Riconoscere l’altro e se stessi
I testi biblici della terza domenica di Pasqua presentano ancora l’annuncio pasquale. Tuttavia essi lo fanno risuonare in maniere decisamente diverse. In bocca ai due discepoli di Emmaus è inserito in un resoconto scettico di fatti avvenuti (“Egli è vivente”: Lc 24,23); nella predicazione di Pietro riportata negli Atti degli Apostoli diviene un annuncio convinto e pieno di vigore (“Questo Gesù Dio l’ha risuscitato”: At 2,32); infine, nella seconda lettura, compare all’interno della comunicazione di fede che Pietro indirizza alle comunità destinatarie della sua prima lettera (“Dio l’ha risuscitato dai morti”: 1Pt 1,21).
Il Risorto manifesta la sua presenza negli apostoli che sono divenuti suoi testimoni e che annunciandolo lo rendono presente tra gli uomini (cf. At 2,32); nella fede e nella speranza che abitano i credenti (cf. 1Pt 1,21); nella riunione comunitaria e liturgica degli Undici a Gerusalemme (cf. Lc 24,33-35); nella Parola spiegata e nel Pane condiviso (cf. Lc 24,25-32).
Il tema del cammino è presente nelle tre letture. La resurrezione di Cristo è profetizzata dal mutamento attuato da Dio del cammino di morte del fedele in cammino di vita (Salmo 16 citato in At 2,25-28); la fede nel Cristo risorto nasce nei due di Emmaus durante un cammino che non è solo geografico, ma spirituale e che attraversa la disillusione e il dubbio, il vuoto e lo scetticismo (vangelo); la fede nel Cristo risorto dà origine a un tipo di presenza cristiana nel mondo descritta come paroikía, cammino nel timore e nella speranza, cammino come in terra straniera (II lettura).
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In particolare, il testo evangelico mostra che la resurrezione di Cristo diviene esperienza di conversione nella vita dei discepoli, dei credenti. I due di Emmaus, incontrato il Risorto, tornano indietro, si convertono. E un ruolo centrale in questa conversione è giocato dalla spiegazione delle Scritture. È attraverso di essa che avviene l’apertura degli occhi dei due discepoli (“Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”: Lc 24,31). Da che cosa i due discepoli erano accecati o abbagliati? Erano accecati dal loro essere rivolti l’uno verso l’altro, in una dualità chiusa e accecante, in una circolarità senza scampo e senza vie d’uscita, refrattaria a ogni oggettivazione, resistente a ogni impatto con la realtà. Erano accecati dalle loro stesse parole che si scambiavano e perfino scagliavano contro l’un l’altro. E si erano sbagliati nella fede e nella speranza: “Noi speravamo che lui sarebbe stato il liberatore d’Israele” (Lc 24,21). Questa frase denuncia la tentazione perenne delle generazioni cristiane di raffigurare Cristo a propria immagine e somiglianza, di proiettare su di lui i propri desideri e i propri progetti, di addomesticarlo rendendolo un idolo.
I due di Emmaus confessano di aver creduto in Gesù come liberatore politico. Anche in quello non ci avevano visto bene. Ma la spiegazione delle Scritture da parte di Gesù porta i due a ritrovare la vista, a vedere in maniera rinnovata se stessi, la loro relazione reciproca, il loro rapporto con la comunità, e la loro stessa relazione con il Signore. In effetti, leggere autenticamente le Scritture è esperienza pasquale. Proclamare e spiegare le Scritture significa inserirsi nella dinamica pasquale: ogni proclamazione liturgica della Parola dovrebbe essere esperienza di resurrezione grazie allo Spirito che guida chi annuncia e proclama la Parola e che interiorizza la presenza del Signore nel cuore di chi ascolta. Ma dire che la lettura delle Scritture nel suo senso pieno è evento pasquale, cioè inserimento nella dinamica pasquale, significa un impatto decisivo della parola e dello Spirito di Dio sul cuore dell’uomo, sull’esistenza personale. E significa un ri-orientamento dello sguardo.
Riorientamento anzitutto su se stessi. Non si è più fuori di sé, ma si riesce progressivamente, prima confusamente, poi con sempre maggiore precisione, ad ascoltare se stessi, ad aderire a se stessi, a essere se stessi, fino a saper riconoscere che il cuore arde, e che arde per la parole di fuoco del Signore, parole di desiderio e di passione, di sacrificio e di amore. Non si è più fuori di sé, con un centro non in sé, ma in altro da sé, che per i due di Emmaus era un’idea di liberazione politica talmente dominante da offuscare anche la loro visione di Gesù, da impadronirsi della loro immagine di Gesù, così che potevano dirsi fedeli e probabilmente anche zelanti servitori di Gesù, mentre non servivano che se stessi e il loro progetto. E la loro conoscenza di Gesù era solo illusione, errore. Contro la tentazione di forgiare un Gesù a propria immagine, il Risorto indica l’ascolto delle Scritture come antidoto: solo le Scritture consegnano il volto rivelato di Cristo e solo questo può suscitare la conversione.
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Un Gesù adattato alla nostra misura umana non potrà che confermarci in ciò che siamo e facciamo e ci renderà impossibile la conversione. “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi” (Lc 16,31), dice Abramo al ricco che banchettava ogni giorno e che, trovandosi tra i tormenti nell’al di là, chiede ad Abramo di inviare qualcuno dal regno dei morti ad avvertire i suoi fratelli perché si convertano e non finiscano miseramente come lui. Senza l’ascolto della Scrittura anche la resurrezione dai morti si rivelerebbe insufficiente a salvare. Gesù, infatti, è risorto, ma secondo le Scritture, adempiendo le Scritture, realizzando cioè il disegno salvifico del Dio creatore e redentore. Le donne al sepolcro, i due discepoli di Emmaus, gli Undici a Gerusalemme (Lc 24) hanno tutti bisogno di ascoltare le Scritture, di ricordarle, di credervi, di comprenderle, per accedere alla fede nel Cristo Risorto. E noi con loro.
Quindi il riorientamento dello sguardo mette in grado di ritrovare il volto dell’altro e la relazione con lui uscendo dalle durezze e dalle freddezze, dalle impetuosità e irruenze che spesso caratterizzano le relazioni tra fratelli. I due di Emmaus che prima litigavano impegnati a sostenere ciascuno la propria opinione con la foga di chi pensa di aver ragione, si mettono a dialogare, accettano la salvifica mediazione delle parole, non fanno più delle parole dei corpi contundenti, ma le disarmano e le restituiscono al loro compito proprio, che è quello di gestire umanamente i conflitti, di creare spazi sostitutivi alla violenza.
Imparano infine a vedere Gesù e a uscire dall’ironia e dai toni sprezzanti e rozzi con cui prima avevano accolto lo sconosciuto che sembrava essere l’unico in tutta Gerusalemme a non sapere che cosa vi fosse accaduto in quei giorni. Ritrovano poi la vista nei confronti della loro comunità. Tanto che addirittura vi fanno ritorno. E passano da un cammino impregnato di soggettività e senza alcuna oggettività, un cammino di illusione (in cui nell’illusione non vi è solo lo sbaglio, ma anche la dimensione di gioco, di ludus, di leggerezza, di non gravità, di non responsabilità, di non serietà), a un cammino oggettivo, in cui gli altri ritrovano il loro posto e il loro senso.
Infine, il riorientamento dello sguardo li porta a un diverso rapporto con la realtà. Prima si fermavano al livello della cronaca dei fatti e parlavano di quanto riguardava Gesù con distacco, senza coinvolgimento, quasi si trattasse di un estraneo, e senza cogliere gli eventi come segni e compimento (vv. 18-19). Parlavano senza dire, facevano cronaca senza narrare, riportavano senza interpretare. Gesù invece farà una narrazione e darà un’interpretazione degli eventi alla luce delle Scritture, dunque coinvolgendosi e coinvolgendoli. La narrazione parla al corpo, al cuore, che in effetti si scalda, e poi i discepoli stessi, una volta convertiti grazie alla narrazione di Gesù, anch’essi, ritornati a Gerusalemme, arricchiranno la comunità con il racconto della loro esperienza e degli eventi che li avevano coinvolti. Questa narrazione sarà la loro partecipazione all’annuncio ecclesiale che il Cristo è risorto (Lc 24,34): un cammino fuori dalla comunità, addirittura via dalla comunità, un cammino di de-missione, di de-vocazione, che ritorna alla comunità, ritrova e assume nuovamente la responsabilità comunitaria.
È interessante attualizzare il passaggio che, nel nostro testo, Gesù compie agli occhi dei due discepoli: da forestiero sconosciuto a portatore della rivelazione. Lo straniero incontrato non è riconosciuto e si scontra con la diffidenza e la sufficienza dei due discepoli, salvo rivelarsi poi l’inviato di Dio. Il riconoscimento dello straniero passa attraverso un lavoro di memoria che restituisce i due discepoli alla loro storia. Più che sconosciuto, era non-riconosciuto. Riconosciutolo, non lo vedono più (“lo riconobbero, ma egli sparì dalla loro vista”: Lc 24,31), ma sono rinviati a se stessi e possono riannodare i fili della loro storia e ricompattare la loro comunità. Lo straniero che ci visita incrociando i nostri cammini, incontra spesso, analogamente, la nostra diffidenza, il nostro senso di superiorità, la nostra paura, perfino il nostro odio. Ma in verità, noi lo temiamo perché ci conduce al confronto con noi stessi. Lo straniero fa di noi degli stranieri: lui è straniero per me e io lo sono per lui. Egli rivela, personalizzandola con la sua diversità evidente, una dimensione nascosta, e temibile, di me. Riconoscere lui (senza appropriarsi di lui) significa anche riconoscere noi stessi (senza disappropriarci di noi). Allora l’incontro può divenire apparizione.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose