pecore è là. E io cammino, sprofondo, stavolta non fuori, dentro.
Banalmente il pensiero mi porterebbe ancora una volta a tessere riflessioni sulla Chiesa e sulla comunità, sulla forma istituzionale e sul ruolo del pastore ma stavolta forzo la consuetudine e, smarrito e confuso come lo sono i discepoli, inverto la rotta, il recinto è uno scrigno che conserva qualcosa di prezioso come i desideri, le speranze, gli affetti, e forse, in fondo, lo scrigno sono io, siamo noi, è la metafora della nostra identità. Abbiamo un gregge di sogni in fondo al cuore, è la parte più preziosa di noi, trovare la strada per raggiungerlo e poi la porta per immergersi in ciò che siamo è il senso profondo della vita.
Mi avvicino, sento che a volte mi sono comportato con me stesso come un ladro o un brigante, ho usato violenza e preteso da me stesso, mi sono imposto decisioni e ho costretto la mia storia a seguire strade che pretendevo mie.
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Sono io il brigante di me stesso, io il ladro della mia felicità. Costa sempre ammetterlo.
Stavolta cammino piano, cammino attento, vorrei capire come si fa ad entrare davvero in contatto con sé stessi, mi lascio leggere dal Vangelo, lo lascio accadere.
Chiamale per nome, mi dice, chiamati per nome. Sii pastore della tua animalità, ama il gregge che ti porti dentro. Dare nome è prima di tutto un atto di verità e la verità pretende coraggio, quel coraggio che spesso mi manca. l nome esclude tutte le altre possibilità. Avrei voluto essere diverso, avrei voluto un altro gregge dentro di me, avrei dato la vita per non essere quello che sono, ho provato per anni a costruirmi altro. È tempo di cedere, di riconoscere, di abbracciare. Dare nome a ciò che si porta in fondo al cuore, dare nome non per possedere, non per legare ma per tracciare mappe di inedita identità.
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Chiama per nome, mi suggerisce la Parola, e fallo ad alta voce, perché più del contenuto spesso illumina la musica. Chiamare per nome ciò che siamo è entrare in sintonia, questione di accordatura, di corde tese sul cuore, si arpeggiano nostalgie, ci si fida di un silenzio che canta. Riconoscere la voce, portare la confidenza nel piano dell’invisibile che si incarna, che famigliarizza.
Porta fuori, l’invito è del maestro interiore, trova la porta e aprila. Io che ho sempre avuto paura di espormi al rischio del confronto cerco ancora una volta di trovare strategie per resistere. Forse è meglio non esporsi troppo, e poi queste pecore sembrano nuvole, se apro queste migrano in cielo e, come le parole, non posso più richiamarle indietro, mi sfuggiranno per sempre. Se apro il recinto io non so più di chi sono, non rischio di perdermi? Rimarrebbe un sepolcro, vuoto.
Mentre sto parlando mi rispondo, mentre sillabo pare che versetti del vangelo si stacchino dalla carta per accusarmi amabilmente, l’hai sempre predicato anche tu che bisogna perdersi e consegnarsi e morire.
Preferirei proteggermi e proteggere il gregge, sbocciare a sé stessi è atto violento, non si può più immaginare di essere fiori diversi, poi. Bisogna accettarsi di essere quelli che siamo, selvatici fiori di campo magari e non rose pregiate.
Da solo non ce la faccio, la mano sulla porta del recinto si blocca, vorrei lasciare tutto come è, credo mi basti ciò che ho fatto, non voglio lasciar libero niente, tengo per me, rischierebbero di macellarle, ho paura di non reggere l’urto della violenza, non voglio più soffrire. Mentre penso questo mi sento un traditore. La strada della fede non pacifica, imploro la Sua mano sulla mia, che Lui mi cammini davanti è l’unica possibilità, non porterei mai il mio gregge al macello del Calvario e da solo fuggirei prima, fuggirei lontano, lo ruberei, sarei ladro per protezione.
Mentre Lui promette di non lasciarmi, e questa è l’unica fede a cui mi appiglio, mentre Lui diviene la porta percorribile io penso a come il rischio di tenere chiuso il recinto non porti a nient’altro che a rimanere estranei a sé stessi. Questo sento essere profondamente vero, se non avessi lasciato a Lui di condurre le danze io non saprei nulla di me, io non mi conoscerei, se non continuassi a fidarmi, se non tentassi ogni giorno di passare per la Sua porta io sarei sconosciuto a me stesso.
Gli credo, per oggi gli credo ancora, domani vedrò, ma per oggi mi fido, lascio che la porta si apra, che il gregge scivoli fuori.
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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